giovedì, Aprile 18, 2024
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Le obbligazioni pecuniarie

Il codice civile contiene una disciplina speciale per le obbligazioni pecuniarie e ciò si giustifica in ragione delle caratteristiche che attengono al loro oggetto: il denaro, bene fungibile per eccellenza. Preliminarmente pare opportuno segnalare che il denaro assolve ad una duplice funzione, potendo rilevare sia come mezzo di pagamento nei rapporti commerciali, sia come unità di misura del valore di un bene. Ciò posto, si badi che non possono considerarsi obbligazioni pecuniarie le obbligazioni aventi ad oggetto pezzi monetari individualmente specificati, come ad esempio l’acquisto di monete per collezioni numismatiche, ciò in quanto, in tale ipotesi, la prestazione consiste proprio nell’obbligo di dare una cosa determinata.

Ora, passando all’analisi della disciplina dettata dal codice per le obbligazioni de quibus, in primis dalla norma di cui all’art. 1277 c.c. emerge che due principi fondamentali governano tale materia: il principio nominalistico e il principio liberatorio.

Quanto al primo, si stabilisce che i debiti aventi per oggetto somme di denaro, inteso non solo come res, quanto piuttosto come strumento di scambio, si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale; invece, il secondo dei principi summenzionati postula che la moneta avente corso legale nello Stato non può essere legittimamente rifiutata come mezzo di pagamento.

Ciò posto, pare il caso di soffermarsi su alcuni problemi di ordine applicativo che si sono posti all’attenzione della dottrina più attenta e della giurisprudenza più autorevole. A riguardo, il problema che si è posto in riferimento al principio liberatorio ha riguardato l’eventualità in cui vengano in rilievo strumenti di adempimento delle obbligazioni pecuniarie alternativi al denaro, possibilità questa non escluda dall’art. 1277 c.c., ma che sarebbe soggetta a regole differenti. In particolare ci si è chiesti in riferimento agli assegni circolari, dell’ammissibilità di un rifiuto del pagamento da parte del creditore, rifiuto non legittimo in caso di pagamento tramite moneta.

Orientamento a lungo dominante riteneva legittimo il rifiuto da parte del creditore del pagamento di un debito pecuniarie mediante assegno circolare, sulla base di una lettura restrittiva della norma di cui all’art. 1277 c.c., in virtù della quale la modalità elettiva di estinzione delle obbligazioni in esame è solo il pagamento con moneta avente corso legale. Da ciò discendeva l’applicabilità del principio liberatorio alla sola valuta.

Sicché, secondo questa impostazione, il pagamento di un’obbligazione pecuniaria attraverso assegno circolare è equiparabile ad una datio in solutum che, ex art. 1197 c.c., necessita del consenso del creditore perché il debitore possa dirsi liberato. In merito si sono, poi, espresse le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione[1]; i giudici di Piazza Cavour hanno accolto l’orientamento minoritario, ritenendo l’assegno circolare un mezzo normale di pagamento, distinto, dunque, dall’istituto della datio in solutum. Il revirement giurisprudenziale è fondato principalmente su una lettura evolutiva, Costituzionalmente orientata, dell’art. 1277 c.c. che superi il dato testuale alla luce della mutata realtà socio-economica. Invero, secondo i giudici i legittimità, l’oggetto della prestazione nelle obbligazioni pecuniarie non è la moneta nel suo substrato materiale, ma il valore economico rappresentato dal denaro, sicché devono ritenersi ammissibili anche altri strumenti di pagamento, purché garantiscano la certezza e la rapidità dell’estinzione dell’obbligazione e la disponibilità effettiva della somma di denaro al creditore.

Da ciò consegue la pacifica applicabilità del principio liberatorio ex art. 1277cc., e, dunque, l’illegittimità del rifiuto eventualmente espresso dal creditore, salvo che ricorra un giustificato motivo che faccia dubitare del buon fine dell’operazione, da valutarsi secondo i criteri di correttezza e buona fede; del resto il giustificato motivo dovrà, non solo essere allegato, ma anche adeguatamente provato in sede processuale. In ogni caso, pecisa il Supremo Consesso, il rischio sulla convertibilità dell’assegno circolare in moneta legale rimane a carico del debitore, per cui l’effetto liberatorio si determinerà solo quando il creditore avrà la disponibilità giuridica della somma oggetto dell’obbligazione.

Il pagamento tramite assegno circolare di un obbligazione pecuniaria è, dunque, una facoltà alternativa di adempimento del debito di valuta e non una datio in solutum. Per ciò che concerne, invece, la portata del principio nominalistico, lo stesso impone che i debiti aventi per oggetto somme di denaro si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. In questo modo il pagamento dei debiti pecuniari viene sottratto all’oscillazione costante del potere di acquisto della moneta, determinando così l’insensibilità dei debiti pecuniari alla fluttuazione del potere di acquisto della moneta, a tutto favore del debitore. Infatti, è il creditore a sopportare il rischio dovuto alle eventuali variazioni del valore reale del denaro, consentendo al debitore di liberarsi pagando la somma pattuita che, a valore nominale inalterato, potrebbe avere un valore reale inferiore rispetto a quello del momento della stipulazione.

A riguardo, per evitare tale effetto discorsivo nei rapporti tra debitore e creditore nelle obbligazioni pecuniarie, avendo, peraltro, piena consapevolezza dell’attualità del fenomeno dell’inflazione monetaria, sono stati elaborati, ora dalle stesse parti contraenti, ora dal legislatore, ora dalla giurisprudenza, svariati correttivi al principio nominalistico. Non risultando particolarmente problematici i primi due – laddove l’equilibrio economico è garantito per via convenzionale (attraverso ad es. l’inserimento di clausole di salvaguardia o di indicizzazione) o ex lege – pare il caso di soffermarsi sul criterio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, laddove risulta dirimente la distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore. A riguardo, infatti, si sottolinea che se nei debiti di valuta l’oggetto immediato e diretto della prestazione è il denaro, ciò non può dirsi per i debiti di valore, che non sono obbligazioni pecuniarie ab origine, difatti, la moneta è il surrogato della prestazione originaria e assolve la funzione di unità di misura dei valori di mercato, dunque, fino al momento dell’adempimento, nel quale la prestazione originaria è convertita in denaro mediante il procedimento di liquidazione, tali debiti saranno sottratti all’applicazione del principio nominalistico, così evitando l’effetto discorsivo dovuto alla rigorosa operatività del principio de quo.

Si segnala, peraltro che la svalutazione monetaria è stata al centro di un annoso dibattito anche per quanto concerne la disciplina dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie dettata dall’art.1224 c.c. In primis pare il caso di premettere che la natura dell’inadempimento di tali debiti non può che consistere nel mero ritardo nel pagamento, quale forma di inesatto adempimento, sub specie temporis, ciò alla luce del noto brocardo per cui “ genus numquam perit” che regola tutte le obbligazioni generiche. In più, l’ambito applicativo dell’art. 1224 c.c. è circoscritto ai soli debiti di valuta aventi ad oggetto ab origine una prestazione di denaro.

Con riferimenti ai debiti di valore, infatti, tale norma diviene applicabile solo nel momento in cui all’esito del processo di liquidazione giudiziale o convenzionale, secondo la cd. tecnica del rimpiazzo o del differenziale, sarà calcolato il valore pecuniario che il bene o la prestazione, oggetto originario dell’obbligazione, avevano al momento in cui la stessa è sorta, attualizzato ai valori correnti al tempo della sentenza, sicché il debito di valore si tramuta in debito di valuta.

Ciò premesso, l’art. 1224 c.c., al I comma, stabilisce che, nel caso di inadempimento, o meglio nel caso di ritardo nell’adempimento, gli interessi legali decorrono dalla mora del debitore, anche se in precedenza non erano dovuti e anche se non vi è prova di alcun danno per il creditore. Tale automatismo degli interessi moratori si spiega in ragione della naturale fecondità del denaro, il danno, cioè, è in re ipsa e va rinvenuto nella mancata tempestiva corresponsione della somma di denaro oggetto della prestazione, oltre che nella circostanza che per tali crediti la mora è ex re. In più, il secondo comma della norma di cui all’art. 1224 c.c. stabilisce che “al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori”. A ciò proposito ci si è chiesti: nel maggior danno può essere ricompresa anche la svalutazione monetaria?

A riguardo, prima nel 1979 e poi nel 2008[2], si sono espresse positivamente le Sezioni Unite della Cassazione, aggiungendo peraltro che la prova di tale maggior danno da svalutazione monetaria può esser dato anche tramite presunzioni e ciò perché, evidentemente, la prova de qua consiste in un quod non esset, ossia nel vantaggio ulteriore che un soggetto avrebbe potuto ricavare dall’utilizzo del denaro e che non ha potuto realizzare, in più, essendo la prova del fatto negativo una probatio diabolica la giurisprudenza ha ritenuto di semplificare la posizione del creditore pecuniario, stabilendo che la prova del maggior danno da svalutazione monetaria è individuabile in via presuntiva , per qualunque creditore che ne faccia richiesta, nel differenziale tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a 12 mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ex art. 1248 c.c.

 

[1] Cfr., Cass., S.U., n. 26617/2007; Cass., S.U., n. 13568/2010.

[2] Cfr., Cass., S.U., n. 19499/2008.

Elena Ficociello

Elena Ficociello nasce a Benevento il 28 luglio del 1993. Dopo aver conseguito la maturità classica presso l'istituto "P. Giannone" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza Federico II di Napoli. Si laurea il 13 luglio del 2017, discutendo una tesi in diritto processuale civile, relativa ad una recente modifica alla legge sulla responsabilità civile dello Stato-giudice, argomento delicato e problematico che le ha dato l'opportunità di concentrarsi sui limiti dello ius dicere. A tal proposito, ha partecipato all'incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura presso la Corte di Appello di Roma sul tema "La responsabilità civile dei magistrati". Nell'estate del 2016, a Stasburgo, ha preso parte al master full time "Corso Robert Shuman" sulla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, accreditato dal Consiglio Nazionale Forense, convinta che un buon avvocato, oggi, non può ignorare gli spunti di riflessione che la giurisprudenza della Corte EDU ci offre. Adora viaggiare e già dai primi anni di liceo ha partecipato a corsi di perfezionamento della lingua inglese, prima a Londra e poi a New York, con la Greenwich viaggi. È molto felice di poter collaborare con Ius in itinere, è sicuramente una grande opportunità di crescita poter approfondire e scrivere di temi di diritto di recente interesse. Contatti: elena.ficociello@iusinitinere.it

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