venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Le Sezioni Unite sullo spazio minimo della cella: la soluzione della questione?

1. Sullo spazio minimo intramurario

La dibattuta e mai (per ora) risolta questione inerente allo spazio minimo da riconoscere a ciascun detenuto all’interno della struttura penitenziaria e, nello specifico nelle singole celle, è una questione che, pur nella sua semplicità, ha suscitato numero interventi delle Corti nazionali ed europee.
Tale tematica si riallaccia, in maniera consequenziale, alla annosa questione che affligge il nostro sistema penitenziario: il sovraffollamento della popolazione carceraria. Argomento che, a ben vedere, è tornato prepotentemente alla ribalta a causa della situazione epidemiologica  che tuttora affligge il nostro Paese.
Appare chiaro quindi che lo spazio minimo che deve essere necessariamente garantito al soggetto detenuto non è solamente frutto dell’applicazione di alcuni principi basilari e costituzionalmente garantiti che a volte possono risultare collocati solamente nell’astrattezza e nell’empireo del diritto, ma una necessità volta a salvaguardare la salute e la dignità di coloro che si trovano ristretti in un istituto penitenziario.

Da un punto di vista numerico, al fine di rendere un dato concreto, lo spazio minimo è di 3 metri quadrati; la problematica concerne le effettive modalità di calcolo. Da qui l’annosa questione, come conteggiare tale spazio?

Una prima indicazione, che ha affrontato in modo ancestrale la questione relativa al sovraffollamento nelle carceri italiane, deriva da una celebre pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo[1] – la c.d sentenza Torreggiani c. Italia – che ha analizzato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano.
Punto centrale di tale sentenza è che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla CEDU e, nello specifico, dalla Costituzione italiana. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può, come spesso accade, avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato.
Orbene in questo contesto, l’articolo 3 CEDU pone a carico delle singole autorità nazionali un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni soggetto detenuto sia posto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. Ecco quindi che la grave mancanza di spazio costituisce un trattamento contrario ai diritti basilari e fondamentali dell’individuo tutelati a livello nazionale e comunitario.  La Corte europea ha, tra l’altro, evidenziato come le carenze delle strutture penitenziarie italiane non si circoscrivessero ad un solo caso, ma avessero portata molto più ampia[2].
Successivamente, nella altrettanto celebre sentenza Muršić c. Croazia[3], la Grande Camera della Corte EDU ha chiarito il metodo per stabilire la rilevanza del sovraffollamento. Ogni cella deve possedere tre requisiti minimi: una superficie di almeno 3 metri quadrati per detenuto, la disponibilità di uno spazio individuale per dormire e la possibilità di muoversi liberamente all’interno. Se una o più tra queste condizioni non sono soddisfatte, sorge sì una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, che tuttavia non è assoluta ma può essere vinta in presenza di altri fattori che bilanciano la gravità della condizioni (ad es. la brevità della detenzione, il periodo tempo trascorso all’aria aperta). Al contrario, se lo spazio a disposizione è compreso tra 3 e 4 metri quadrati, perché sia riscontrata una violazione dell’art. 3 CEDU devono accompagnarsi a tale dato altre inadeguate condizioni detentive. Infine, se lo spazio è superiore a 4 metri quadrati, l’eventuale violazione dei diritti del detenuto sarà determinata solo da altri fattori, senza prendere in considerazione il sovraffollamento[4].

A livello della giurisprudenza nazionale anche la Corte di Cassazione si è espressa in merito alle modalità di calcolo della superfice. In particolare in una sentenza[5] la Suprema Corte ha ritenuto che la superficie a cui si applicano i parametri minimi individuati dalla Corte EDU deve essere intesa come spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo, il che esclude di poter inglobare nel computo gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che ne deriva.
Il Supremo consesso ha affermato che il letto non possa quindi essere considerato come una superficie utile allo svolgimento delle attività sedentarie del detenuto, ma che costituisca, al contrario, una limitazione della possibilità di muoversi.
In una successiva pronuncia la Cassazione ha invece specificato che per spazio minimo individuale del detenuto in cella va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto occupante la cella ed idonea al movimento, con la conseguente necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto.
Nel computo della superficie quindi si deve tenere conto dell’area in cui il detenuto ha libertà di muoversi.
Da tale area vanno poi sottratti gli spazi occupati non solo dai servizi igienici, ma anche dal letto e da tutti gli altri arredi tendenzialmente fissi, che costituiscono un ingombro e limitano la possibilità di movimento (restano invece esclusi gli arredi facilmente amovibili).
In merito alle già richiamate presunzioni si evince che, nel caso di sussistenza della forte possibilità di trattamento degradante del detenuto costituito dall’essere stato costui ristretto in stanza di detenzione in cui lo spazio per il suo movimento sia stato inferiore ai 3 metri quadrati., per il superamento di tale presunzione occorre considerare, unitariamente, la brevità della permanenza in cella in tale condizione, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’esistenza di adeguata offerta di attività da svolgersi fuori della cella, le buone condizioni complessive dell’istituto di detenzione, l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento penitenziario quanto a condizioni igieniche e servizi forniti.
Ecco quindi che anche all’interno della stessa giurisprudenza nazionale si evidenziano dei forti contrasti in merito alle modalità di calcolo dello spazio minimo concesso a ciascun detenuto.
Sul punto una più recente sentenza[6] aveva affermato che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.
Merita poi specificare che, a seguito della summenzionata pronuncia Torreggiani, il legislatore nazionale ha inserito nel codice dell’ordinamento penitenziario l’art. 35 ter.
L’ambito di operatività di tale norma è espressamente circoscritto all’ipotesi di grave pregiudizio cagionato dall’inottemperanza, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, delle disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario consistente nella sottoposizione del ristretto a condizioni detentive non conformi all’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU. Nella specie, la tutela si articola in modalità differenti, a seconda della specifica situazione concreta: in primo luogo, si prescrive la riducibilità della pena detentiva ancora da espiare dal ricorrente – pari a un giorno ogni dieci di pregiudizio sofferto – in ipotesi di violazione attuale e persistente, di durata minima pari a quindici giorni. Qualora il periodo di pena detentiva residuo non sia tale da consentire la suddetta sottrazione percentuale, ovvero la lesione accertata sia di durata inferiore alla soglia temporale prefissata, il ricorrente può ottenere un risarcimento monetario quantificato ex lege in otto euro per ciascun giorno di violazione.
Infine, il successivo comma 3, in un’ottica di chiusura del sistema, sancisce la facoltà di promuovere un’azione in sede civile nel termine decadenziale di sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della misura cautelare inframuraria[7].
Orbene si evince che la tematica in esame non sia così scontata: si registra infatti all’interno della giurisprudenza comunitaria e di quella nazionale delle profonde differenze, foriere di profonde ingiustizie e lesive di diritti costituzionalmente garantiti.

2. Tra incertezze e contraddizioni: la parola alle Sezioni Unite.

Al fine di risolvere la questione, che è del tutto esente dal comportare gravi e concrete conseguenze sul piano pratico, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[8].
La questione origina dall’ordinanza di rigetto del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila nei confronti del reclamo proposto dal Ministero della Giustizia avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza che, in parziale accoglimento dell’istanza presentata ai sensi del’art. 35-ter,  L. 26 luglio 1975, n. 354, aveva concesso al soggetto detenuto una somma di denaro a titolo di risarcimento per violazione dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Avverso tale provvedimento veniva proposto ricorso per cassazione per violazione di legge e non corretta interpretazione dell’art. 35 ter O.P. anche con riferimento alle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo;  secondo il ricorrente l’interpretazione adottata dal Tribunale di Sorveglianza è difforme dall’insegnamento della Corte EDU che, ai sensi dell’art. 35 ter O.P., è vincolante per il giudice nazionale.
La Corte di Cassazione, ravvisando un contrasto, rimetteva la questione alle Sezioni Unite.
In particolare nell’ordinanza di rimessione si osserva che: “per valutare le condizioni detentive, occorre definire i parametri di calcolo dello spazio dei 3 metri quadrati per ciascun detenuto nella cella”. Orbene alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, ed in particolare della sentenza Mugic c. Croazia, è pacifico che nel calcolo non debba essere compresa la superficie occupata dai servizi sanitari, mentre deve essere incluso lo spazio occupato dai mobili, ferma restando la necessità di verificare se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella.
L’ordinanza dà atto, così come evidenziato in precedenza, che la giurisprudenza di non è uniforme sul punto. In particolare gli elementi di contrasto sono ravvisati nella nozione spazio disponibile, inteso – da un lato – come superficie materialmente calpestabile, ovvero – dall’altro – come superficie che assicuri il normale movimento nella cella.
Secondo un primo orientamento, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi, senza alcuna distinzione fra gli stessi.
Per un secondo,  occorre effettuare una fondamentale distinzione tra gli arredi integranti strutture tendenzialmente fisse, di ostacolo al libero movimento, la cui superficie deve essere detratta dallo spazio minimo, e arredi facilmente rimuovibili, che invece non devono essere tenuti in considerazione nel calcolo.
Un contrasto specifico riguarda la superficie occupata dal letto: secondo un primo indirizzo, deve essere sottratta in ogni caso; secondo un altro, invece, deve esserlo soltanto se avente la struttura a castello, incompatibile con la seduta eretta e, quindi, destinato esclusivamente al riposo.
Infine, un altro orientamento opta per una concezione lorda della superficie, che prescinde dalla presenza della mobilia.
L’ordinanza di rimessione segnala inoltre l’esistenza di un altro contrasto relativo ai fattori compensativi, individuati dalla Corte EDU come idonei a mitigare lo scarso spazio disponibile per il detenuto.
Per una parte della giurisprudenza tali fattori rilevano soltanto quando la superficie minima individuale è compresa tra i tre e i quattro metri quadrati, mentre se è inferiore a tre metri quadrati, la detenzione deve ritenersi in ogni caso non conforme all’art. 3 della Convenzione. Al contrario si dovrebbe dare rilevanza ai criteri compensativi qualunque sia la superficie individuale nella cella, ritenendo che gli stessi possano rendere le condizioni della detenzione conformi agli standard convenzionali anche se la superficie individuale è inferiore a tre metri quadrati.
In definitiva, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite era il seguente: “Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”.
Nella decisione le Sezioni Unite analizzano preliminarmente la ratio sottesa all’introduzione dell’art. 35 ter O.P.; in particolare evidenziano come  il nucleo sostanziale della scelta del legislatore nel configurare il nuovo rimedio risarcitorio dell’art. 35 ter O.P. è da rinvenire nel fatto che il giudice nazionale è chiamato ad applicare i rimedi risarcitori a favore del detenuto nei casi in cui la Corte EDU, qualora adita direttamente dal detenuto, potrebbe condannare lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Il contenuto precettivo della norma è poi determinato per relationem, tramite un meccanismo di rinvio mobile, agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU in ordine all’art. 3 CEDU, in quanto le decisioni della Corte EDU hanno il compito non solo di dirimere le controversie di cui è investita, ma, in modo più ampio, di chiarire, salvaguardare e approfondire le norme della Convenzione.
Sul punto la Corte Costituzionale ha affermato che: “alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU: una “funzione interpretativa eminente”, con la quale si assicura la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell’uomo”.
In sostanza ai giudici nazionali è attribuito il compito dell’applicazione e dell’interpretazione del sistema di norme, ma essi non possono ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione
Al giudicante sono imposte inoltre la costante conoscenza e analisi delle decisioni emesse dalla Corte EDU sul tema in questione, poiché oggetto della verifica ex art. 35 ter O.P., sono soprattutto le caratteristiche dell’offerta trattamentale da parte dell’Amministrazione penitenziaria in relazione al particolare vissuto del soggetto interessato.
Da questo si evince che il sistema fin qui delineato impedisce al giudice nazionale di adottare un’interpretazione dell’art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell’obbligo per il giudice di uniformarsi alla giurisprudenza Europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35 ter O.P. che ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem.
Nel delineare la risoluzione della questione, le Sezioni Unite vogliono riaffermare il principio secondo il quale la condizione di detenzione non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle garanzie dei diritti affermati dalla Convenzione che, al contrario, assumono specifica rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui si trova la persona.
Dando atto degli orientamenti della Corte EDU, la Corte di Cassazione si sofferma sull’ultima pronuncia della Grande Camera nel procedimento Muri c. Croazia.
Con tale sentenza la Corte EDU, come evidenziato, ricomprende il complesso delle condizioni di detenzione, positive e negative, in una valutazione unitaria, rispettosa della dignità dell’essere umano detenuto, per il quale l’esperienza carceraria è unica precisando, inoltre, la portata e le caratteristiche del tema dello spazio ridotto riservato ad ogni detenuto in conseguenza del sovraffollamento carcerario, emerso come fattore di notevole rilevanza per la valutazione richiesta.
La Grande Camera opta per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui gioca un ruolo rilevante anche il dato temporale.
Inoltre specifica che: “(…) il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili” e che: “è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”.
Le Sezioni Unite ritengono di interpretare in maniera combinata le due proposizioni in quanto ciò consentirebbe di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, a tutto il mobilio che equivale ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella viene limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.
La duplice regola dettata dalla Corte EDU può essere legittimamente interpretata nel senso che: “quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella“.
Orbene la soluzione interpretativa prescelta dalla Corte di Cassazione nella sua massima composizione, non troverebbe poi una valida obiezione nella possibile allocazione di alcuni arredi fissi, quali gli armadi, fuori dalla cella per consentire la presenza di un maggior numero di persone: da una parte, le istanze di rimedi risarcitori ai sensi dell’art. 35-ter O.P. vengono avanzate con riferimento a periodi di detenzione già trascorsi, per i quali, quindi, non sono ipotizzabili manovre dirette ad alterare il dato dello spazio minimo inferiore a tre metri quadrati posto a base della domanda; dall’altra, la legge fornisce il diverso strumento previsto dall’art. 35 bis, c. 3, O.P..
Concludendo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dettano il seguente principio: “Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.
La Corte inoltre detta alcune specifiche in merito all’art. 35 ter O.P..
La nozione di fattori compensativi si attaglia soltanto a quelli di carattere positivo che, in qualche modo, possono attenuare il disagio di uno spazio troppo ristretto all’interno della cella; ma, come si vedrà, anche i fattori di natura negativa possono interagire con il sovraffollamento ai fini di una valutazione di avvenuta violazione dell’art. 3 CEDU e conseguente accoglimento dell’istanza di rimedio risarcitorio.
È possibile affermare che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti è frutto di una valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale da parte dell’Amministrazione penitenziaria in caso di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non violando la regola dettata dalla Corte EDU, possa costituire un fattore negativo ai fini della valutazione delle condizioni complessive di detenzione.
In questa ipotesi la contestuale sussistenza di altri fattori negativi potrà portare a ritenere violato l’art. 3 della Convenzione. Tali fattori sono indicati nella mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, nella cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell’assenza di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche.
Sul punto quindi la Corte di Cassazione afferma che: “deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter O.P.”.

3. Conclusioni.

Le Sezioni Unite intervengono su una questione particolarmente delicata che ha interessato, come visto, la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale.
In particolare la problematica interpretativa concerneva i criteri di calcolo dello spazio minimo garantito e, nello specifico,  se anche il mobilio, non facilmente amovibile, rientrasse in tale somma.
La Corte di Cassazione, muovendo dalle indicazioni delineate dalla Grande Camera nel procedimento Muri c. Croazia, ritiene di interpretare in maniera combinata le disposizioni delineate dalla giurisprudenza comunitaria in quanto questo consentirebbe di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, a tutto il mobilio che equivale ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.
La duplice regola dettata dalla Corte EDU può quindi essere legittimamente interpretata nel senso che, quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella.
Finalmente la risoluzione della questione?

 

[1] Corte EDU, sez. II, causa Torreggiani e altri c. Italia, 08.01.13, ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10
[2] A cura della redazione, Sentenza Torreggiani: Strasburgo condanna l’italia, in Giur. pen., 01.04.13 link.
[3] Corte Edu, Grande camera, 20.10.16, ricorso n. 7334/13
[4] M. Mariotti, Ancora sul sovraffollamento carcerario: nel calcolo della superficie della cella è compreso lo spazio del letto? la cassazione interpreta la giurisprudenza di Strasburgo in modo particolarmente favorevole ai detenuti, in DPC, 29.03.17 link.
[5] Cass. Pen., sez. I, 09.09.16, n. 52819.
[6] Cass. Pen., sez. I, 30.10.20, n. 33822.
[7]L. Frabboni, Trattamento inumano o degradante nella detenzione: calcolo dello spazio minimo pro capite e fattori compensativi della strong presumption di violazione dell’art. 3 CEDU. La parola alle Sezioni Unite, in Giur. Pen. Trim, n. 3, 2020, p. 54.
[8] Cass. Pen., SS.UU., 19.02.21, n. 6551.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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