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Legge di Bilancio 2019: perché la manovra economica spaventa i mercati?

La nuova legge di Bilancio (dalla Legge di bilancio per il triennio 2017-2019, per effetto delle modifiche normative intervenute a seguito della Legge rinforzata n. 243 del 2012 e la Legge n. 163 del 2016, viene eliminata la legge di stabilità e contestualmente la legge di bilancio assume natura di legge sostanziale) è la legge con la quale viene approvato ogni anno il bilancio dello Stato e al cui interno sono inoltre racchiuse un insieme di norme in materia di spese pubbliche, entrate fiscali, indebitamento dello Stato e coordinamento con l’attività economica di regioni, province e comuni. Rappresenta il documento di finanza pubblica per eccellenza, nel quale viene data attuazione agli obiettivi prefissati dal governo per i successivi tre anni.

L’iter legislativo[1] propedeutico alla sua approvazione rispecchia senza dubbio la complessità e l’importanza rappresentata dalla legge. Molto sinteticamente, le principali tappe riguardano:

  • La presentazione, entro il 10 aprile, del Documento di Economia e Finanza[2] (DEF) alle Camere;
  • L’approvazione e trasmissione del DEF alle istituzioni comunitarie entro il 30 aprile, al fine di armonizzare le politiche economiche all’interno dell’UE;
  • Nel mese di giugno la Commissione europea elabora le raccomandazioni di politica economica e di bilancio rivolte ai singoli Stati;
  • Una volta completato il processo di coordinamento delle politiche economiche e al fine di tener conto delle eventuali raccomandazioni formulate dalle autorità europee, è quindi prevista la presentazione, entro il 27 settembre di ciascun anno, di una Nota di aggiornamento[3] al DEF;
  • La fase di attuazione degli obiettivi programmatici contenuti nel DEF (o nella Nota di aggiornamento) dovrà essere realizzata attraverso la presentazione alle Camere, entro il 20 ottobre di ciascun anno, del disegno di legge del bilancio dello Stato, che incorpora al suo interno la manovra di finanza pubblica su base triennale;
  • Le previsioni macroeconomiche, gli obiettivi di saldo di bilancio, le proiezioni delle principali voci di entrata e spesa, il livello del debito pubblico e i fattori che ne determinano l’evoluzione, la descrizione delle principali misure inserite nel disegno di legge di bilancio, dovranno essere inserite nel Documento Programmatico di Bilancio[4] (DPB), che dovrà essere presentato alle istituzioni europee entro il 15 ottobre. Sulla base del DPB, entro il 30 novembre le istituzioni europee presenteranno un parere sul disegno di legge adottato;
  • Entro il 31 dicembre dovrà essere approvata definitivamente dal parlamento italiano la legge di bilancio, altrimenti scatterà il regime di esercizio provvisorio nel quale non sarà possibile per lo Stato prevedere spese per più di un dodicesimo rispetto a quanto speso nell’anno precedente;
  • Entro il successivo mese di gennaio dovranno essere presentati gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, in precedenza indicati a loro volta nel DEF, ovvero nella Nota di aggiornamento del medesimo.

Quest’anno, a differenza degli anni passati, la situazione è stata particolarmente più complessa.

A causa dell’incertezza generatasi all’indomani del voto del 4 marzo, il Governo uscente, costretto dalle imminenti scadenze, ha dovuto formalizzare un DEF di natura non programmatica che prospettasse un quadro economico-finanziario tendenziale, senza considerare futuri interventi legislativi: “Per i prossimi anni il quadro tendenziale (a legislazione vigente) dimostra il rafforzamento del sistema economica del Paese con il PIL che “in via prudenziale” viene stimato in crescita dell’1,5% nel 2018 e all’1,4% nel 2019, il rapporto deficit/pil che prosegue il cammino di discesa collocandosi all’1,6% nel 2018 allo 0,8% nel 2019 per raggiungere il pareggio nel 2020. Anche il rapporto debito/pil è previsto in calo al 130,8% nel 2018, al 128% nel 2019, al 124,7% nel 2020. Il quadro economico-finanziario prospettato nel DEF, non avendo natura programmatica, contempla l’aumento delle imposte indirette nel 2019 e, in minor misura, nel 2020, previsto dalle clausole di salvaguardia in vigore. Come già avvenuto negli anni scorsi, tale aumento potrà essere sostituito da misure alternative con futuri interventi legislativi che potranno essere valutati dal prossimo Governo[5].

Il successivo raggiungimento dell’accordo di Governo tra il Movimento 5 Stelle e la Lega ha portato alla nascita di un nuovo esecutivo le cui proposte all’interno dei rispettivi programmi risultavano particolarmente onerose in termini di spesa per le finanze pubbliche. Le voci di spesa più rilevanti sono rappresentate dal finanziamento del c.d. “reddito di cittadinanza”, l’introduzione della c.d. “pensione di cittadinanza”, l’abolizione della legge Fornero e l’istituzione della “flat tax” al 15%, senza contare la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia (al fine di scongiurare l’aumento dell’Iva nel 2019), e molte altre misure proposte[6], rappresentano, senza volerle giudicare nel merito, una spesa importante dell’ordine di decine di miliardi di euro per lo Stato (si parla ufficialmente di 37 miliardi[7] di euro).

I primi ad allarmarsi per la tenuta dei conti pubblici furono i mercati, all’indomani della presentazione del “Contratto di Governo” con il quale i due sopracitati partiti formalizzarono ufficialmente gli obiettivi da conseguire durante la legislatura, vincolandosi entrambi con un contratto ispirandosi al modello tedesco (il Koalitionsvertrag)[8]. Le stime derivanti dall’onerosità delle proposte contenute al suo interno spaventarono i mercati, portando lo spread[9] tra il BTp e il Bund a sfondare quota 300 basis point il 29 maggio 2018, per poi stabilizzarsi durante l’estate sui 240 punti base.

Superata l’estate, sopraggiungevano all’orizzonte gli appuntamenti autunnali con la Nota di aggiornamento del DEF in primis. Con quest’ultima viene formalizzata ufficialmente la principale voce necessaria a finanziare le misure proposte: verranno prese risorse a debito che porteranno il rapporto deficit/pil previsto per il 2019 al 2,4% ma con la previsione di discesa al 2,1% nel 2020 per chiudere all’1,8% del 2021. Seppur nel limite dei parametri di Maastricht (deficit/pil= 3%), il rilevante scostamento rispetto agli accordi presi in precedenza al fine di riportare tale indicatore in pareggio e conseguire una riduzione del rapporto debito/PIL, non sta trovando pareri favorevoli dalle istituzioni europee, preoccupate per le conseguenze sulla stabilità dell’intera eurozona che tale manovra potrebbe creare.

Gli effetti sui mercati non si sono fatti attendere, con lo spread che dai primi di ottobre è tornato stabilmente ai livelli del 2013, superando quota 300 punti base (314 alla chiusura del 19 ottobre 2018, pari a un rendimento dei BTp del 3,59%). Le cause di quest’aumento non sono univoche e di facile individuazione, come a prima vista potrebbe sembrare. Ovviamente la situazione attuale contribuisce all’aumento dei rendimenti (il che comporta un maggior esborso da parte dello Stato per ripagare gli interessi agli investitori), tuttavia ci sono altre dinamiche di fondo da analizzare e mettere a sistema, per capire in maniera più approfondita quali sono le reali preoccupazioni dei mercati.

Innanzitutto, il mercato sta già iniziando a prezzare un probabile downgrade da parte delle principali agenzie di rating: entro la fine di ottobre Moody’s e S&P potrebbero declassare il loro giudizio sul debito italiano dal livello investment grade a junk (spazzatura). Tali giudizi rispecchiano la capacità dello Stato di far fronte adeguatamente ai suoi impegni finanziari anche sotto condizioni economiche avverse. Le conseguenze di un declassamento sarebbero disastrose, i rendimenti schizzerebbero ulteriormente in alto e il costo per lo Stato aumenterebbe di pari passo. Ciò è stato confermato recentemente da un’intervista[10] a Yngve Slyngstad, CEO del fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo che ha affermato che finché l’Italia manterrà l’attuale grado di giudizio non ci saranno motivi per non investire, ciò è spiegato dal fatto che le regole di investimento per Paesi e società junk sono ovviamente diverse. Le banche italiane sarebbero le prime a scontare un simile avvenimento. Essendo detentrici di un’importante fetta di titoli di stato, un declassamento di questi minerebbe il valore del patrimonio di tutti gli istituti, con effetti maggiori su quelli più deboli. Per lo stesso motivo, sarebbe molto più costoso far fronte a momentanee richieste di liquidità poiché le garanzie necessarie per ottenere prestiti sarebbero maggiori ed eventuali emissioni obbligazionarie avrebbero costi insostenibili. Tutto ciò si rifletterebbe nell’economia reale, poiché la pressione esercitata sui bilanci degli istituti avrebbe il rischio di tradursi in una minore capacità di erogare credito e offrire quindi condizioni meno vantaggiose per chi contrae mutui e prestiti.

In secondo luogo, come messo in evidenza da un articolo[11] del Wall Street Journal a firma di Jon Sindreu, è importante notare come il rischio più grande per l’eurozona non è tanto rappresentato dalla previsione dell’aumento del rischio d’insolvenza di un Paese, che fa sì aumentare gli spread, ma non a livelli allarmanti; bensì, gli spread raggiungono livelli significativi allorquando si prevede una crescita importante della probabilità di uscita dall’euro (Grecia docet). Tale ipotesi è supportata da “Calipso”[12], una società esperta in mercati finanziari che, analizzando le quotazioni dei Credit Default Swap[13] (CDS) è emerso che il mercato sta assegnando all’insolvenza dell’Italia una probabilità inferiore (13,9%, dato aggiornato al 19 ottobre 2018) rispetto alla probabilità che si verifichi un’uscita dell’Italia stessa dall’unione monetaria (25,5%, dato aggiornato al 19 ottobre 2018). In sostanza, tali valori indicano che il vero rischio per gli investitori non è rappresentato da un rischio d’insolvenza dell’Italia, ma dalla possibilità di uscita dall’euro, con conseguente ridenominazione in lire dei titoli in portafoglio. La conseguenza per l’investitore è di trovarsi con titoli di stato italiani acquistati in euro ma convertiti in seguito in lire, con una perdita causata da una molto probabile svalutazione stimata circa al 30%.

Un’ultima, ma non meno importante, considerazione riguarda la fine del Quantitative Easing[14] (QE) da parte della Banca Centrale Europea (BCE). Il QE ha permesso per molti anni all’Italia (come anche ad altri paesi in difficoltà) di contrastare la diminuzione dell’esposizione degli investitori esteri nei confronti dei BTp italiani, causata dalla crisi del debito sovrano europeo nel 2010. Tale crisi portò i governi europei ad avere difficoltà nel finanziamento dei deficit di bilancio. La risposta dell’Unione Europea è stata inizialmente individuata nelle politiche di “austerity”, tradotte in pesanti manovre fiscali con il fine di recuperare liquidità atte a ridurre gli enormi debiti pubblici. Smisurate furono le critiche all’operato dell’UE, che generarono un grande senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni europee. Fu così che nel gennaio 2015, su iniziativa del Presidente della BCE, Mario Draghi, venne introdotta la soluzione alternativa del Quantitative Easing, con la quale fu annunciato un programma di acquisto mensile di titoli di stato europei tra i 60 e gli 80 miliardi. Negli ultimi tre anni, sostanzialmente, la BCE si è “sostituita” agli investitori privati, consentendo di abbassare i rendimenti e mantenere sotto controllo gli spread europei, iniettando nel contempo nuova liquidità all’intero sistema (prerogativa della BCE) al fine di conseguire l’obiettivo europeo di un tasso d’inflazione intorno al 2% annuo. Tale programma, dopo una progressiva diminuzione, scadrà alla fine dell’anno, ma i titoli in scadenza saranno comunque reinvestiti in nuovi titoli. Fino a qui nessun problema allora, ma la preoccupazione è un’altra: finché il livello del debito rimarrà costante, non dovrebbero esserci problemi, ma se l’attuale governo ha in programma di creare nuovo deficit da finanziare a debito per coprire le misure proposte, allora potrebbero esserci seri problemi di finanziamento, giacché nuovi investitori disposti ad accollarsi titoli di debito prossimi ad un declassamento (leggasi meno sicuri ed esposti a un elevato rischio di perdita) da parte delle maggiori agenzie di rating, non se ne vedono. Senza contare che, nel caso in cui gli attuali possessori di titoli italiani preferissero optare fin da subito per un disinvestimento delle loro quote in questo momento presenti in portafoglio (o anche posteriormente, a causa di un declassamento del rating italiano sui titoli di stato), questo potrebbe alimentare ulteriormente la crescita dello spread che si tradurrebbe in notevoli costi per la spesa in interessi per lo Stato italiano: basti pensare che, per esempio, se alla Germania farsi prestare un milione di euro per 10 anni costasse l’1% all’anno, ovvero 10 mila euro, con uno spread intorno ai 400 punti il costo per l’Italia, per lo stesso milione di euro, sarebbe pari a 50 mila euro annui.

In conclusione, alla luce delle considerazioni fatte, appare evidente come l’intera situazione italiana stia incidendo considerevolmente sui mercati che, tuttavia, secondo il parere di chi scrive, stanno reagendo molto bene all’attuale situazione economico-finanziaria e ai possibile scenari futuri prospettati.

La sensazione è che il “braccio di ferro” tra il governo italiano e le istituzioni europee si risolverà in un accordo reciproco che accontenti entrambi.

I primi hanno tutto l’interesse a mandare avanti il pacchetto di misure promesse durante la recente campagna elettorale propedeutica alle elezioni politiche del 4 marzo. Tuttavia, devono necessariamente tenere conto e non possono assolutamente ignorare i segnali mandati dai mercati, che renderebbero una manovra già particolarmente onerosa molto più pericolosa a causa dell’insostenibilità prospettata dall’aumento degli interessi sui titoli di stato, che porterebbe il costo del debito a livelli insopportabili, levandosi all’orizzonte il concreto rischio d’insolvenza.

Le istituzioni europee, invece, si trovano di fronte ad una situazione difficile e totalmente nuova: mai prima d’ora si è concretamente prospettata la possibilità di rigettare la manovra di uno Stato membro dell’Unione (per di più uno dei fondatori della stessa) e tutto questo avviene a soli sette mesi dalle elezioni europee, con le quali saranno rinnovate le componenti delle sopracitate istituzioni. Tuttavia, allo stesso tempo, uno degli obiettivi dell’Unione Europea è rappresentato dal sostegno allo sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia di mercato altamente competitiva; per questo motivo, le prospettive di un possibile fallimento di uno Stato devono essere prese seriamente in considerazione, poiché si rischierebbe di generare una crisi che, a seguito di un potenziale contagio, metterebbe a rischio la tenuta dei mercati e di tutto l’Eurosistema.

 

[1] http://leg16.camera.it/561?appro=687

[2] http://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1112324.pdf

[3] La Nota consente di tener conto d’informazioni e dati più dettagliati rispetto a quelli disponibili nel mese di aprile e di procedere all’eventuale aggiornamento degli obiettivi programmatici fissati dal DEF.

[4] http://www.rgs.mef.gov.it//VERSIONE-I/attivita_istituzionali/previsione/contabilita_e_finanza_pubblica/documento_programmatico_di_bilancio/

[5] http://www.mef.gov.it/inevidenza/article_0352.html

[6] L. Pone, “Dal milleproroghe al DEF: è iniziato ‘l’autunno caldo’” (https://www.iusinitinere.it/dal-milleproroghe-al-def-e-iniziato-lautunno-caldo-13009).

[7] Dati aggiornati al 16 ottobre 2018, fonte ANSA su dati MEF.

[8] V. Baldini, “Il contratto di governo: più che una figura nuova della giuspubblicistica italiana, un (semplice…) accordo di coalizione.” ).

[9] Lo spread di cui si sente comunemente parlare è un termine al quale ci si riferisce per indicare il differenziale dei tassi d’interesse tra il titolo di stato italiano decennale (BTp) e l’equivalente obbligazione decennale tedesca (Bund).

[10] E. Marro, “Il più grande fondo sovrano del mondo: «Compriamo BTp ma con rating junk cambierebbe tutto»” (https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-10-03/il-piu-grande-fondo-sovrano-mondo-compriamo-btp-ma-rating-junk-cambia-tutto-092047.shtml?uuid=AEZlgBGG).

[11] J. Sindreu, “Investors Should Call Italy’s Bluff” (https://www.wsj.com/articles/investors-should-call-italys-bluff-1538135681).

[12] http://calipso-gbf.it/www/index.html#risk

[13] Un Credit Default Swap è un particolare tipo di swap progettato per trasferire l’esposizione creditizia tra due o più parti. In un credit default swap, l’acquirente dello swap effettua pagamenti al venditore dello swap fino alla data di scadenza del contratto stipulato. In cambio, il venditore accetta che, nel caso in cui l’emittente del debito sia inadempiente o verifichi un altro evento di credito, il venditore pagherà all’acquirente il premio del titolo nonché tutti i pagamenti di interessi previsti che sarebbero dovuti essere pagati tra quel momento e la data di scadenza del titolo.

[14] F. Cimino, “Whatever it takes. Storia delle recenti decisioni di politica monetaria della Banca Centrale Europea” (https://www.iusinitinere.it/whatever-it-takes-storia-delle-recenti-decisioni-di-politica-monetaria-della-banca-centrale-europea-11136).

Matteo Capasso

Matteo Capasso nasce a Roma nel 1995. Consegue la maturità tecnica industriale in elettronica e telecomunicazioni nel 2014. Si laurea in Scienze Economiche nel 2017 presso la facoltà di economia dell’Università "La Sapienza" di Roma. Nello stesso anno inizia il corso di laurea magistrale in FINASS (Finanza e Assicurazioni), specializzandosi nel comparto assicurativo. Da settembre 2020 lavora presso Mediocredito Centrale, occupandosi dell'istruttoria delle domande di garanzia pervenute presso il Fondo di Garanzia per le PMI.

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