venerdì, Aprile 19, 2024
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L’embedding, un nuovo “arrivo” per il diritto d’autore

L’espressione embedding deriva dal termine inglese “embedded”, il quale indica l’incorporazione di un oggetto in un altro o, più facilmente, di un contenuto digitale su di una diversa piattaforma, e così via.

In generale, con il termine embedding ci si riferisce all’incorporazione all’interno di una piattaforma digitale di un codice informatico pubblicato altrove. Tale attività è diversa, occorre precisare, dal mero linking, tramite cui si crea un semplice collegamento ipertestuale (c.d. “reindirizzamento”) al sito web originario su cui risiede il materiale di interesse di cui l’utente intende fruire.

Tramite la pratica dell’embedding, invece, il contenuto sarà fruito direttamente sulla piattaforma “incorporante”.

Tale operazione di embedding, però, suscita alcune perplessità in materia di tutela autoriale, in quanto risulta difficoltoso stabilire, nell’era della condivisione di contenuti digitali e/o multimediali in genere, quando sussista o meno una violazione del diritto dell’autore degli stessi.

Ad esempio, l’embedding di un’opera audiovisiva su un sito diverso da quello originariamente autorizzato alla sua pubblicazione è stato oggetto di un rinvio pregiudiziale proposto innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nell’ambito della vicenda giudiziale intercorrente tra VG Bild-Kunst e Stiftung Preußischer Kulturbesitz ex ante la Corte Federale di Giustizia tedesca.

LA domanda pregiudiziale proposta (causa C-392/19 [1]), in specie, verteva sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001[2], sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione.

La VG Bild-Kunst, nota società di informazione tedesca, si era infatti rifiutata di stipulare un contratto di licenza con la SPK per l’utilizzo del suo catalogo di opere senza l’inclusione di una clausola che obbligasse quest’ultima, in qualità di licenziataria, ad attuare, nell’utilizzare le opere protette oggetto del menzionato contratto, misure tecnologiche efficaci contro il framing di queste ultime da parte di terzi.

A fronte di tale situazione, la Corte federale di giustizia tedesca ha, quindi, domandato alla Corte “se l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 debba essere interpretato nel senso che l’inserimento mediante framing, nel sito Internet di un terzo, di un’opera disponibile, con il consenso del titolare dei diritti d’autore, su un sito Internet liberamente accessibile costituisca una comunicazione al pubblico di tale opera ai sensi di detta disposizione, qualora tale inserimento eluda le misure di protezione contro il framing adottate o imposte da detto titolare”.

Giova evidenziare, sul punto, che le conclusioni presentate dall’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Maciej Szpunar all’esito della presente causa si sono rivelate di grande interesse sotto il profilo dell’embedding.

In particolare, L’A.G. ha tracciato una forte linea di demarcazione, da un punto di vista tecnico-giuridico, tra gli istituti del framing (“che consiste nel dividere la schermata in più parti, ognuna delle quali può presentare il contenuto di un altro sito Internet”) e dell’embedding (o “collegamento automatico” che “mostra la risorsa quale elemento che costituisce parte integrante della pagina Internet contenente tale link”[2]).

Viene sottolineato, quindi, che, mentre una ripubblicazione di contenuti di una pagina di un sito condivisa attraverso la tecnica di framing è pacificamente riconosciuta come legittima, e ciò anche in assenza di un espresso consenso da parte dell’autore che aveva autorizzato la prima pubblicazione sul sito d’origine, così non può essere per quanto riguarda l’embedding.

Tale asserzione è motivata, si precisa, dal fatto che, nei casi di embedding, per l’utente “non vi è [..] alcuna differenza tra un’immagine incorporata in una pagina Internet a partire dallo stesso server e quella incorporata a partire da un altro sito Internet”.

È proprio sulla base di tale situazione di fondo, nonché dando stura ai principi precedentemente espressi dalla stessa Corte di Giustizia nella sentenza Renckhoff (del 7 agosto 2018, causa C‑161/17 [4]), che viene affermato che “nel caso di un collegamento automatico, il pubblico che gode dell’opera non può essere considerato in alcun modo come costituente il pubblico del sito originario dell’opera. Infatti, per il pubblico, non esiste più alcun legame con il sito originario: tutto avviene sul sito che contiene il link. È quindi il pubblico di quest’ultimo sito a beneficiare dell’opera”.

Non risulta, pertanto, presumibile che “il titolare dei diritti d’autore abbia preso in considerazione tale pubblico nel rilasciare la propria autorizzazione per la messa a disposizione iniziale, salvo ritornare alla costruzione del pubblico costituito da tutti gli utenti di Internet”.

Avvalendosi, tra le altre, di tali e tante considerazioni, la Corte di Giustizia ha, quindi, dichiarato “che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 deve essere interpretato nel senso che costituisce una comunicazione al pubblico, ai sensi di tale disposizione, il fatto di incorporare, in una pagina Internet, opere protette dal diritto d’autore messe a disposizione del pubblico in modo liberamente accessibile con l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore su altri siti Internet, in maniera tale che dette opere siano automaticamente visualizzate su tale pagina non appena viene aperta, senza alcuna azione supplementare da parte dell’utente”.

In quest’ottica, la Corte ha ritenuto che, nel caso in cui il titolare del diritto d’autore abbia adottato e/o imposto sin dall’inizio misure restrittive che limitano l’accesso alle sue opere a partire da siti internet diversi da quello sul quale ha autorizzato la comunicazione al pubblico di tali opere, si deve ritenere che abbia espresso l’intenzione di limitare il pubblico di tali opere esclusivamente agli utilizzatori di un determinato sito

Tuttavia, al fine di garantire la certezza del diritto, il titolare del diritto d’autore è tenuto a limitare il proprio consenso mediante misure tecnologiche efficaci contro il framing e, pertanto, laddove queste siano state predisposte, l’incorporazione di un’opera in un sito web di terzi mediante la tecnica del framing costituisce un atto di messa a disposizione di tale opera a un nuovo pubblico, che deve essere autorizzato dal titolare del diritto.

Conseguentemente, non costituisce una comunicazione al pubblico, ai sensi di tale disposizione, l’incorporazione nel sito di un terzo, mediante un collegamento che utilizza la tecnica del framing, di un’opera messa a disposizione del pubblico in modo liberamente accessibile su un sito Internet con il consenso del titolare dei diritti qualora tale incorporazione eluda misure di protezione contro il framing adottate o imposte dal titolare dei diritti d’autore [5].

Parrebbe, quindi, che la pratica dell’embedding non debba essere considerata una violazione del diritto d’autore quando il contenuto, oggetto del riutilizzo su un nuovo sito, sia già pubblico.

Tale affermazione trova una solida base, si rileva, su altre due pronunce della Corte di Giustizia Europea rese, rispettivamente, nel caso “BestWater” (C-348/13) [6] e nel caso “Svensson” (C-466/12) [7].

Ambedue le menzionate pronunce, si sottolinea, muovevano dal presupposto che le opere protette, rese accessibili attraverso siti terzi con le tecniche del “linking” e del “framing” (articoli giornalistici, nel caso “Svensson” e un audiovideo nel caso “BestWater”), erano già liberamente accessibili in Internet, attraverso il sito d’origine, senza alcuna limitazione.

Nella “risoluzione” delle problematiche sottopostele in tali due casi, la Corte di Giustizia ha trovato valido aiuto nella Direttiva “Infosoc” 2001/29/CE [8], la quale all’art. 3 stabilisce che “qualsiasi comunicazione di un’opera al pubblico” deve essere autorizzata dal titolare del diritto d’autore” e che “il diritto di autorizzare o vietare la messa a disposizione del pubblico delle proprie fissazioni è espressamente attribuito agli organismi di diffusione televisiva”.

Nei considerando 23 e 24 della medesima Direttiva, inoltre, si chiarisce che “tale diritto deve essere inteso in senso lato in quanto concernente tutte le comunicazioni al pubblico non presente nel luogo in cui esse hanno origine. Detto diritto dovrebbe comprendere qualsiasi trasmissione o ritrasmissione di un’opera al pubblico”.

Inoltre, il diritto di messa a disposizione del pubblico proprio degli organismi di diffusione televisiva “andrebbe inteso come riguardante tutti gli atti che mettono tale materiale a disposizione del pubblico non presente nel luogo in cui hanno origine tali atti”.

Su tali presupposti la Corte UE aveva, quindi, stabilito che, ove l’opera protetta sia originariamente messa a disposizione della massa indistinta di utenti di Internet senza alcuna limitazione di accesso e con l’autorizzazione del titolare dei diritti, l’attività di linking o di embedding, pur costituendo atto di comunicazione al pubblico, non necessita di una specifica autorizzazione.

Condizione fondamentale, quindi, perché non vi sia una violazione del diritto d’autore, è che l’attività non consenta l’accesso all’opera ad un pubblico “nuovo” rispetto a quello che, potenzialmente, vi avrebbe potuto accedere direttamente attraverso il sito d’origine.

Recentemente, la tematica embedding ha “oltrepassato l’oceano” ed è stata oggetto di una pronuncia dei giudici statunitensi. In specie, il Tribunale Federale di New York (Ninth Circuit) ha stabilito che la violazione di copyright si realizza anche con la mera attività di embedding ovvero, con riferimento al caso concreto, incorporando un tweet in una pagina web diversa da quella del suo autore.

Justin Goldman, un fotografo, aveva pubblicato su Snapchat una fotografia scattata per strada nel 2016 del quarterback della NFL Tom Brady con il general manager dei Boston Celtics Danny Ainge e altri manager. In seguito, il post aveva raggiunto una certa popolarità su diversi social media, come Twitter, andando ad implementare le voci secondo cui Brady stesse collaborando con i Celtics.

Diverse organizzazioni giornalistiche, quindi, avevano pubblicato diverse storie riguardanti tali rumors, in ciò incorporando (compiendo, quindi, embedding) il tweet in cui era incorporata la fotografia di Goldman. Il fotografo statunitense, pertanto, ha intrapreso un’azione legale contro nove di queste agenzie di stampa, lamentando la lesione del proprio copyright ad opera delle stesse.

In risposta, il giudice Katherine Forrest del Tribunale Federale newyorkese [9] ha deciso a favore di Goldman. In specie, il giudice ha sostenuto che le pubblicazioni hanno violato il suo “diritto di visualizzazione esclusiva”, nonostante il fatto che non ospitassero la foto sui loro server, anche solo tramite la semplice incorporazione di un tweet.

Il giudice Forrest ha basato la sua decisione su due casi fondamentali di copyright sulla tecnologia.

Uno, Perfect 10 v. Amazon [10] del 2007, dove la Corte d’Appello del Nono Circuito ha stabilito che Google poteva visualizzare immagini protette da copyright a grandezza naturale nei risultati di ricerca, a condizione che si collegasse semplicemente al contenuto, non che lo ospitasse. Tale caso rileva, quindi, per aver introdotto il c.d. “server test”, sulla base del quale la responsabilità è da imputare a chi ospita il contenuto e non a chi vi si collega.

L’idea di fondo è che si clicca su un link, di fatto, non sa né se stia effettivamente violando un contenuto né, di fatto, sapere quale sarà effettivamente il contenuto che verrà visualizzato.

Tuttavia, sostiene il giudice, tale test non è applicabile ai siti di notizie i quali, in effetti, non funzionano come i motori di ricerca, che definisce quali “servizi con cui l’utente naviga da una pagina web all’altra, con l’assistenza di Google”. Nella sua sentenza, infatti, ribadisce che i siti di notizie mostrano solo contenuti incorporati a un utente, indipendentemente dal fatto che l’utente “lo abbia chiesto, cercato, fatto clic o meno“.

Il secondo caso citato su cui il giudice ha basato la propria decisione è stato il caso Aereo, in cui la corte aveva stabilito tale servizio di comunicazione non poteva trasmettere canali televisivi protetti da copyright su Internet semplicemente perché utilizzava una tecnologia diversa dalle onde radio. Forrest usa questo caso per sottolineare che “semplici distinzioni tecniche invisibili all’utente non dovrebbero essere il fulcro su cui si trova la responsabilità del copyright“. Si intende, quindi, che l’embedding è diverso dal mero ricaricare tecnologicamente una foto ma che, comunque, il risultato è lo stesso, ossia la visualizzazione della stessa.

In ogni caso, va precisato che la questione è ben lontana dall’essere conclusa. Forti le possibilità che si ricorra in appello, ciò non solo per la novità intrinseca della pronuncia ma, anche, per il fatto che, per stessa ammissione del giudice Forrest, non è stabilito con certezza nè se l’uso delle foto da parte delle pubblicazioni sia considerato fair use né se il fotografo abbia effettivamente rilasciato la sua immagine nel pubblico dominio quando l’ha pubblicata sul suo account Snapchat.

Di solito un autore deve assegnare espressamente un’opera al pubblico dominio, ma le pubblicazioni potrebbero sostenere che c’era una licenza implicita, il che significa che il fotografo sapeva, quando ha pubblicato la sua foto su Snapchat, che avrebbe potuto finire per essere utilizzata dalle agenzie di stampa.

[1] Causa C-392/19 Corte di Giustizia dell’Unione Europea, disponibile qui: https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_DIRITTO/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2020/09/11/C-392-19.pdf?uuid=2e806558-f390-11ea-ae6e-21aaf960b230;

[2] Direttiva 2001/29/CE, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A32001L0029;

[3] Cfr. Causa C-392/19 Corte di Giustizia dell’Unione Europea, disponibile qui: https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_DIRITTO/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2020/09/11/C-392-19.pdf?uuid=2e806558-f390-11ea-ae6e-21aaf960b230;

[4] Sentenza Renckhoff C-161/17 del 7/08/2018, secondo cui “il pubblico preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore al momento della messa a disposizione iniziale dell’opera “era costituito esclusivamente dagli utenti del sito Internet sul quale è avvenuta tale messa a disposizione iniziale «e non dagli utilizzatori del sito Internet sul quale l’opera è stata ulteriormente messa in rete senza l’autorizzazione di detto titolare, o dagli altri internauti»”, disponibile qui: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=204738&doclang=IT;

[5] Conclusioni Avvocato Generale nella causa C-392/19, disponibili qui: https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_DIRITTO/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2020/09/11/C-392-19.pdf?uuid=2e806558-f390-11ea-ae6e-21aaf960b230;

[6] Caso Bestwater C- 348/13, disponibile qui: https://www.ebu.ch/news/2014/10/european-court-linking-by-framin;

[7] Caso Svensson C-466/12, disponibile qui: https://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-466/12;

[8] Direttiva 2001/29/CE, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A32001L0029;

[9] Opinion del giudice del Tribunale Federale di New York Katherine B. Forrest, disponibile qui: https://www.eff.org/files/2018/02/15/goldman_v_breitbart_-_opinion.pdf;

[10] Perfect 10 v. Amazon, disponibile qui: https://www.law.berkeley.edu/files/perfect10.pdf;

Dott.ssa Valentina Ertola

Valentina Ertola

Dott.ssa Valentina Ertola, laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza di Roma 3 con tesi in diritto ecclesiastico ("L'Inquisizione spagnola e le nuove persecuzione agli albori della modernità"). Ha frequentato il Corso di specializzazione in diritto e gestione della proprietà intellettuale presso l'università LUISS Guido Carli e conseguito il diploma della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l'Università degli Studi di Roma3. Nel 2021 ha superato l'esame di abilitazione alla professione forense. Collaboratrice per l'area "IP & IT".

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