venerdì, Marzo 29, 2024
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L’ente cancellato: c’è vita (e responsabilità) oltre la “morte”?

A cura di Raffaele Costanzo. 

Se i white collar crimes fossero gli shareholders o i membri del board di una corporation, la corporate liability sarebbe senz’altro il loro core business. La disciplina della responsabilità “amministrativa” da reato degli enti, infatti, ad ormai oltre vent’anni dalla sua entrata in vigore, si presenta ancora come un terreno insidioso per gli interpreti, in cui a punti della disciplina oscuri e che necessitano di chiarimenti si affiancano mutamenti di indirizzi giurisprudenziali senz’altro significativi. Tipico è il caso della pronuncia in commento: quello che sembrava un approdo ritenuto dai più definitivo viene ad essere totalmente ribaltato, segnando una sterzata nelle indicazioni della Corte di Cassazione. Brevemente cercheremo di osservare punti di forza, di debolezza e di prospettiva di questo revirement.

  1. In medias res – 2. Il vuoto normativo – 3. “Chi muore giace” – 4. “Chi resta si dà pace” – 5. Conclusioni

  1. In medias res

Ciò che a primo impatto non può non risaltare all’occhio dell’osservatore è la peculiarità del contesto nel quale la stessa decisione è partorita: dalla lettura sintetica delle motivazioni che hanno indotto le parti a rivolgersi al giudice di legittimità, infatti, emerge chiaramente come vi sia una convergenza di vedute (e di ragioni) tra le stesse, che ritengono erronea la valutazione del giudice di gravame là dove non abbia provveduto a rilevare la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese come causa di estinzione dell’illecito, disponendo l’improcedibilità nei confronti di quest’ultimo.

Il giudice di legittimità[1], invece, ha ritenuto di dover disattendere l’assunto argomentativo comune, giungendo ad una soluzione di segno diametralmente opposto alle indicazioni fornitegli e, pertanto, confermando la statuizione dei gradi di merito.

In altri termini, si è affermato che la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese che avviene “fraudolentemente”, ovvero successivamente alla contestazione di un’ipotesi di responsabilità derivante da reato ed al solo scopo di sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla stessa, nonché in condizioni patrimoniali di solvibilità dell’obbligazione, non può essere equiparata alla morte della persona fisica e perciò non funge da causa di estinzione della sua responsabilità. Tale responsabilità, limitatamente alla sola sanzione pecuniaria, ricadrà nei confronti dei soci e seguendo le regole proprie del regime patrimoniale a cui erano assoggettati in costanza di legame sociale[2].

  1. Il vuoto normativo

Il quadro entro cui si pone la questione sul se la cancellazione dell’ente dal registro delle imprese debba o meno essere equiparata alla morte della persona fisica è abbastanza intricato; la certezza – e forse la sola –  che si può ritrovare è l’assenza di una disposizione ad hoc idonea a fugare ogni dubbio.

La disciplina contenuta nel Capo II, Sezione II del D. Lgs. n. 231 del 2001 di cui agli articoli 28-33, poi, nell’occuparsi delle vicende modificative dell’ente (ovvero trasformazione, fusione, scissione dell’ente e trasferimento d’azienda o di un suo ramo), sembra stabilire un principio di carattere generale che lega tutta la disciplina:evitare che le operazioni c.d. straordinarie siano utilizzate in chiave elusiva della responsabilità.

Sotto questo aspetto il Legislatore tende a ramificare la disciplina di dettaglio essenzialmente dividendola in tre diversi profili: quello della responsabilità, quello della sanzione pecuniaria ed infine quello attinente alla sanzione interdittiva[3].

La responsabilità tende a rimanere nella sfera giuridica del soggetto formalmente titolare dell’attività o del ramo in cui si è verificato il fatto illecito: nel caso della trasformazione, ad esempio, stante la continuità dei rapporti data dal solo mutamento di veste giuridica dell’ente, la responsabilità resta in capo al soggetto trasformato; nel caso della fusione, invece, è l’ente risultante ad essere ritenuto responsabile, così come in caso di scissione sono responsabili sia gli enti che derivano dalla scissione che l’ente scorporato (in quanto “parti” del “tutto” coinvolto nell’illecito anteriormente a questa divisione).

Il pagamento della sanzione pecuniaria tende poi ad estendersi a tutti i soggetti coinvolti nell’operazione: per la fusione ne rispondono gli enti che si sono uniti e per la scissione i soggetti che si sono separati (o anche il soggetto che si è staccato). Nel primo caso è una responsabilità solidale piena, mentre nel secondo caso è condizionata al valore del patrimonio netto trasferito, salvo che si tratti dell’unità organizzativa in cui il fatto è stato realizzato. Nel caso di trasferimento d’azienda (o di conferimento), nonostante il dettato normativo parli di obbligazione solidale, non c’è obbligazione solidale tra cedente e cessionario vera e propria o semplice, ma è più corretto parlare di una obbligazione sussidiaria: il cessionario è chiamato per le sole obbligazioni di cui era a conoscenza (quelle che risultano dalle scritture contabili), salva la previa escussione del patrimonio dell’ente cedente e comunque entro i limiti del valore dell’azienda ceduta.

Le sanzioni interdittive, infine, considerata la loro spiccata propensione specialpreventiva, tendono a seguire l’unità organizzativa nel cui ambito l’illecito si è consumato.

Come si può facilmente desumere da questa breve esposizione degli effetti delle operazioni straordinarie sulla responsabilità da reato, il principio di portata generale espresso dal dato positivo ha una connotazione antielusiva. Si tratta a questo punto di chiarire se un’estensione della sua portata applicativa possa essere effettivamente considerata lecita e tollerabile nell’ottica di sistema.

  1. “Chi muore giace”.

Come accennato, le parti nei motivi di ricorso convergono nel ritenere che la cancellazione dal registro delle imprese per l’ente equivalga alla morte della persona fisica e che, pertanto, sia causa di estinzione della responsabilità da reato e del relativo procedimento, richiamando peraltro un precedente favorevole[4].

La pronuncia coinvolta poggia su tre “pilastri”.

Il primo argomento è quello ricavabile dall’art. 35 del Decreto, secondo cui le disposizioni (processuali) previste per l’imputato si applicano anche all’ente <<in quanto compatibili>>. Si ritiene dunque che la cancellazione dal registro delle imprese intervenuta ad opera del curatore successivamente alla conclusione della procedura concorsuale sia da equiparare alla morte della persona fisica[5], poiché ne ha causato l’estinzione sul piano giuridico; per questa ragione non è possibile proseguire un procedimento nei confronti di un soggetto divenuto giuridicamente inesistente.

La seconda argomentazione è desunta dall’art. 70 del Decreto, a detta del quale quando si verificano delle vicende modificative dell’ente – e, nel silenzio del dato normativo richiamato, possiamo far rientrare tra queste anche l’ipotesi della cessione d’azienda – il dispositivo deve riportare anche le denominazioni/ragioni sociali dei soggetti nei cui confronti si estende la responsabilità. Sul punto – si dice – questa previsione conferma l’assunto ricavato dall’art. 35, per cui siccome non è citata la cancellazione dal registro delle imprese non può trovare applicazione la regola generalmente adottata per gli altri casi, escludendo che possa esserci un continuum di responsabilità[6].

Infine si dice che non può in questa sede essere accolto il principio elaborato dalla giurisprudenza civile che regola i rapporti tra creditori sociali e società per crediti sorti anteriormente alla liquidazione che si vuol far valere successivamente, non trattandosi di situazioni comparabili[7].

Le affermazioni sembrano non convincerci.

Non può innanzitutto essere messa in alcun modo in discussione la natura esclusivamente processuale dell’art. 35 e di tutte le altre disposizioni che richiameremo; basti pensare alla loro collocazione sistematica: il Capo III del Decreto reca non a caso disposizioni sul <<Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative>>[8].

Per quanto riguarda il primo argomento, la criticità sta proprio nel fatto che si vuole ricavare da una disposizione di carattere processuale e di coordinamento tra testi normativi la capacità di produrre degli effetti di ordine sostanziale. In altre parole: poiché il rinvio è potenzialmente effettuato anche alle norme processuali inerenti alla morte dell’imputato e che sono causa di estinzione del processo, dall’improcedibilità sopravvenuta, che altro non è se non conseguenza della rilevazione di una situazione sostanziale che sta a monte (e che è disciplinata in altra sede), ovvero della morte del reo, dovrebbe discendere che la cancellazione “fisiologica” è assimilabile alla morte di quest’ultimo e che pertanto debbano essere processualmente equiparate[9].

Questa esegesi è una forzatura evidente della lettera del dato normativo e che va ben al di là della sua stessa ratio.

In primo luogo perché, se è vero che le disposizioni dedicate all’imputato sono in linea generale estensibili all’ente, è probabile che la situazione tenuta in considerazione dal legislatore sia quell’insieme di vicende che possono interessare la persona fisica che in giudizio si costituisce in rappresentanza dell’ente, che pure potrebbe essere colpita dall’evento nefasto in pendenza di giudizio. Tuttavia, anche qui, dal dire che in caso di morte del rappresentante dell’ente non vi sia la possibilità che subentri altro soggetto nella medesima veste, il passo non è breve e neppure agevole (il giudice potrebbe, ad esempio, disporre la sospensione del processo nell’attesa della nomina del sostituto rappresentante processuale dell’ente, per integrare nuovamente il contraddittorio, salvo che addirittura non voglia valorizzare il comma 4 dell’art. 39 al punto da ritenere la sostituzione effettuata immediatamente per il tramite del difensore). Non è detto che ciò che è definitivo per la persona fisica lo sia anche per l’ente. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui la morte non colpisca l’autore del reato presupposto, ipotesi che ricadrebbe nell’ambito applicativo dell’art. 37, ma a quella in cui colpisca il soggetto che rappresenta processualmente l’ente, persona diversa dal legale rappresentante in quanto autore del reato presupposto.

In secondo luogo, bisogna tenere in considerazione che le cause di improcedibilità nei confronti dell’ente sono quelle indicate negli artt. 67 e 60, ovvero la prescrizione dell’illecito presupposto (rectius: decadenza dalla contestazione) e l’estinzione della sanzione per prescrizione.

Se la cancellazione fosse una causa di estinzione dell’illecito, ciò dovrebbe desumersi dalle disposizioni “sostanziali” del Decreto, ma ciò non emerge né dagli artt. 28-33 né dall’art. 8, comma 1, lett. b). È proprio quest’ultima disposizione che, nel disciplinare i profili di autonomia tra le due responsabilità, annovera la sola amnistia come causa comune a quella della persona fisica di estinzione della responsabilità. Dunque: in claris non fit interpretatio[10].

Più interessante può dirsi invece il secondo argomento, perché la Corte – andando forse anche al di là delle proprie intenzioni – elabora il principio di diritto autentico che bisognava applicare al caso di specie: il divieto di analogia in malam partem.

I Giudici avrebbero potuto risolvere il caso di specie in maniera ancor più rapida di quanto fatto con le motivazioni rese senza per ciò solo essere accusati di aver liquidato “frettolosamente” il quesito.

Si sarebbe potuto argomentare, ad esempio, che, a prescindere dall’opportunità di affrontare la questione relativa alla qualificazione giuridica della natura della responsabilità da reato degli enti, sia essa considerata penale stricto sensu piuttosto che amministrativa o un tertium genus[11], c’è indubbiamente un carattere che accomuna tutte queste responsabilità nei rispettivi ambiti in termini di principio, ovverosia il divieto di analogia.

È vero infatti che tra i principi generali del Decreto non ritroviamo una disposizione che espressamente preveda il divieto di analogia contra reum – ragionando per assurdo e non volendo ritenere questo principio estrapolabile in via interpretativa dallo stesso articolo 2 –, ma è anche vero che questa indicazione è presente altrove.

Nel settore penale, da una parte, un riferimento in tal senso è ricavabile direttamente dall’art. 14 delle Preleggi, in cui testualmente è affermato che <<Le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati>>, facendo così il paio con il principio di tassatività o determinatezza; nel campo dell’illecito amministrativo, dall’altra parte, l’art. 1, comma 2 della L. n. 689/81, rubricato <<Principio di legalità>>, afferma con simile tenore che <<Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati>>. Pertanto, in termini di principio, il divieto di analogia si ricava dagli ambiti a cui la responsabilità da reato guarda, ragion per cui sarebbe bastato ritenere insussistente la responsabilità dell’ente in quanto l’ipotesi di specie non aveva un espresso riferimento normativo a regolarlo.

Non da ultimo, nell’economia del nostro ragionamento, c’è da inserire un ulteriore fattore di complicazione: è la stessa Corte, in un suo passaggio, ad affermare che nelle ipotesi di cancellazione fraudolenta – che nel silenzio della stessa decisione devono/possono intendersi come tutte quelle al di fuori dell’ipotesi di specie – non sarà possibile considerarlo estinto, sebbene questa fraudolenza debba essere accertata (senza indicazione alcuna dei relativi criteri di prova).

Insomma era nell’aria; il monito della Corte è chiaro e suona minaccioso: <<Per questa volta passa, ma non a lungo>>. Il mutamento d’indirizzo, quindi, era ampiamente prevedibile.

  1. “Chi resta si dà pace”.

La Corte, invece, nel caso di specie ha ritenuto di non potersi attenere alle precedenti indicazioni giurisprudenziali, essenzialmente per quattro ragioni che veniamo ad esporre.

In primo luogo, come già anticipato, la Corte non manca di rimarcare come l’art. 35 cit. sia una disposizione di carattere processuale, che opera un rinvio ad altre disposizioni processuali ma neppure integralmente, ovvero nei limiti di una compatibilità che nel caso di specie non ravvisa.

In secondo e terzo luogo, poi, si dice che le cause di estinzione della responsabilità sono un numerus clausus e che, in quanto tali, bisogna fare riferimento solo ed esclusivamente alle ipotesi espressamente disciplinate dal Decreto.

In quarto ed ultimo luogo, infine, viene richiamato un precedente che esclude che il fallimento dell’ente di per sé solo possa essere considerato causa di estinzione dell’illecito stesso[12].

Invero, i due precedenti, oltre ad essere poco attinenti al caso di specie, caratterizzato dal non aver avuto alcuna procedura concorsuale, mettono in risalto un dato comune: sia in un caso che nell’altro la valutazione circa l’estinzione o meno della responsabilità è legata non solo al momento in cui interviene la pronuncia rispetto allo stato della procedura concorsuale, ma anche – e conseguentemente – rispetto alla possibilità concreta che lo Stato abbia di soddisfare la sua pretesa (privilegiata) derivante da illecito, ovvero di riscuotere l’importo della sanzione pecuniaria. Non a caso, quando questo interesse è ancora almeno astrattamente realizzabile, si nega l’estinzione.

Vien da sé, infine, che nella realizzazione di tale interesse il richiamo alla disciplina civilistica è necessario, ragion per cui non coglie nel segno quella parte della pronuncia che ritiene di dover distinguere la natura pubblicistica da quella privatistica del credito.

  1. Conclusioni.

Questa pronuncia, letta in confronto col precedente richiamato, si presta ad un’analisi a più livelli di riflessione.

De jure condito, non possiamo che essere in disaccordo con la statuizione di legittimità, poiché avrebbe dovuto rilevare l’impossibilità del ricorso ad un meccanismo analogico sfavorevole all’imputato.

In questo senso, allora, possiamo dire che l’orientamento precedente ha elaborato il criterio di risoluzione della disputa giudiziaria corretto, seppur basato su argomenti testuali e sistematici che sono evidenti forzature esegetiche.

De jure condendo, invece, la decisione di cui ci siamo occupati, è destinata ad avere ripercussioni non solo in termini di diritto pretorio, poiché è molto probabile che tale orientamento si consolidi e stabilizzi, ma anche in termini legislativi perché – come ormai è prassi distorta – il Legislatore ben potrebbe recepire questo orientamento tra le previsioni del decreto.

Ribaltata la prospettiva del precedente, allora, si può dire che la decisione de quo ha correttamente esplorato la ratio della disciplina del caso, ma, per seguire tale principio, ha tralasciato altro principio di sistema.

È il caso di dire che il più importante degli insegnamenti della Consulta, ovvero che nessun diritto e nessun principio è tiranno, è stato accantonato.

[1] Corte Cass., IV Sez. Pen., sent. n. 9006 del 2022.

[2] Così Cass. Pen., ult. cit., pp. 8-9:<<[L]a cancellazione dal registro delle imprese della società alla quale si contesti (nel processo penale che si celebra anche nei confronti delle persone fisiche imputate di lesioni colpose con violazione della disciplina antiinfortunistica) la violazione dell’art. 25-septies, comma 3, del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in relazione al reato di cui all’art. 590 cod. pen., che si assume commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, non determina l’estinzione dell’illecito alla stessa addebitato.>>

[3] Napoleoni, V., Le vicende modificative dell’ente. Obiettivi della disciplina, in G. lattanzi – P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, Diritto sostanziale, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2020, p. 115 ss.

[4] Il riferimento è a Corte Cass., II Sez. Pen., sent. n. 41082 del 2019.

[5] Così Corte Cass., ult. cit., p. 4:<<[…] Pertanto, nel caso in cui, come quello di specie, si verifichi l’estinzione fisiologica e non fraudolenta dell’ente, correlata alla chiusura della procedura fallimentare, si verte in un caso assimilabile a quello della morte dell’imputato, dato che si è verificato un evento che inibisce la progressione del processo ad iniziativa pubblica previsto per l’accertamento della responsabilità di un reato ormai estinto, ovvero di una persona giuridica non più esistente>>.

[6]  Così ancora, Corte Cass., ult. cit., ibidem:<<Tale scelta interpretativa risulta confermata dal fatto che il testo legislativo regolamenta sole le vicende inerenti la trasformazione dell’ente, ovvero la fusione o la scissione […], ma non la sua estinzione, che dunque non può essere trattata secondo le regole del processo penale>>.

[7] Infine, Corte Cass., ult. cit., p. 5:<<Si ritiene non importabile nel processo a carico dell’ente per l’accertamento della responsabilità da reato il principio espresso dalla giurisprudenza civile secondo cui la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese determina un fenomeno successorio in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono ma si trasferiscono ai soci che, a seconda del regime giuridico dei beni sociali cui sono soggetti “pendente societate”, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione ovvero illimitatamente>>.

[8] Varraso, G., Le disposizioni generali del procedimento: la sussidiarietà del codice di procedura penale, in G. Lattanzi – p. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, Diritto processuale, Vol. II, Torino, Giappichelli, 2020, p. 10 ss. In tal senso, v. anche Tonini, P., Manuale di procedura penale, XXI, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, p. 884 ss.

[9] Detto ancora in altri termini, questo argomento realizza una vera e propria alterazione del rapporto tra il diritto ed il processo, nel senso che l’ordinamento prima fissa sul piano sostanziale i fatti a cui intende attribuire rilevanza giuridica ai fini dello svolgimento del processo, e solo successivamente stabilisce cosa debba succedere sul piano processuale, una volta accertati i presupposti di diritto sostanziale.

[10] Così Pulitanò, D.,secondo cui << […] ci troviamo di fronte ad un sottosistema autonomo, che non sembra bisognoso di integrazioni tratte aliunde, salvo il collegamento funzionale col sistema penale per quanto concerne la definizione del primo presupposto della responsabilità dell’ente, costituito dal reato commesso.>>,Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in Enc. Dir., Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2002, p. 954,

[11] Per gli opportuni approfondimenti, si rinvia necessariamente, a titolo esemplificativo e non esaustivo a Marinucci, G., Dolcini, E., Gatta, G.L., Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, IX, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, p. 889 s.; G. Lattanzi – P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, Vol. I, op. cit., p. 45 ss.; Scaroina, E., Societas delinquere potest, Il problema del gruppo di imprese, Roma-Milano, Giuffrè-Luiss University Press, 2006, p. 81 ss.

[12] Il riferimento è a Corte Cass., SS. UU. Pen., sent. n. 11170 del 2014.

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