giovedì, Aprile 18, 2024
Uncategorized

Lesione da legittimo affidamento: giurisdizione e responsabilità della P.A.

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I fatti di causa e la decisione della corte. – 3. La responsabilità da “contatto sociale qualificato” della P.A.. – 4. La Legge 241/90 alla luce del D.L. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni).

 

1. Premessa

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza del 24 settembre 2020 n. 19677, resa in sede di regolamento di giurisdizione su conflitto negativo, hanno statuito che «spetta al Giudice Ordinario la cognizione della controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alle spese sostenute (dalla società prima classificata) per l’esecuzione di un contratto d’appalto caducato a seguito dell’annullamento da parte del TAR dell’atto di aggiudicazione, su ricorso di altra impresa concorrente».

In sostanza, quello che viene in tal caso messo in discussione dalla parte ricorrente (tecnicamente la causa petendi) non è l’ illegittimità del provvedimento di aggiudicazione in suo favore (e dunque ampliativo della propria sfera giuridica) , né  viene rimproverato alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti, ma si lamenta, solo ed esclusivamente, la lesione dell’incolpevole affidamento riposto nell’apparente legittimità dell’atto annullato chiedendone il risarcimento.

La questione relativa a quale sia il giudice munito della potestas iudicanti in materia, pur essendo stata affrontata a più riprese dalla Suprema Corte, continua a suscitare diversi dubbi e criticità che hanno spinto il Collegio, nell’ordinanza in rassegna, a ripercorrere gran parte dell’iter argomentativo seguito nelle precedenti ordinanze sul tema.

 

2. I fatti di causa e la motivazione della Corte

La controversia da cui è sorto il conflitto negativo di giurisdizione tra il Tribunale Civile ed il TAR competente, afferiva alla domanda autonoma di risarcimento dei danni proposta (innanzi al Tribunale) dalla società prima qualificata nella gara per l’affidamento dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani; il provvedimento di aggiudicazione dell’appalto era stato successivamente annullato in accoglimento del ricorso presentato dalla seconda classificata nella medesima procedura.

I danni lamentati dalla società attrice consistevano, in particolare, nelle spese sostenute per l’esecuzione del contratto, avvenuta (al fine di assicurare la continuità del pubblico servizio) anche dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, nelle more dell’individuazione di altro affidatario da parte dell’amministrazione convenuta innanzi al giudice ordinario.

Il Tribunale ordinario, innanzi al quale la società aveva convenuto l’Ente Comunale, riteneva non rientrante nella propria giurisdizione la cognizione della controversia sul presupposto che, anche nell’ipotesi in cui il privato invochi in via autonoma la tutela risarcitoria per un danno cagionato dall’esercizio illegittimo dell’attività provvedimentale, la posizione soggettiva lesa debba comunque considerarsi di interesse legittimo e, dunque, di competenza del giudice amministrativo.

«La causa del danno è, pur sempre, il provvedimento illegittimo e, se pur presentata in via autonoma rispetto a quella caducatoria, la domanda risarcitoria è attratta dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80».

Dal canto suo, il TAR, adito in riassunzione dalla società attrice, dubitando anch’esso del proprio potere giurisdizionale in subiecta materia, sottoponeva la questione alla Corte di Cassazione sollevando conflitto negativo di giurisdizione.

Le Sezioni Unite, con la decisione in rassegna, hanno dapprima ricordato che, secondo propria pacifica giurisprudenza[1], il discrimen tra le due forme di giurisdizione (ordinaria ed amministrativa) vada individuato nella causa petendi; presupposto indefettibile per predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa è l’esistenza di una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo[2].

In sostanza è necessario che, anche qualora il giudice amministrativo venga adito per apprestare una tutela meramente risarcitoria (e non anche caducatoria), il «danno di cui si chieda il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia comunque causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo[3]»; l’attribuzione della tutela risarcitoria in capo all’autorità amministrativa, infatti, lungi dal rappresentare una nuova materia di giurisdizione esclusiva[4], presuppone, sempre, che il danno sia conseguenza diretta e immediata dell’atto illegittimo.

La causa petendi dell’azione di danno dev’essere l’illegittimità del provvedimento della Pubblica Amministrazione e la richiesta di risarcimento del danno solo uno strumento di tutela ulteriore e, di completamento, rispetto a quello demolitorio.

Tale circostanza viene meno nell’ipotesi in cui, come accaduto nella vicenda portata all’attenzione del Collegio, il destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole (perché ampliativo della propria sfera giuridica) poi annullato ope judicis[5] perché illegittimo, chieda il risarcimento dei danni subiti; in tal caso non viene messa in discussione la legittimità dell’atto amministrativo (giustamente annullato), ma si lamenta la lesione dell’affidamento riposto sulla legittimità dello stesso e se ne chiede il risarcimento per aver orientato le proprie scelte negoziali o imprenditoriali confidando, fino all’annullamento di tale atto, nella relativa legittimità.

In un caso del genere il danno lamentato dall’attore non è conseguenza diretta del provvedimento illegittimo, a ben vedere l’atto in quanto favorevole (ancorché illegittimo) non ha prodotto alcun danno al suo destinatario; il danno oggetto di pretesa risarcitoria scaturisce da una fattispecie complessa che richiede il concorso di diverse circostanze tra le quali è ricompreso (ma non è il solo) il provvedimento amministrativo annullato.

La fattispecie causativa del danno non consiste nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita.

Va dato atto del fatto che tale posizione, sostenuta in maniera quasi unanime dalla giurisprudenza, sia contestata da parte della dottrina secondo la quale, poiché il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico, la lesione che esso arreca dovrebbe essere ricondotta (almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva) alla cognizione del giudice amministrativo.

A tale osservazione diverse pronunce[6] hanno  obiettato come quest’ultima parta dal presupposto, totalmente errato,  che la lesione lamentata dal privato sia causata dal provvedimento annullato; l’adozione di quest’ultimo viene in rilievo solo come elemento che deve aver avuto, in concorso con ulteriori elementi, efficacia causativa del danno-evento rappresentato dalla determinazione dell’affidamento incolpevole.

La lesione,  sottolinea il Supremo Consesso nella parte finale dell’ordinanza de qua discende «non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione dei principi di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’amministrazione, regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità»; così come accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A.

Le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento) ma di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto).

Per tutte le ragioni fin qui esposte, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover definire il conflitto negativo di giurisdizione sollevato dal TAR con l’affermazione della giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.

 

3. La responsabilità “da contatto sociale qualificato”

Alla luce delle riflessioni svolte nel paragrafo precedente, la responsabilità della P.A. nei confronti della parte di un contratto di appalto divenuto inefficace per effetto dell’annullata aggiudicazione, ha origine della violazione del dovere di correttezza e buona fede; l’Amministrazione ha, infatti, indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione apparentemente legittima che ha provocato la lesione dell’interesse del privato , non qualificabile come interesse legittimo, ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione.

Pur concentrandosi la pronuncia della Corte di Cassazione (in commento) sulle sole questioni di giurisdizione, risulta necessario, per completezza espositiva, mettere a fuoco la natura della responsabilità che sorge in capo alle pubbliche amministrazioni in ipotesi del genere.

Tale responsabilità va ricondotta secondo l’orientamento sviluppatosi a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14188 del 2016 al paradigma della responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato; si tratta di una sentenza di grande rilevanza se si tiene  conto che fino a quel momento l’orientamento maggioritario ed, anzi, quasi unanime della giurisprudenza tendeva a considerare la responsabilità c.d. per “culpa in contrahendo” come una forma di responsabilità extracontrattuale  (responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.).

L’accoglimento di una tesi piuttosto che un’altra, lungi dal rappresentare una questione di meramente teorica, comporta importanti risvolti pratici con riferimento al termine di prescrizione ed alla ripartizione dell’onere della prova[7].

In passato si riteneva che la responsabilità precontrattuale della P.A.[8] ( rispetto degli obblighi privatistici di correttezza e buona fede che governano tutti i procedimenti di formazione del contratto di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c.[9]) potesse essere ricondotta nell’alveo della responsabilità aquiliana poiché, mancando un contratto stipulato tra le parti, le stesse non sono soggette ad alcuna obbligazione  di natura contrattuale  ma solo al generico dovere del neminem laedere  di cui all’art. 2043 che grava su tutti i membri della comunità.

Tale orientamento risulta superato dalla recente giurisprudenza [10], la quale, valorizzando il principio dell’atipicità delle fonti delle obbligazioni (art.1173 c.c.), sottolinea come una responsabilità contrattuale sia ravvisabile anche in assenza di un atto negoziale dal quale scaturiscano specifici obblighi di prestazione a carico delle parti come accade nel caso in cui tra le stesse si sia instaurata una relazione qualificabile come “contatto sociale qualificato”.

Si tratta di una particolare situazione in cui le parti entrano in contatto  facendo nascere una relazione giuridicamente qualificata tale da generare ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva; tale rapporto fa nascere obblighi specifici di comportamento attivo (buona fede, protezione e informazione)  e non il semplice dovere  negativo di astensione tipico della responsabilità aquiliana, il cui tratto caratterizzante è, invece, un “non rapporto” tra danneggiante e danneggiato.

Ovviamente, maggiore è l’ambito ed il contenuto dei doveri di correttezza e buona fede e maggiore sarà il grado di intensità del “contatto sociale” ed il conseguente affidamento da questo ingenerato; come sottolineato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 5 del 2018 «da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e buon andamento (art. 27 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento».

Il contatto che si instaura tra la P.A. ed il privato, in conclusione, in quanto fatto idoneo a produrre obbligazioni  di protezione , buona fede e informazione tra le parti (giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.) conduce ad una responsabilità che, pur non essendo contrattuale in senso stretto (poiché non deriva da un formale atto negoziale tra le parti) a questa è, certamente, assimilabile[11].

 

4. La Legge 241/90 alla luce del D.L. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni)

I doveri generali di correttezza e buona fede, come detto, costituiscono principi di matrice civilistica codificati nei rapporti tra privati consociati, ma non esplicitamente previsti in nessuna norma  per quanto riguarda i rapporti tra Pubblica Amministrazione e privati[12].

Si tratta di principi (la cui violazione, come detto, fonda una responsabilità da lesione dell’affidamento del privato) valorizzati negli anni dalla giurisprudenza amministrativa secondo la quale «al fondamentale canone di buona fede devono essere improntati non solo i rapporti tra i consociati tenuti, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà ma,  anche e soprattutto, la pubblica amministrazione, cui l’art. 97 della Cost. impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento[13]».

Ad essi, poi,  sono ispirate diverse disposizioni della Legge 241/1990: si pensi  all’art. 21-quiquies sulla revoca del provvedimento amministrativo, che nell’elencare i presupposti di rivalutazione dell’interesse pubblico riconosce la corresponsione di un indennizzo a favore del destinatario del provvedimento al fine di compensare l’affidamento frustrato di quest’ultimo, o l’art. 21-nonies, che disciplina l’annullamento d’ufficio imponendo alla P.A. una serie di limiti e garantendo così il ragionevole affidamento del privato.

La tutela dell’affidamento del privato nella correttezza della pubblica amministrazione rientra, infine, tra i principi fondamentali  dell’ordinamento comunitario ai quali l’attività amministrativa deve uniformarsi ai sensi dell’art. 1 della legge 241/90.

Le clausole generali di buona fede e di collaborazione con la Legge n. 120/2020 di conversione del  D.L. Semplificazioni fanno, finalmente ed esplicitamente, ingresso nella legge generale sul procedimento amministrativo[14] rappresentando un indice del progressivo orientamento del nostro ordinamento verso un’idea di diritto amministrativo paritario.

 Ciò che ha ispirato il recente intervento normativo è, oltre al nuovo principio generale di cui all’art. 1 comma 2-bisla necessità di semplificazione ed accelerazione dell’azione amministrativa, prerogativa, questa, che è stata realizzata tramite interventi sulla Legge 241/1990 (Legge sul procedimento amministrativo); di tali modifiche, con riferimento esclusivo a quelle di maggior peso, risulta opportuna una veloce disamina.

Prima di tutto si interviene sulle tempistiche dell’azione amministrativa prevedendo all’art. 4-bis (L. 241/90) che le PP.AA. provvedano a misurare e pubblicare nel proprio sito internet istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente[15]; sarà un decreto ministeriale a stabilire modalità e criteri di misurazione dei tempi e le modalità di pubblicazione di tali dati.

Sempre in tema di conclusione dei procedimenti amministrativi, al fine di dare piena efficacia all’istituto del silenzio-assenso, dopo il comma 8 della L. 241/90 è inserito il comma 8-bis che chiarisce come tutta una serie di atti (provvedimenti, autorizzazioni, pareri, nulla osta, atti di assenso) adottati dopo la scadenza dei termini prefissati per la conferenza dei servizi siano inefficaci[16]; resta salva la possibilità per la P.A. di esercitare, ove ne ricorrano presupposti e condizioni, il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies.

Per quanto riguarda la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza” di cui all’art. 10, in controtendenza rispetto alla logica di tutte le altre modifiche normative, si assiste ad un ampliamento dei termini di conclusione del procedimento; si prevede, infatti, che la comunicazione dei motivi ostativi sospenda (anziché interrompere) i termini di conclusione dei procedimenti, con la conseguenza che il termine ricomincerà a decorrere (sommandosi al tempo già trascorso) dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza dei dieci giorni dalla ricezione della comunicazione del preavviso di rigetto.

La modifica dell’art. 10 va letta in combinato disposto a quella dell’art. 21-octies secondo la quale è sempre annullabile il provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di diniego (non trova, dunque, applicazione quanto previsto dal secondo comma dell’art. 28-octies).

Vengono introdotte, poi, novità nell’ipotesi di annullamento di un provvedimento finale in virtù di una sentenza passata in giudicato a causa di vizi inerenti ad uno o più atti endoprocedimentali; il nuovo art. 21-decies della L. n. 241/1990 consente al proponente di richiedere all’amministrazione procedente e, in caso di progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale, all’autorità competente ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, l’attivazione di un procedimento semplificato, ai fini della riadozione degli atti annullati.

Nel tentativo di risolvere alcuni aspetti che rallentano la Conferenza di servizi, il Decreto Semplificazioni prevede, fino al 31 dicembre 2021,  la possibilità di ricorrere sempre, in caso di conferenza di servizi decisoria, allo strumento della conferenza semplificata già disciplinata dall’art. 14-bis della L. 241/90 seppur modificata sotto alcuni aspetti.

Sempre in un’ ottica di semplificazione, viene reso, infine, obbligatorio e non più opzionale, l’utilizzo di strumenti informatici e telematici nei rapporti interni tra le diverse amministrazioni e tra queste ed i privati[17].

 

 

 

[1] A partire dalle tre coeve ordinanze delle Sezioni Unite nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 le quali hanno superato il precedente orientamento, rappresentato dalla sentenza n. 8511/2009, che riteneva sufficiente, al fine del radicamento della giurisdizione esclusiva del G.A., il mero dato del collegamento (dell’oggetto) della controversia con le materie indicate dalla legge (ad esempio, quella dell’affidamento di pubblici appalti ex art. 7 e  133, co. 1, lett. e, n. 1, cod. proc. amm.; quella urbanistica, ecc.).

[2] Diverse pronunce successive alle tre ordinanze del 2011 (ex multis Corte di Cassazione, sentenze nn. 12799/2017 e 12635/2019) ne hanno ripreso e confermato i principi e le conclusioni con l’ulteriore affermazione che «la controversia relativa ai danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, legittimamente annullato, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario perché ha ad aggetto la lesione non già di un interesse legittimo pretensivo, ma di un diritto soggettivo qualificabile come “diritto alla conservazione dell’integrità del patrimonio, leso dalle scelte compiute confidando nella legittimità del provvedimento annullato».

[3] C. Cost. n. 204/2005.

[4] Corte di Cassazione, SU, n. 1654/2018.

[5] Le tre ordinanze del  2011 estendono le medesime osservazioni anche all’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo favorevole venga legittimamente annullato in via di autotutela.

[6] Per una opinione conforme si veda, ex multis, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 5 del 2018 (p.34) e Cass., Sez. Un., 28 aprile 2020, n. 8236.

[7] La concezione della responsabilità precontrattuale come forma di responsabilità extracontrattuale ha, come conseguenza, che la prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno, nonché del dolo e della colpa del danneggiante, siano a carico del danneggiato e che l’azione vada proposta entro il termine quinquennale di prescrizione (di cui all’art. 2947 c.c.).

Nell’ambito della responsabilità contrattuale, invece, il danneggiato  può limitarsi a provare la fonte da cui scaturisce il proprio diritto ed allegare l’inadempimento di controparte senza richiedere una verifica sull’elemento soggettivo della colpa, spetterà al convenuto la prova della sussistenza di una giusta causa alla base dell’inadempimento; il termine di prescrizione è in questo caso quello di dieci anni previsto dall’art. 2946 c.c..

[8] Si tratta di una responsabilità non da provvedimento conseguenza , cioè,  della violazione delle norme di azione che regolano l’agire pubblicistico della P.A. ma di una responsabilità da comportamento ossia derivante dalla violazione di norme di diritto privato in un rapporto paritetico tra cittadino e P.A.; in particolare si tratta di fattispecie in cui un provvedimento pur essendo stato  annullato legittimamente (in autotutela dalla stessa amministrazione o a seguito di una sentenza di del giudice amministrativo)  vada a ledere l’affidamento riposto dal privato sulla stabilità e definitività della posizione giuridica acquisita per effetto del provvedimento eliminato.

[9] Si parla di responsabilità precontrattuale in quanto manca un atto negoziale efficace tra le parti o per violazione dei canoni di correttezza e buona fede nella fase delle trattative (art. 1337 c.c.) o perché un negozio giuridico è stato sì concluso ma in presenza di una causa di inefficacia e7o invalidità conosciuta o conoscibile da una delle parti (art. 1338 c.c.).

[10] Si veda, da ultimo, Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del 28/04/2020, n. 8236.

[11] Cassazione civile, sentenza 27/10/2017, n. 25644

[12] Un richiamo esplicito ma di tipo settoriale al “principio della collaborazione e della buona fede” si trova nell’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000.

[13] Si veda, ex multis, Cons. St. II, 4 giugno 2020, n. 3537.

[14] L’art 12 del D.L. 76/2020 aggiunge, infatti, all’art. 1 della L. 241/90 il seguente comma 2-bis: «I  rapporti   tra   il   cittadino   e   la   pubblica amministrazione sono improntati ai principi  della  collaborazione  e della buona fede».

[15] È bene sottolineare fin da subito che, seguendo la stessa logica, l’art. 29, comma 2-bis viene integrato per far rientrare anche la misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti fra i livelli essenziali delle prestazioni.

[16] Tale modifica consente all’amministrazione procedente di non acquisire il parere dell’organo consultivo ove non sia intervenuto nei termini, anche nel caso in cui il parere non sia “facoltativo” ma obbligatorio ( art. 16, comma 2, L. 241/90 così modificato).

[17] Modifiche all’art. 3-bis della L. 241/90.

Paola Verduni

contatti: pverduni90@gmail.com

Lascia un commento