mercoledì, Novembre 13, 2024
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Libertà di espressione, Facebook e movimenti di estrema destra: provvedimenti a confronto

L’articolo 21 della Costituzione italiana è il precipitato storico di vicende che hanno caratterizzato un secolo, il ventesimo, pregno di eventi di portata epocale. La libertà di manifestazione del pensiero ha una così variegata ampiezza applicativa che, spesso, nonostante gli orientamenti giurisprudenziali più che consolidati in materia che ne hanno definito caratteristiche e limiti, comporta contrasti nelle decisioni dei tribunali di merito, a maggior ragione quando la sede è cautelare e quando si tratta di valutare giuridicamente i termini contrattuali stabiliti per l’erogazione di servizi ICT.

Com’è facilmente intuibile, ci si riferisce ai termini della policy di Facebook, il social network più famoso al mondo. Le sue condizioni d’uso, come noto, chiariscono[1] che, nel caso in cui “l’utente abbia violato chiaramente, seriamente o reiteratamente le proprie condizioni o normative, fra cui in particolare gli Standard della community, Facebook potrebbe sospendere o disabilitare in modo permanente l’accesso dell’utente al suo account”. Si tratta di vere e proprie clausole contrattuali che fungono da necessaria cornice – giuridicamente vincolante – al rapporto instaurato tra il colosso americano e gli utenti, anche in qualità di legali rappresentanti di organizzazioni, nel corso del godimento dei servizi offerti. È importante precisarlo perché gli standard della community, che assolvono a netiquette nel rapporto fra gli utenti ospitati da un internet service provider nei propri “spazi virtuali”, sono espressamente richiamati dalle suddette condizioni contrattuali.

Le sopra menzionate oscillazioni decisorie dei giudici assumono particolare rilevanza nella vicenda che ha interessato alcune associazioni italiane di estrema destra (fra cui Casapound e Forza Nuova) e il social network statunitense. Infatti, nel settembre 2019 alcune delle pagine di questi movimenti sono state oscurate in quanto, secondo Facebook, violavano gli standard della community. Sono stati promossi ricorsi ex art. 700 c.p.c. da parte di alcune di queste associazioni (per quanto qui di interesse, separatamente da Casapound e Forza Nuova) avanti al Tribunale di Roma in due diverse sezioni[2] specializzate e, come di seguito si esporrà, questa “biforcazione” di competenza ha comportato due decisioni di segno opposto.

La prima statuizione in ordine cronologico, proveniente dalle sezioni specializzate in materia di impresa con l’ordinanza del 12/12/2019[3], ha avuto un esito favorevole per il movimento ricorrente, con annessa condanna alle spese legali della società resistente; la seconda, emanata dalla sezione diritti della persona e immigrazione civile lo scorso febbraio[4], ha invece comportato per l’A.P.S.[5] Forza Nuova, la più conosciuta fra le ricorrenti, un rigetto integrale della domanda e l’obbligo di pagamento in solido delle spese di lite.

Un primo, immediato, confronto è possibile ictu oculi sull’ampiezza dei provvedimenti. L’ordinanza delle sezioni specializzate in materia d’impresa è più stringata, come d’altronde più si addice a un procedimento cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c., e condensa in sedici pagine il ragionamento logico-giuridico posto a fondamento della decisione. La seconda, invece, è ben più corposa (44 pagine), anche volendo considerare il largo uso di immagini, elemento valutativo nella comparazione fra libertà di rango costituzionale e assetto contrattuale di interessi.

Nel merito, le decisioni seguono solchi interpretativi differenti, per un verso alla luce del principio della domanda[6], per altro verso alla luce della diversa “chiave” giuridica con cui sono stati analizzati gli aspetti salienti del contenzioso tra le parti.

Venendo alla prima statuizione, il Tribunale di Roma ha stringatamente opinato sulla base dei fondamentali elementi del fumus boni iuris e periculum in mora che costituiscono i presupposti del procedimento d’urgenza. In particolare, il giudice ha ravvisato il primo affermando che “[…] è infatti evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento”. Ha, pertanto, ricondotto l’argomentazione all’importanza sociale riconoscibile a una piattaforma colossale come quella chiamata a giudizio e alla conseguente impossibilità, sulla scorta di questa importanza, di censurare la libera espressione degli elementi caratterizzanti il pensiero delle associazioni di carattere politico[7]. Il giudice, inoltre, si spinge fino ad affermare che le valutazioni discrezionali di Facebook in merito alla violazione di principi costituzionali non spetterebbero alla compagnia americana, né al decisore in sede cautelare, ma evidentemente solo a un giudice del merito. Quanto al periculum in mora, poi, ci si limita ad argomentare stringatamente che “il preminente e rilevante ruolo assunto da FACEBOOK nell’ambito dei social network, anche per quanto riguarda l’attuazione del pluralismo politico rende l’esclusione dalla comunità senz’altro produttiva di un pregiudizio non suscettibile di riparazione per equivalente (o non integralmente riparabile) specie in termini di danno all’immagine”. Il giudice, cioè, ha intravisto il pregiudizio concreto, attuale e potenzialmente irreparabile nella censura operata da Facebook alla manifestazione del pensiero politico da parte dell’associazione Casapound.

Contro tale decisione, non reputata accettabile, il social network ha promosso reclamo, ancora in corso di trattazione in sede collegiale[8].

Quanto alla seconda ordinanza, di segno opposto, il ragionamento logico-giuridico segue, come detto, binari differenti. Il primo, preminente, rilievo è un richiamo alle convenzioni internazionali in materia di libertà di espressione e di manifestazione del pensiero. Viene affermato, in particolare, che “la discriminazione indica un atteggiamento teso a negare condizioni di parità sociale in danno di persone che possiedono specifici connotati riferibili alla razza, all’orientamento religioso, all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’origine etnica”. Vengono poi citate la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 9 dicembre 1948, la Convenzione di New York del 7 marzo 1966 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (ratificata dall’Italia con la legge del 13 ottobre 1975 n. 654), il Patto sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, l’art. 7, comma 1, lett. h, dello Statuto della Corte penale internazionale. Rispetto al diritto UE, inoltre, vengono presi in considerazione l’art 2 del Trattato sull’Unione Europea, il preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, gli articoli 9 e 10 TFUE[9] e gli articoli 10 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Vengono, inoltre, citate diverse decisioni in materia della Corte EDU e i concetti di hate speeches e hate crimes[10]. Sul fronte del diritto derivato dell’Unione europea e del diritto italiano (anche penale), viene effettuata una ricostruzione delle concrete misure di contrasto alla discriminazione operate dall’Unione come corollario di quanto affermato dai principi fondativi della comunità internazionale e da quella europea.

Da questa introduzione normativa, il Tribunale di Roma, sezioni diritti della persona e immigrazione civile, passa alla descrizione dell’importanza rivestita da Facebook nella divulgazione “virale” di discorsi d’odio e discriminazione. In particolare, viene richiamata un’affermazione del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione[11] secondo la quale “un’espressione discriminatoria o di odio, lasciata virale e non controllata, può creare un clima e un ambiente che inquina il dibattito pubblico e nuocere anche a coloro che non sono utenti della piattaforma”. Il giudice ricorda, inoltre, come il medesimo Relatore avesse precedentemente richiesto alle compagnie ICT di attenersi ai Principi Guida su Business and Human Rights[12] e di agire con diligenza per fronteggiare l’odio digitale.

Quanto alle condizioni contrattuali, inoltre, vengono analizzate sia le condizioni d’uso che gli standard della community, che non possono essere valutate, secondo il giudicante, alla stregua di soft law in quanto, come già precedentemente rilevato, espressamente richiamate dai termini del contratto fra Facebook e utente e che costituiscono clausole vincolanti con conseguenti poteri inibitori da parte della piattaforma sui contenuti che non rispettino i suddetti standard (fra cui, peraltro, i discorsi di incitamento all’odio e alla discriminazione).

Dall’analisi normativa e contrattuale, vengono poi analizzati i presupposti di fatto che hanno comportato l’oscuramento delle pagine di Forza Nuova con la verifica contenutistica di post, immagini e commenti dell’utenza e dei rappresentanti dell’associazione. Il giudice valuta tali contenuti come illeciti “da numerosi punti di vista” e in violazione sia delle condizioni contrattuali che dell’ampia normativa a contrasto dell’incitamento all’odio e dell’hate speech.

In conclusione, si tratta di due decisioni fondate su principi giuridici e bilanciamenti completamente diversi. Come anticipato in precedenza, sono provvedimenti di carattere cautelare anticipatorio, come tali suscettibili di una forma di “stabilità” tale da essere assimilabile a un giudicato soft. Proprio per questo, infatti, le decisioni non possono assumersi come totalmente definitive e suscettibili di creare un “precedente”. Peraltro, la diversità di sezioni dell’organo giudicante e i diversi presupposti giuridici valutati per l’emissione delle due ordinanze (da un lato, come detto, l’art. 49 Cost. e dall’altro le convenzioni internazionali e le leggi nazionali contro la discriminazione e l’odio) creano un cortocircuito che, molto probabilmente, potrà essere sciolto soltanto dalla giurisprudenza di legittimità.

Di certo è interessante notare come, a seconda della scelta operata dalle parti nel consolidamento dell’oggetto processuale, le decisioni degli organi giudiziari competenti possano oscillare – anche pericolosamente per la certezza del diritto – e che, per avere un quadro d’insieme coerente, occorrerebbe un processo di merito che individui tutti gli interessi in gioco per permettere una valutazione a tutto tondo.

[1] Le condizioni d’uso sono costantemente modificate o precisate e possono essere consultate su http://www.facebook.com/terms. Nell’articolo 3, inoltre, si fa riferimento agli standard della community, che sono consultabili su http://www.facebook.com/communitystandards.

[2] Casapound ha agito nei confronti della compagnia innanzi alle sezioni specializzate in materia di impresa, mentre Forza Nuova ha attivato le proprie pretese avanti alle sezioni diritti della persona e immigrazione civile.

[3] Ordinanza del Tribunale di Roma del 12/12/2019, sezione specializzata in materia di Impresa, n. 59264/2019 R.G., consultabile qui.

[4] Ordinanza del Tribunale di Roma del 23/2/2020, sezione diritti della persona e immigrazione civile, n. 64894/2019 R.G., consultabile qui.

[5] Associazione di Promozione Sociale.

[6] Principio fondamentale di diritto processuale civile in base al quale il giudice può fondare la propria decisione esclusivamente sulle doglianze e deduzioni delle parti, non potendo estenderne l’oggetto d’ufficio.

[7] “[…] Tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente”.

[8] R. Rijtano, “Facebook contro la riapertura della pagina Casapound: «Non vogliamo che utilizzino i nostri servizi»”, in Repubblica.it, consultabile qui.

[9] Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

[10] Sul punto, il giudice fa riferimento alla classificazione operata dall’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa).

[11] Rapporto del 9 ottobre 2019 (A/74/486).

[12] Possono essere consultati qui.

Edoardo Palazzolo

Laureato a pieni voti presso l'Università di Pisa, è abilitato alla professione di Avvocato. Consegue nel gennaio 2018 il Master Universitario di 2° livello (CMU2) in Internet Ecosystem: Governance e Diritti presso l'Università di Pisa in collaborazione con il CNR-IIT, nell'ambito del quale svolge un tirocinio formativo presso il Servizio Affari Legali e Istituzionali della Scuola Normale Superiore, occupandosi di data protection e, in particolare, dell'applicazione del GDPR nel settore pubblico. Discute una tesi relativa all'applicazione del GDPR nelle Università statali e i conflitti con la trasparenza amministrativa dopo il decreto FOIA (d.lgs. 97/2016). Ha collaborato con diversi studi legali nel ramo del diritto civile e commerciale, da ultimo specializzandosi nel contenzioso bancario e nelle soluzioni innovative per la previsione della crisi aziendale. Ad oggi è funzionario presso l'Istituto Nazionale Previdenza Sociale, sede provinciale di Venezia, occupandosi di vigilanza documentale e integrazioni salariali. All'interno dell'Istituto collabora altresì con la Direzione Centrale Audit e Monitoraggio Contenzioso, svolgendo attività di internal auditing. e-mail di contatto: edoardo.palazzolo@iusinitinere.it

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