sabato, Aprile 20, 2024
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Libertà di informazione e idee razziste: il caso Jersild contro Danimarca

La libertà di informazione costituisce un elemento imprescindibile di una società democratica e pluralista che, pertanto, risulta garantita e tutelata sia a livello costituzionale che internazionale. La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) la riconosce all’articolo 10[1] nell’ambito della libertà di espressione, affermando che essa “include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.” Pertanto, tra i corollari della libertà di espressione vi è la tutela di una stampa libera e facilmente accessibile, nel senso che vengono garantiti sia il diritto di divulgare informazioni sia lo speculare diritto di riceverle.

Al contempo vengono riconosciuti limiti e restrizioni che concernono l’esercizio di questa libertà fondamentale, in particolare, è prevista la legittimità delle ‘”interfereces quando sono disciplinate dalla legge e si configurano quali “misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziari”.

La Corte di Strasburgo ha contribuito a chiarire la portata dell’articolo 10, bilanciando caso per caso il diritto in questione con interessi potenzialmente confliggenti, ex multis il diritto alla riservatezza[2]. A conferma del valore essenziale riconosciuto alla libertà di informazione, la Corte EDU ha definito la stampa come “cane da guardia” della democrazia, sottolineando che essa funge da ponte tra la politica e la popolazione in quanto rende possibile la partecipazione della comunità ad un dibattito politico libero.

Uno dei casi più emblematici relativo alla libertà di informazione e alle modalità di divulgazione delle notizie è senza dubbio il caso Jersild c. Danimarca[3]. Il ricorrente, giornalista e conduttore del programma radiofonico Sunday News Magazine, era stato condannato con sentenza definitiva per favoreggiamento e incitamento all’odio razziale a causa delle affermazioni rese durante il suo programma. Il giornalista aveva intervistato i cd. ‘’Greenjackts’’, un gruppo di giovani militanti di estrema destra, tristemente noti per i metodi violenti e le tendenze xenofobe. Tra le frasi incriminate che erano state mandate in onda nel programma diretto dal Signor Jersild, vi era la seguente “un negro non è un essere umano, è un animale, e lo stesso vale per tutti i lavoratori stranieri, turchi, jugoslavi e tutti gli altri.”

Dopo che la Corte Suprema danese aveva rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna, il ricorrente aveva adito la Corte EDU, asserendo che le autorità danesi avessero violato l’articolo 10 della Convenzione[4]. Egli affermava la responsabilità penale solo dei ‘’Greenjackets’’, gli unici autori delle dichiarazioni, negando quella della Denmark Radio che le aveva diffuse al solo scopo di fornire un quadro realistico del problema del razzismo violento e giovanile in Danimarca. Invece, lo Stato giustificava la condanna del ricorrente per favoreggiamento attraverso la diffusione delle affermazioni razziali e incoraggiamento delle stesse che si notava dall’assenza di contenimento delle dichiarazioni. Veniva asserito inoltre che il giornalista era venuto meno all’obbligo ‘duties and responsability’.

La corte interpreta le dichiarazioni rese dai ‘’Greenjackets’’ alla luce dell’’art. 10 affermando che si tratta di un diritto derogabile e relativo e si ritrova ad essere rapportato e bilanciato con altri diritti; le affermazioni rese dai “Greenjackets” erano sicuramente ingiurie rivolte ad un determinato gruppo di persone dunque non potevano trovare tutela nell’art 10.

Applicato alla stampa esso tutela anche la scelta delle modalità con cui le notizie sono diffuse, lasciata al libero apprezzamento dei giornalisti, e pertanto sottratte al sindacato di qualsiasi corte, sia nazionale che internazionale.

Nel caso di specie, la Corte rileva che, se lo spezzone incriminato viene analizzato nell’insieme, appare chiaro da un punto di vista oggettivo lo scopo: individuare un gruppo di giovani razzisti e ritrarne mentalità e background sociale. In particolare, i giudici di Strasburgo sottolineano che il filmato veniva preceduto da un’introduzione che spiegava l’argomento e l’intenzione dell’autore e che, sebbene il giornalista non si ponesse in posizione di netto contrasto rispetto alle dichiarazioni dei Greenjackets, si riferisse a loro come ad un gruppo di giovani disadattati, ricordandone i precedenti penali.

La Corte richiama inoltre i requisiti che rendono legittime le restrizioni della libertà di informazione da parte della pubblica autorità, ai sensi dell’articolo 10. Sono necessari: una legge chiara e determinata; uno scopo legittimo, come la tutela della reputazione altrui oppure combattere la diffusione di idee razziste; la necessarietà della interference in una società democratica, dimostrata attraverso il test di proporzionalità. Nel caso in esame, non mancando né la legge né il legitimate purpose, la Corte ravvisava una violazione dell’articolo 10 per carenza di necessarietà delle misure applicate e di proporzionalità dello stesso rispetto allo scopo di ‘’protezione della reputazione e diritti altrui’’[5].

La Corte quindi si sofferma sulla pericolosità di punire i giornalisti nello svolgimento delle loro funzioni, in quanto vi è il rischio che limitando il ruolo di ‘’cane da guardia’’[6] riconosciuto alla stampa si possa minare il fondamento di una società democratica.

[1] https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf

[2]

[3] https://globalfreedomofexpression.columbia.edu/cases/jersild-v-denmark/

[4] La decisione è scaricabile al seguente link: https://hudoc.echr.coe.int/eng#{“itemid”:[“001-57891”]}

[5] ‘’Having regard to the foregoing, the reasons adduced in support of the applicant’s conviction and sentence were not sufficient to establish convincingly that the interference thereby occasioned with the enjoyment of his right to freedom of expression was “necessary in a democratic society”; in particular the means employed were disproportionate to the aim of protecting “the reputation or rights of others”. Accordingly the measures gave rise to a breach of Article 10 (art. 10) of the Convention’’

[6]’The Court reiterates that freedom of expression constitutes one of the essential foundations of a democratic society and that the safeguards to be afforded to the press are of particular importance (ibid.). Whilst the press must not overstep the bounds set, inter alia, in the interest of “the protection of the reputation or rights of others”, it is nevertheless incumbent on it to impart information and ideas of public interest. Not only does the press have the task of imparting such information and ideas: the public also has a right to receive them. Were it otherwise, the press would be unable to play its vital role of “public watchdog” (ibid.). Although formulated primarily with regard to the print media, these principles doubtless apply also to the audiovisual media.’’ 

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