sabato, Gennaio 25, 2025
Labourdì

Licenziamenti collettivi: quando una legge nazionale può limitarli, secondo la CGUE

Il caso “Aget Iraklis” contro “Ministero del lavoro Greco” (Causa C-201/15) appare come fondamentale nell’interpretazione delle norme europee in materia di licenziamenti collettivi, in un’ottica di bilanciamento di interessi contrapposti, e parimenti rilevanti, quali la libertà di impresa, in senso ampio, e i diritti dei lavoratori.

In particolare, la sua importanza sta nell’aver opportunamente chiarito i casi in cui è possibile per una normativa nazionale prevedere una procedura amministrativa di limitazione dei licenziamenti collettivi che non sia contraria al diritto europeo.

La controversia origina dalla decisione dell’Aget Iraklis, controllata dalla multinazionale francese Lafarge, di chiudere l’impianto di Chalkida, uno dei tre stabilimenti di produzione del cemento posseduti dal gruppo in Grecia. In conseguenza della decisione, l’azienda avviava una procedura di licenziamento collettivo coinvolgente 236 lavoratori, nel rispetto della normativa greca basata sulla legge 1387/83. Questa prevede la possibilità, all’art.5 co3, per il Ministro del Lavoro di non autorizzare, in tutto o in parte, attraverso un parere da fornire in un tempo determinato, una proposta di licenziamento collettivo avanzata da un datore di lavoro, in considerazione delle “condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa e dell’interesse dell’economia nazionale”. L’applicazione, nel caso concreto, di tale potere, da parte del Ministro del Lavoro, aveva provocato la reazione dell’impresa che aveva adito la giustizia amministrativa greca per ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo di impedimento al progetto di licenziamento collettivo.

In particolare, dinanzi al Consiglio di Stato, il datore di lavoro sosteneva l’illegittimità dell’art.5 co3 della l. 1387/83, in quanto considerato contrario alla direttiva 98/59/CE (“Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di Licenziamenti Collettivi”), agli artt. 49-63 del TFUE (“diritto di stabilimento” e “diritto di movimento dei capitali”) e, infine, all’art.16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’EU (“libertà di impresa”).

Il Consiglio di Stato ritenne che i problemi essenziali, suscitati dalle richieste dell’impresa, fossero essenzialmente due: se il regime autorizzatorio fosse compatibile con gli obiettivi della Direttiva, in quanto dipendente da criteri quali “condizioni del mercato del lavoro” e “interesse dell’economia nazionale” che avrebbero potuto portare una divergenza in materia fra gli Stati membri e una limitazione sproporzionato della libertà di impresa; se vi fosse effettivamente una violazione degli artt. 49 e 63 TFUE e dell’art.16 della Carta.

La soluzione della controversia passava necessariamente da un rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia dell’UE, in quanto vertente sull’interpretazione del diritto europeo.

Per questo, il 7 aprile 2015 il Consiglio di Stato sospese il procedimento dinanzi a sé e sottopose alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali:

  • La conformità dell’art.5 co3 l.1387/83 alla Direttiva e agli articoli del Trattato e della Carta.
  • In caso di risposta negativa alla prima questione, la possibilità di ottenere risposta positiva in considerazione della sussistenza di ragioni sociali serie, quali l’esistenza di una grave crisi economica ed un tasso di disoccupazione molto elevato.

La Corte di Giustizia emana la sua decisione il 21 dicembre 2016, apportando chiarezza sul tema.

Per quanto riguarda la direttiva 98/59, la Corte chiarisce che il suo obiettivo primario è il rafforzamento della tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, ottenuto attraverso le consultazioni obbligatorie fra rappresentanti dei lavoratori, datore ed autorità pubblica competente. Bisogna, quindi, concludere che la suddetta Direttiva non può, in linea di principio, essere interpretata nel senso che “osta ad un regime nazionale che conferisce ad un’autorità pubblica il potere di impedire licenziamenti siffatti mediante una decisione motivata in esito all’esame del fascicolo e alla presa in considerazione di criteri sostanziali predeterminati”.

La Corte, in più, si fa cura di precisare che tale conclusione sarebbe diversa esclusivamente nel caso in cui il regime nazionale preveda modalità  particolari o sia applicata in modo tale da privare di utilità le disposizioni della Direttiva stessa. E’ questa, secondo la Corte, una valutazione riservata al giudice del rinvio, il solo a poter disporre delle informazioni necessarie a valutare la compatibilità del regime effettuale nazionale con gli obiettivi della direttiva.

Per quanto riguarda gli artt. 49 e 63 TFUE, la Corte chiarisce, in primo luogo, che un eventuale effetto restrittivo sulla libertà di movimento dei capitali deriverebbe dalla restrizione della libertà di stabilimento e che, quindi, non serve analizzare la questione in termini di violazione all’art.63, derivando la stessa da una violazione dell’art.49.

Concentrandosi sulla libertà di stabilimento, la Corte considera che, per giurisprudenza costante, una restrizione alla stessa possa essere ammessa solo se giustificata “da motivi imperativi di interesse generale” e se rispetta il principio di proporzionalità, per cui la restrizione non va oltre quanto strettamente necessario per conseguire l’obiettivo di interesse generale (art.52 della Carta).

Ragionamento analogo la Corte dedica al tema dell’art.16 della Carta.

Il punto fondamentale è, quindi, capire se, nel caso, i criteri considerati dalla legge nazionale fossero assimilabili ai quei “motivi imperativi di interesse generale” capaci di legittimare una tale restrizione.

La Corte dà risposta positiva per due criteri su tre, escludendo quello attinente alla “salvaguardia dell’interesse dell’economia nazionale”, tenendo conto della finalità anche sociale dell’Unione, espressa in norme fondamentali come gli artt.147 e 151 del TFUE. Il giudizio sulla proporzionalità si risolve, invece, in maniera negativa, in quanto i giudici considerano i criteri formulati in maniera molto generica e imprecisa, non vincolando il potere del Ministro a circostanze specifiche ed obiettive, derivando da ciò un grave pregiudizio alla libertà d’impresa. In particolare, in questo modo, le motivazioni alla base di un eventuale diniego di autorizzazione a procedere ad un licenziamento collettivo non sarebbero conoscibili, in nessun modo, dal datore e non sarebbero forniti al giudice nazionale criteri sufficientemente precisi per consentirgli il controllo su tale potere dell’autorità amministrativa.  L’art.49 TFUE risulta così violato e i motivi di tale violazione sussisterebbero anche in un contesto caratterizzato dalla sussistenza di “serie ragioni sociali”, dovendo così risolvere in maniera negativa anche la seconda questione pregiudiziale.

La sentenza è stata, negli ambienti giuridici, accolta con favore in virtù della sua capacità di fare chiarezza su un tema fondamentale e si spera sarà presa, in futuro, come base, da parte degli Stati membri, per la costruzione di nuovi e adeguati regimi nazionali in tema di licenziamento collettivo, così da rafforzare la tutela dei lavoratori ed evitare decisioni con impatti devastanti sul contesto socio-economico nazionale ed europeo.

 

Simone D'Andrea

Studente di Giurisprudenza, classe 1994, tesista in Diritto del Mercato Finanziario, collaboratore area di Diritto Internazionale

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