venerdì, Marzo 29, 2024
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Limitazioni (s)proporzionate: la libertà di culto alla prova delle limitazioni pandemiche dei primi mesi del 2020

Limitazioni (s)proporzionate: la libertà di culto alla prova delle limitazioni pandemiche dei primi mesi del 2020. Riflessioni nazionali e transnazionali sulla proporzionalità dopo due anni di Covid-19

1) Considerazioni introduttive

Proporzione è equilibrio tra fattori. Per dirla con i romani, est modus in rebus[1]. Il principio di proporzionalità è al contempo centrale e trasversale nel mondo del diritto, perché impone una tendenziale equivalenza tra libertà ed autorità, tra le ragioni del ius (diritto oggettivo) e quelle degli iura (diritti soggettivi). È anche valore metagiuridico, che suggerisce di conformare le condotte umane allo scopo che esse perseguono, evitando azioni (e limitazioni) di portata eccessiva. Insomma, si può dire che il tema della proporzione non si esaurisca nel solo campo delle scienze giuridiche ma abbracci, virtualmente, tutti gli aspetti della vita umana.

Ora, un ambito centrale del vivere quotidiano, individuale e collettivo, è la dimensione spirituale. Per quanto il mondo odierno spinga sempre di più verso una secolarizzazione delle società, dei rapporti umani finanche delle coscienze, non si può dimenticare che sin dagli albori delle civiltà l’esigenza escatologica di ricercare la salvezza ultraterrena ovvero, più semplicemente, di reperire altrove le risposte ai più insolubili quesiti dell’umanità, ha portato e porta ancora oggi ad una centralità del sacro e dello spirituale nelle vite di miliardi di persone.

Di fronte a tale complessità, gli ordinamenti giuridici hanno saputo, nel tempo, fornire le risposte più svariate: dall’intolleranza verso qualsiasi fenomeno religioso, nell’ottica di un arido materialismo, alla stessa loro legittimazione per mezzo della Divinità, mediante instaurazione di violente teocrazie.

Circoscrivendo lo sguardo al contesto occidentale degli ultimi decenni, prerogativa dello Stato costituzionale di diritto è quello di riconoscere e garantire quelle libertà che sole possono condurre alla pienezza dell’esistenza dell’uomo, tra le quali quella di culto assurge certamente fra le più importanti. Non bisogna nemmeno trascurare che nel medesimo contesto spazio-temporale i fenomeni sociali connessi alle migrazioni, dettate ora da situazioni geopolitiche precarie ora da semplice e ricerca di vite migliori, hanno portato ad una progressiva mosaicizzazione del quadro etnico e religioso. Sia pure in percentuali non così rilevanti, a fianco di popolazioni etnicamente e religiosamente omogenee, convivono oggi nei Paesi europei comunità diverse per provenienza e Fede, il che offre una panoramica sfaccettata e multiforme della libertà religiosa.

Al netto delle riflessioni proposte, è innegabile che, a prescindere dall’area geografica di riferimento, due anni di pandemia da coronavirus abbiano portato a sconvolgimenti, collettivi e individuali, di più che significativa portata. I rivolgimenti socio-economici e le incertezze causate dal Covid-19 e dalle risposte politiche al suo impatto hanno generato ansie e paure. Di fronte alle certezze regalate dalla società odierna, di quasi invincibilità dell’homo technologicus, si è abbattuta l’onda dei contagi e il dolore delle perdite. Al cospetto di questi fenomeni, molti hanno cercato conforto nella Fede. Ora, se nel buio periodo degli isolamenti domestici e delle quarantene non era in pericolo la libertà di “pregare nel chiuso della propria stanza[2], altrettanto non si poteva dire in riferimento alla dimensione collettiva della libertà religiosa.

Il diritto di esercitare il culto, cioè quello di entrare in contatto con il Divino, ha infatti una dimensione ancipite: privata, certamente, ma anche pubblica. Ciò è riconosciuto dall’art. 19 Cost., che pone, quale unico e preciso limite alla libertà religiosa, la contrarietà al buon costume.

Nel corso della pandemia (che, a rigore, non è ancora finita) gli ordinamenti hanno fornito diverse risposte all’avanzata del virus. Oggetto del presente contributo è indagare se vi sia stata proporzionalità fra sacrificio imposto, fine perseguito e risultato atteso. Tenendo sempre a mente un caveat, che, in tema di proporzionalità, non può che costituirne la premessa logica. Nessun diritto, per quanto importante esso sia o per quanto possa essere avvertito come fondamentale dai consociati, merita di tiranneggiare sugli altri. Da tempo immemore la giurisprudenza costituzionale dei Paesi più svariati, tra cui quella della Consulta, ha elaborato, sviluppato e difeso la complessissima arte del bilanciamento fra diritti fondamentali. Sul punto, per introdurre il discorso che ci occupa, sia consentito il richiamo alle parole della prima, primissima sentenza della Corte costituzionale, ad avviso della quale “il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile[3].

Nessun diritto, perciò, merita di sminuire l’altro fino a renderlo inoperoso, giacché il suo sacrificio, si aggiunga in questa sede, non solo deve essere minimo, bensì proporzionato rispetto al fine da perseguire. Oggetto d’indagine sarà, dunque, valutare quanta proporzione vi sia stata fra le molteplici risposte che i fedeli di diversa nazionalità hanno trovato, ai tempi del Covid-19, alla loro richiesta di rapportarsi collettivamente ed in sicurezza, al Divino.

2) Il caso italiano

La scoperta della presenza di Sars-Cov-2 a Codogno e Vo’ Euganeo, il 21 febbraio 2020, è un accadimento che segna nel nostro vissuto collettivo, un “prima” e un “dopo”, una vita antecedente al virus e una successiva alle prime, traumatiche, misure di contenimento, le più “poderose, restrittive e limitanti che la storia repubblicana ricordi[4].

Il quadro normativo con cui il legislatore ha gestito le prime fasi dell’epidemia è alquanto complesso, e si cercherà di valutarlo limitatamente, selezionando gli aspetti relativi alla libertà di culto. L’antecedente logico dei plurimi D.P.C.M. che hanno segnato i primi due mesi di marzo e aprile 2020 è il D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13. Il decreto in questione si limitava ad attribuire alle “autorità competenti” (Presidente del Consiglio, e, in casi d’urgenza e nelle more del suo intervento, ai Presidenti delle Giunte Regionali) il potere di adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica[5]. Tralasciando il rilevo, corretto ad avviso di chi scrive, che con il fare ciò il legislatore ha “lasciato diritti di libertà fondamentali in balia della miriade di autorità competenti[6], resta il fatto che il richiamo testuale alla proporzionalità è rimasto in più occasioni lettera morta, quantunque le norme derogate fossero di rango costituzionale[7]. A seguito dell’introduzione del successivo D.L. 25 marzo 2020, n. 19, sono state tipizzate 29 condotte sanzionabili in quanto ritenute pericolose e idonee alla diffusione del virus, le cui caratteristiche “minute” e le cui fisionomie avrebbero continuato ad essere definite a mezzo di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri[8].

Ora, per fugare dubbi, basti ricordare questo: anche nel corso del periodo più buio del c.d. lockdown, chiese ed altri edifici di culto non sono stati completamente chiusi. Ciò infatti si sarebbe tradotto in una indebita limitazione di un diritto fondamentale a tutto vantaggio di un altro diritto, quello alla salute pubblica che, pur consacrato dall’art. 32 Cost. anche nella sua dimensione collettiva, non può né deve tiranneggiare sopra altre fondamentali esigenze di rango costituzionale.

Tuttavia, l’accesso ai luoghi di preghiera nonché, a fortiori, la partecipazione alle cerimonie, ha subito una significativa limitazione “condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra di loro di almeno un metro” (D.P.C.M. 8 e 9 marzo 2020). Tali previsioni si estendevano anche alle cerimonie, come quelle esequiali.

Volendo così portare chiarezza nel marasma normativo che ha poi dominato anche le fasi successive di lotta al virus, in un andirivieni di aperture e chiusure che hanno tenuto in ostaggio l’Italia fino a tempi decisamente recenti, per quanto attiene alla libertà di culto (cattolica, ma anche delle altre confessioni che avessero stipulato intese con lo Stato ovvero senza intesa) si può dire che le parole d’ordine fossero state cerimonie contingentate e messe proibite.

Il tutto, viene da dire, cum granu salis, demandando così ai ministri di culto e ai loro vertici le misure pratiche nonché la predisposizione di linee guida per gestire concretamente il fenomeno[9]. Va detto anche, per chiarezza, che la normazione confusa dei mesi di pandemia ha scoraggiato molti fedeli dal prendere effettivamente parte ai riti consentiti, a motivo della mancanza di chiarezza dei precetti che erano chiamati ad osservare.

Ad ogni modo, sul piano della proporzionalità, “la libertà di culto non si sottrae al bilanciamento con altri diritti[10] ma sembra che, nel caso italiano, questo canone d’equilibrio non sia stato pienamente rispettato. Tenere aperti i luoghi di culto, precludendo però lo svolgimento di cerimonie è sicuramente cosa utile ed opportuna per quanto attiene alla dimensione individuale della preghiera, ma è assolutamente insufficiente per quanto concerne la fondamentale dimensione collettiva del culto. Sia chiaro, con il rispetto di tutte le misure di prevenzione necessarie.

Un modo per garantire l’ordinato e sicuro svolgimento dei riti in quei confusi, primi mesi di pandemia, a ben vedere, ci sarebbe stato, vale a dire la supervisione delle Forze dell’ordine. A questa tesi si è correttamente obiettato che, ai sensi dell’art. 5, comma 2 dell’Accordo di Revisione del Concordato del 1984, alla forza pubblica è precluso l’accesso ai luoghi di culto cattolici (e, similmente, prevedono altre intese). Nondimeno, il testo della norma parla, in via eccezionale, di casi di “urgente necessità” quale deroga al principio generale di inaccessibilità della forza pubblica ai luoghi di culto (chiese, sinagoghe, assemblee ecc.). Se combattere il Covid era ed è un’urgenza, vivere la dimensione collettiva del culto è una necessità. Ora, se si ritiene che il nocciolo duro di un diritto fondamentale non debba mai soccombere in sede di contrapposizione con altro diritto, si converrà che una Chiesa, come ogni altro edificio di culto, se lasciata vuota, non è che un triste simulacro. Che differenza può fare, allora, per il fedele, pregare in situ o nel chiuso della sua stanza, se non una percezione di maggiore prossimità con il Divino?

I tempi sono cambiati, oggi il Covid-19 sembra allentare un poco la sua morsa biennale, ma quanto oggetto d’indagine si auspica possa costituire una riflessione, perché, ad avviso di chi scrive, è proporzionato solo ciò che è al contempo equilibrato. Nel caso italiano, dunque, i primi mesi di pandemia non hanno visto una piena aderenza del legislatore al canone di normazione in parola (a cui pure si era proposto di aderire), con un certo pregiudizio per la libertà di culto che ad oggi, per fortuna, appare pienamente ristorata nella sua integrità.

3) Il caso tedesco (BVerfGE, 2. Kammer des Ersten Senats, 1BvQ 28/20, 10.04.2020)

Diverso è stato l’approccio al tema nell’ordinamento tedesco, dove la giurisprudenza costituzionale è sempre stata decisamente attenta al rispetto della proporzionalità. Similmente all’Italia e ad altri Paesi europei, anche in Germania nei primi mesi della pandemia erano state adottate misure anticontagio che avevano comportato, tra l’altro, il divieto temporaneo di riunioni in luoghi di culto.

La sentenza della Corte costituzionale tedesca è intervenuta sul tema con la sentenza del 10 aprile 2020[11]. Il ricorso al giudice costituzionale tedesco sorgeva dall’impugnazione di una sentenza del Tribunale Amministrativo dello Stato dell’Assia che aveva respinto la domanda di sospensione del divieto di assembramento in luoghi di culto (chiese, moschee, sinagoghe) di cui al provvedimento anticontagio deliberato dal Land. Ad avviso del ricorrente le misure in questione si sarebbero poste in irrimediabile contrasto con l’art. 4, parr. 1 e 2 GG (Grundgesetz) che riconosce e garantisce la libertà di culto. Interessante notare il carattere individuale del ricorso (stante la particolarità del sistema di giustizia costituzionale tedesco che, come altri mitteleuropei che ad esso si ispirano, consente il ricorso individuale del privato avverso atti e decisioni di pubbliche amministrazioni od altri organi dello Stato lesivi di libertà fondamentali, istituto noto come Verfassungsbeschwerde). Ad ogni modo, il ricorrente, di fede cattolica, lamentava di non poter prendere parte alle celebrazioni domenicali nonché a quelle della Santa Pasqua. Proprio la proporzionalità assume, nell’economia della questione di diritto sottoposta ai giudici di Karlsruhe, una dimensione epicentrica, atteso che le restrizioni impugnate venivano qualificate come assolutamente sproporzionate.

Nondimeno, la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato infondato il ricorso, ma ne ha accolto le argomentazioni di fondo. In particolare ha rilevato, con grande sensibilità, che nel culto cattolico assume una dimensione imprescindibile la celebrazione collettiva del momento Eucaristico, richiamando peraltro le posizioni espresse dal Concilio Vaticano II[12]. Così, partendo da queste premesse, una simile limitazione, pur nell’ottica della meritevole salvaguardia della salute pubblica, non poteva che tradursi in una “interferenza estremamente grave nella libertà di culto[13]. Ma c’è di più. Il Giudice costituzionale si è spinto fino a dire che il divieto di partecipazione alle funzioni non poteva dirsi compensato dalla sola preghiera individuale o dalla trasmissione di servizi in streaming, specie per il rilievo che le celebrazioni pasquali assumono nella vita del cristiano.

Ciononostante, le misure anticontagio sono apparse legittime. Ciò che ha consentito al Tribunale costituzionale di salvarne la legittimità è stato il loro carattere temporaneo. Invero, ciò che difetta in proporzionalità nel modo, la può recuperare nel tempo, atteso il carattere temporaneo della limitazione. Ha infatti chiarito parte la motiva della sentenza che, ora per allora, le misure di contenimento risultavano giustificabili alla luce della situazione epidemiologica, ma che questo fosse, d’altro canto, un apprezzamento solo rebus sic stantibus.

Ciò che è lecito imparare dalla lezione tedesca è che nessuna misura di contenimento sia assolutamente opportuna, bensì relativamente giustificabile in un dato frangente temporale. La proporzionalità, insomma, ha una dimensione mutevole e dinamica, e necessita continui riadattamenti per poter mantenere la sua fisionomia di equilibrio. È stato correttamente osservato che la pronuncia in questione ha offerto al legislatore tedesco una importantissima indicazione come canone di normazione, atteso che “restrizioni e limiti alla libertà religiosa non possono essere applicate in modo uniforme e generalizzato[14] ma devono superare un test di proporzionalità concreto, calato nel tempo, nel luogo e nel modo di applicarle.

4) Il caso francese (Conseil d’Ètat, 18 mai 2020, n. 440360 et autres)

Un altro esempio di buon governo del principio di proporzionalità viene dalla patria della laicité. Per far fronte ai primi casi di Covid rilevati sul suolo nazionale, il Governo francese aveva adottato misure di contenimento decisamente draconiane, se osservate limitatamente all’ambito d’interesse del presente contributo. Infatti, con l’ordinanza del 13 marzo 2020, successivamente integrata da altri provvedimenti amministrativi successivi, nonché dal decreto del Primo Ministro del 16 marzo 2020, il Ministero della Salute aveva decretato la chiusura dei luoghi di culto, con divieto di celebrazione dei riti e con sola possibilità di preghiera individuale, e la possibilità di celebrazione delle sole cerimonie esequiali, con un massimo di venti partecipanti[15].

Orbene, similmente alle esperienze già viste, anche in Francia il principio di precauzione aveva ispirato la normazione d’emergenza, preoccupata dall’avanzata di un agente patogeno ancora per molti versi sconosciuto. Tuttavia, anche qui permaneva il problema di fondo già evidenziato, ovvero la preclusione della dimensione collettiva dei riti. Proprio a questo proposito, un gruppo di cittadini e di associazioni si sono rivolte al Conseil d’Ètat, lamentando la violazione della loro libertà di culto e chiedendo che quest’ultimo prescrivesse al Primo Ministro indicazioni, generali e di dettaglio, per ripristinare il diritto violato[16].

Il supremo Giudice amministrativo rispose, all’epoca, con l’ordinanza 8 maggio 2020, un provvedimento ricchissimo di spunti di riflessione e caratterizzato da un percorso logico assolutamente di primo piano. Occuperebbe troppo spazio ed esulerebbe dai confini della odierna trattazione, però, soffermarsi su tutti i contenuti dell’ordinanza in questione, di cui conviene dar conto del solo passaggio utile ai fini della trattazione. Si tratta, invero, del passaggio dedicato al test di proporzionalità delle misure adottate dal Governo per fronteggiare l’esercizio del culto, in particolare la preclusione inerente alla celebrazione (ovviamente associativa) dei rituali.

Rileva, in particolare, il Consiglio di Stato che la prescrizione governativa di bandire totalmente la dimensione collettiva del culto, laddove motivata e sorretta dal solo rischio di contagio da Sars-Cov-2, è misura sproporzionata e non adeguata allo scopo. Infatti, atteso che il fine è quello di contenere la diffusione del virus, evitare tout court la possibile formazione di assembramenti appare esagerato, a fronte della possibilità di ordinarne lo svolgimento e le modalità di riunione con modalità tali da prevenire il rischio di contagio. Sicché, al termine delle proprie articolate riflessioni, il Conseil d’Ètat perviene alla conclusione che “il divieto generale e assoluto di qualsiasi riunione nei luoghi di culto – con la sola eccezione delle cerimonie funebri per le quali è consentita la presenza di 20 persone – è giudicato sproporzionato rispetto all’obiettivo della tutela della salute pubblica e, pregiudicando una componente essenziale della libertà di culto, costituisce una lesione grave e manifestamente illegittima di quest’ultima[17].

5) Conclusioni

Tre approcci diversi, tre differenti risposte al medesimo quesito. Come anticipato in apertura, le riflessioni di cui sopra possono apparire tardive. Sembra (anche se, ad avviso di chi scrive, non è così) che il Covid abbia ormai, dopo due anni, allentato la sua morsa e che ciò che è accaduto all’epoca del primo lockdown appartenga ormai al passato. Ciò non è vero nella misura in cui si possa e si debba prendere atto che non sempre il principio di proporzionalità è stato osservato, tradotto in norme coerenti con esso e reso effettivo.

È chiaro, l’emergenza e la necessità possono portare – come in effetti hanno portato – al sacrificio temporaneo di garanzie e di libertà che solitamente si danno per scontate, ma nemmeno questa deve essere una giustificazione. Prerogativa di uno Stato costituzionale di diritto è (o, quanto meno, dovrebbe essere) il non rinunciare alla sua Carta fondamentale quale fonte suprema nemmeno ove la stessa emergenza o la stretta necessità si imponessero con forza, rivendicando il loro ruolo in sede di predisposizione delle risposte normative alle situazioni calamitose o pericolose. Proporzionalità è, infatti, combattere con armi costituzionalmente conformi, non spuntate, ma adeguate, poiché, per riprendere la celebre definizione di Fleiner, “non si tiri ai passeri usando cannoni[18].

Perciò, ed in chiusura, il presente contributo intende proporre, guardando a ieri, un monito per il domani. Purtroppo, l’attuale situazione di incertezza politica, economica e sociale mostrano sfide cui anche l’Europa e l’Italia, terre di pace e di diritto, devono, loro malgrado, interfacciarsi e non c’è sfida che non si possa vincere ove a contemperare le opposte esigenze in gioco non sia la tirannide di un interesse su un altro bensì la loro ordinata coesistenza pacifica[19]. Diversamente “si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona[20]. Parole sante, per restare aderenti al tema.

 

 

 

[1] Orazio, Satyrae, I, 106-107

[2] Vangelo di Matteo, VI, 6.

[3] Corte cost., sentenza 14 giugno 1956, n. 1

[4] M. Micheletti, La libertà di culto nella spirale dell’emergenza sanitaria Covid-19, in dirittifondamentali.it, II/2020, 23 maggio 2020, cit., p. 526.

[5] In tema di attribuzione del potere d’ordinanza, e suoi limiti, si segnala Corte cost. 14 aprile 1995, n. 127, ad avviso della quale non sono ammissibili “poteri d’ordinanza non adeguatamente circoscritti nell’oggetto, tali da derogare a settori di normazione primaria richiamati in termini assolutamente generici”. In tema, v. S. Cassese, Il dovere di essere chiari, in Corriere della Sera, 24 marzo 2020, consultato il 24 maggio 2022. In ogni caso, la deroga di norme primarie non può che avvenire entro i confini dei principi costituzionali chiamati in causa e, in generale, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico (così Cons. Stato, 28 ottobre 2011, n. 5799).

[6] N. Colaianni, La libertà di culto ai tempi del coronavirus, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 7/2020, cit., p. 26.

[7] A ben vedere, il problema attiene alla sostanza, con sistemazione della forma. La normazione di molteplici settori, inclusa la libertà di culto, tramite D.P.C.M. e ordinanze dei Presidenti delle Regioni, è stata in parte ricomposta mediante il ricorso a strumenti più rispettosi del dato costituzionale, vale a dire il D.L. 25 marzo 2020, n. 19, ancorché la questione fosse ancora controversa. La gestione del fenomeno mediante il ricorso a provvedimenti amministrativi è stigmatizzata, ex multis, in L. Cucolo, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19. Una prospettiva comparata, in federalismi.it, 13 marzo 2020.

[8] Dal punto di vista penalistico è chiaro che una sistemazione di questo tipo, anche se non inappuntabile, ha consentito di garantire un maggiore rispetto della riserva di legge e del principio di tassatività-determinatezza. In primo luogo, perché nel decreto del 25 marzo le condotte sono state definite da un atto avente forza di legge, compatibile con il dettato costituzionale, in secondo luogo perché la descrizione delle condotte, per quanto non precisissima, sarebbe da allora avvenuto non più a mezzo di provvedimenti amministrativi, demandando alla fonte primaria una mera attribuzione di potere “in bianco”. Così G. L. Gatta, Un rinnovato assetto del diritto dell’emergenza COVID-19, più aderente ai principi costituzionali, e un nuovo approccio al problema sanzionatorio: luci ed ombre del d.l. 25 marzo 2020, n. 19, in www.sistemapenale.it, 26 marzo 2020. Quanto al monopolio dei D.P.C.M. nella determinazione delle caratteristiche delle condotte sanzionabili, pare decisamente più in linea con il principio generale d’eguaglianza l’aver sottratto questa prerogativa alla normazione di dettaglio regionale i cui confini sono stati ben tracciati, anni or sono, dalla Corte costituzionale, sentenza 27 luglio 1989, n. 487.

[9] Il 7 maggio 2020, infatti, il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, ha divulgato il testo di un Protocollo «riguardante la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo» in «applicazione delle misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 previste dal d.p.c.m. 26 aprile 2020», predisposto dalla Conferenza Episcopale Italiana e sottoscritto dal card. Gualtiero Bassetti, nella qualità di presidente della C.E.I., dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. In questo Protocollo, «nel rispetto della normativa e delle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da Covid-19», è stata contemplata, a partire dal 18 maggio 2020, la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo. Per un approfondimento, v. S. Nitoglia, Covid-19 e libertà religiosa, in L-JUS, I/2020, 8 giugno 2020.

[10] N. Colaianni, La libertà di culto al tempo del coronavirus, cit., p. 34.

[11] BVerfGE, 2. Kammer des Ersten Senats, 1BvQ 28/20, 10.04.2020. Il testo della sentenza, tradotta in italiano, è reperibile all’indirizzo: https://www.giurcost.org/casi_scelti/giurisprudenzastraniera.htm consultato il giorno 2 maggio 2022.

[12] M. Micheletti, La libertà religiosa e di culto, p. 549.

[13] BVerfGE, 2. Kammer des Ersten Senats, 1BvQ 28/20.

[14] M. Micheletti, La libertà religiosa e di culto, cit., p. 550.

[15] Il testo dei provvedimenti è consultabile all’indirizzo: https://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriAdmin.do?idTexte=CETATEXT000041897157

[16] I ricorsi si basavano su un particolare tipo di procedimento disciplinato dal Codice di giustizia amministrativa francese, teso a garantire la salvaguardia di libertà fondamentali che si assumono violate (c.d. procedure de réferé-liberté) tramite accertamento del fatto lesivo e contestuale condanna dell’autorità amministrativa all’adozione di misure idonee a ripristinare il godimento del diritto. I requisiti su cui si fonda la concessione del provvedimento richiesto sono l’urgenza di rimuovere la limitazione in atto nonché il carattere grave e manifesto del vulnus che si ritiene sussistere. I ricorrenti, tra cui associazioni religiose, fedeli cattolici, e un partito politico, rappresentavano al Giudice amministrativo che il divieto di celebrazione di messe e riti di altre confessioni, a termini della normativa allora vigente (tra cui il citato decreto del 16 marzo 2020) non sarebbe stato conforme al principio di necessità, al principio di proporzionalità («ni adaptée, ni nécessaire ni proportionnée») e al principio di realtà.

[17] A. Licastro, La messe est servie. Un segnale forte dal Consiglio di Stato francese in materia di libertà religiosa, in www.consultaonline.it, fasc. II/2020, 2 giugno 2020, cit., p. 321.

[18] F. Fleiner, Institutionen des Deutschen Verwaltungsrechts, Tubingen, 1912, p. 354.

[19] Per approfondire ulteriormente il tema, si rinvia ai pregevoli contributi di G. M. Caporale, L. Trapassi, La libertà di esercizio del culto cattolico in Italia in epoca di COVID-19. Una questione di diritto internazionale, in Federalismi.it, Osservatorio Emergenza Covid-19, 20 maggio 2020, 1 ss.; M. Carrer, Salus Rei Publicae e salus animarum, ovvero sovranità della Chiesa e laicità dello Stato: gli artt. 7 e 19 Cost. ai tempi del coronavirus, in BioLaw Journal, n. 2, 2020, 1 ss.; G. Cimbalo, Il papa e la sfida della pandemia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 9, 2020, 13 ss.; P. Consorti, La libertà religiosa travolta dall’emergenza, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020; T. Di Chiara, La quarantena dell’anima del civis-fidelis. L’esercizio del culto nell’emergenza sanitaria da Covid-19 in Italia, ivi, 36 ss.; V. Pacillo, La libertà di culto al tempo del coronavirus: una risposta alle critiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 8, 2020, 85 ss.; A. Tira, Libertà di culto ed emergenza sanitaria: il protocollo del 7 maggio 2020 concordato tra Ministero dell’Interno e Conferenza Episcopale Italiana, in Giustizia Insieme, 16 maggio 2020.

[20] Corte cost., sentenza 9 maggio 2013, n. 85.

Alvise Accordati

Alvise Accordati, veneziano, nato nel 1996 e residente a Venezia, consegue il diploma di maturità classica presso il Liceo-Ginnasio Statale "R. Franchetti" di Mestre nel 2015. Nel luglio 2021 si laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Ferrara, discutendo una tesi in Giustizia costituzionale dal titolo "Addio alle rime obbligate. La recente giurisprudenza costituzionale sulla dosimetria sanzionatoria" (relatore Prof. Pugiotto).Appassionato di giustizia costituzionale, diritto penale e diritto amministrativo, collabora con Ius in itinere dall'estate 2021. Vincitore del concorso Europa&Giovani 2020 bandito dall'Istituto Regionale di Studi europei di Pordenone con un tema di diritto amministrativo "L'Unione europea e la tutela dei dati personali: storia, sfide e prospettive". Particolarmente interessato alla storia tardoantica e medievale, alle lettere classiche e alla teologia, partecipa al gruppo under35 del Centro Studi R. Livatino. Attualmente è tirocinante ex art. 73, legge n. 98 del 2013, presso la Prima sezione penale della Corte d'appello di Venezia.

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