venerdì, Aprile 19, 2024
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L’immigrazione come risorsa economica: gli scenari del caso

Il fenomeno dell’immigrazione è, attualmente, al centro del dibattito politico a livello globale. Impossibile non considerare quanto l’opinione pubblica sia influenzata e divisa sull’argomento: posizioni internazionaliste e umanitarie si scontrano con un rinnovato sovranismo e nazionalismo caratteristico in tutti gli Stati del Nord del mondo. Tuttavia, l’oggetto di quest’articolo non sarà prendere posizione sulla questione politica e culturale, quanto analizzare il fenomeno come risorsa nella sua complessità socio-economica. In effetti, si tratta di un aspetto poco discusso che ha, oggi, e avrà, nel medio e lungo periodo, una nodale importanza: il declino demografico.

Infatti, secondo le proiezioni, il vecchio continente attraversa una fase di declino demografico, seppur difforme da paese a paese. I principali bersagli saranno gli Stati più grandi e con poco sostegno alla natalità, tra cui l’Italia[1]. Il rischio geopolitico è evidente ma l’aspetto economico non è stato ben colto. Nel medio e lungo periodo, allora, l’immigrazione potrebbe costituire un vero e proprio asset economico[2]. Si precisa, infine, che questo lavoro non ha la pretesa di condannare né di approvare l’operato politico dei governi democraticamente legittimati. Tuttavia, vuole lanciare una riflessione economica ad ampio raggio partendo da dati oggettivi e incontestabili. Il processo accennato poc’anzi è inarrestabile per l’Europa? Non si può dare una risposta certa, ma, oggettivamente, il futuro sarà correlato ai fattori esogeni della popolazione: immigrazione ed emigrazione. Qualora si decidesse di prendere in considerazione soltanto i fattori endogeni del fenomeno – saldo naturale, tasso di riproduttività e longevità – e di costruire al contempo un’Europa “fortezza”, la prospettiva è la decrescita demografica. Secondo gli studi, nel 2050 la popolazione diminuirebbe del 10% circa da 738 a 665 milioni: non una catastrofe chiaramente, ma un dato preoccupante perché significherebbe una diminuzione del -22% per la popolazione in età attiva tra i 20 e i 70 anni e un +62% per quella oltre tale soglia con ovvie implicazioni economico-sociali[3]. Infatti, si consideri che i sistemi previdenziali europei, pur con le dovute differenze, si sostanziano con il cosiddetto patto generazionale: i lavoratori presenti versano i contributi per erogare le prestazione previdenziali ai pensionati e ai bisognosi di assistenza della previdenza sociale. Uno schema semplice sulla carta ma che nel lungo periodo potrebbe incrinarsi per la mancanza di forza lavoro attiva. Quindi, i deficit degli Stati europei potrebbero aumentare per poter sostenere il montante contributivo mancante mentre i giovani dovrebbero contare su altre previdenze, magari private e non pubbliche legate ai fondi pensione complementari basati sulla finanziarizzazione degli oneri sociali. Una dinamica rischiosa, e speculativa, laddove i possibili guadagni capitali sono spesso minacciati dalla speculazione del sistema finanziario. Si pensi allo stress a cui i debiti sovrani europei potranno essere sottoposti dai mercati internazionali che scommetteranno sulla loro capacità di sostenere il debito contratto.

D’altro canto, qualora considerassimo il fenomeno migratorio in virtù dei flussi medi degli ultimi decenni, il calo sarebbe almeno più attenuato: -4% in totale e -16% per la popolazione attiva, accompagnato però dal fortissimo aumento degli anziani +64%. Questi numeri valgono per l’insieme dell’Europa, ma con qualche disuguaglianza interna. La questione demografica europea dipende, dunque, dai ritmi poco prevedibili dell’immigrazione. Dal 2015 ad oggi, le domande di asilo sono aumentate in tutta Europa, specie nei paesi del nord determinando una serie di problemi sociali e politici. Vale la pena segnalare, sebbene non se ne discuta in questa sede, il fenomeno migratorio interno all’Europa dall’Est all’Ovest e dal Sud al Nord, pur con le dovute particolarità di preferenze da Stato a Stato. Per quanto riguarda l’Italia, la popolazione straniera ivi residente al 1° gennaio 2016 è stata pari a 5,026 milioni di persone, cioè l’8,3% della popolazione totale. Secondo gli ultimi dati ISTAT[4], al 1° gennaio 2017 si è registrato solo un incremento di 2.500 unità: si tratta della crescita più modesta degli ultimi anni. Il saldo migratorio con l’estero si mantiene comunque positivo. Tuttavia, nel 2016 è stato pari a +135mila, determinato da un maggior numero di ingressi, 293mila, e da un nuovo massimo delle uscite, 157 mila. In particolare, è la dinamica demografica dei cittadini italiani a essere negativa. La popolazione italiana scende a 55,6 milioni ossia 89 mila residenti in meno. Per il Belpaese risultano negativi sia il saldo naturale (-189 mila) sia quello migratorio con l’estero (-80mila). Nello specifico, è interessante notare come la distribuzione d’età dei migranti privilegi le classi giovani. Infine, si noti come l’aggregato migranti per area geografica veda al primo posto l’Europa centro-orientale con il 29,3%, seguita dall’Africa settentrionale al 20,5 e al terzo posto l’Asia centro-meridionale al 14,3%. Si noti, allora, come nella percezione pubblica il dato di migranti dall’Africa sub-sahariana sia sovrastimato per quanto comunque si attesti in costante crescita negli ultimi anni.

Ora, bisogna chiedersi in quale misura gli immigrati possano costituire una risorsa per il sistema Italia. Secondo un rapporto di Confindustria[5], senza immigrati, nel periodo pre-crisi, l’input di lavoro in Italia, formato da nativi, sarebbe rimasto sostanzialmente piatto tra 2004 e 2007 (+49mila unità), per poi diminuire di 1 milione 340mila unità tra 2008 e 2015 durante la crisi. Includendo l’apporto di forza lavoro straniera, invece, gli occupati sono aumentati di 532mila unità nel quadriennio pre-crisi[6]. Ciò significa assumere che l’afflusso di offerta di lavoro straniera non alteri il mercato del lavoro per la popolazione autoctona. A tal proposito, la letteratura economica distingue “effetti di scala” ed “effetti distributivi”. Per il primo, si pensi, in termini di competenze, all’ipotesi estrema in cui la composizione dei lavoratori stranieri sia identica a quella dei nativi, l’unico impatto dell’immigrazione sarebbe di espandere le dimensioni dell’economia. Nell’immediato, invece, potrebbero prevalere “effetti distributivi”, a svantaggio di quei lavoratori nativi con caratteristiche di competenze, sesso ed età più simili a quelle degli immigrati, e in tal caso i nativi potrebbero subire compressioni di salari e/o opportunità di lavoro) a favore dei lavoratori nativi con caratteristiche più diverse. Nel nostro caso, l’afflusso di manodopera straniera, in maggior numero poco qualificata, rischia di ridurre le opportunità occupazionali e/o i salari di cittadini italiani con bassi livelli di istruzione ed esperienza, ma d’altro canto può aumentare la domanda di lavoro per funzioni più qualificate e maggiormente rappresentate dai nativi. Ancora, non è da sottovalutare il contributo delle rimesse dei migranti verso il proprio paese d’origine. Tra il 1995 e il 2011 i trasferimenti di denaro degli immigrati dall’Italia verso i paesi di origine tramite canali ufficiali sono passati da 0,8 a 7,4 miliardi, per poi ridursi fino a 5,3 miliardi nel 2015. Il 92% di essi è diretto verso paesi emergenti. Alle rimesse qui riportate vanno poi aggiunte quelle inviate tramite canali informali. Quindi, ecco una misura con la quale poter sostenere la crescita economica dei PVS direttamente con il contributo dei propri emigrati.

In ultima analisi, occorre considerare che il maggior beneficio di essere meta di migranti è demografico. In effetti, i nuovi immigrati sono più giovani dei nativi e la loro presenza ha l’effetto di ampliare la popolazione attiva e quindi la base imponibile potenziale, finanziando quindi il welfare. Assunto che i tassi di natalità e fecondità degli italiani sono minori in comparazione a quelli degli stranieri, è indubbio che i flussi migratori possano determinare un persistente abbassamento dell’età media della popolazione; ciò implica un aumento nel lungo periodo della stessa con un impatto positivo sui conti pubblici. Infatti, l’Italia spende annualmente in spesa previdenziale e assistenziale 200,5 miliardi di € di cui solo 179,6 miliardi erogati tramite gestione INPS[7]. La restante parte, quindi, è coperta da trasferimenti statali. Non un male di certo, ma nel lungo periodo, con un calo demografico, la sostenibilità dei bilanci sarà sempre più difficoltosa. Ne discende che la politica dovrebbe saper guardare nel lungo periodo ed essere lungimirante poiché le politiche di sostegno alla natalità potrebbero anche essere efficaci nel medio periodo ma non tali da invertire la tendenziale crisi demografica italiana.

Fonti:

[1] Livi Bacci M., La Demografia prima di tutto, Limes, 2016.

[2] Citi Gps, Migration and the Economy: Economic Realities, Social Impacts & Political Choices, Oxford University, 2018.

[3] Batsaikhan U., Darvas Z., e Gonçalves Raposo I., People on the move: migration and mobility in the European Union, Bruegel, Bruxelles, 2018.

[4] ISTAT,Rapporto annuale, 2017. Disponibile qui:https://www.istat.it/it/archivio/199318

[5] Centro Studi Confindustria, Immigrati da emergenza a opportunità, giugno 2016.

Disponibile qui: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/segiugno2016_parte_speciale_immigrazione.pdf

[6] A cura della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche d’integrazione, Settimo Rapporto Annuale – Gli stranieri nel mercato del lavoro, 2017.

Disponibile qui:http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/immigrazione/Documents/Settimo_RapportoAnnuale_GlistranierinelmercatodellavoroinItalia_DEF.pdf

[7] INPS, Comunicato Stampa su Osservatorio Pensioni 2017, 2018.

Disponibile qui: https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=51755

Marco Di Domenico

Dottore in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Appassionato di politica ed economia internazionale.

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