L’incidenza del comportamento dell’offeso sul nesso causale
A cura della Dott.ssa Rosy Salsano
Il nesso causale costituisce uno degli argomenti più insidiosi quanto fondamentali del nostro ordinamento.
Nel diritto penale il rapporto di causalità costituisce la spina dorsale del reato in quanto è l’elemento costitutivo della fattispecie oggettiva che esprime il legame tra la condotta posta in essere dal soggetto agente e l’evento che ne deriva, ponendoli, dunque, in connessione tra loro.
La causalità, pertanto, è strettamente legata ai principi di materialità (art. 25 comma 2 Cost.) e di personalità (art. 27 Cost.), costituendo il primo presupposto per la riferibilità del fatto al soggetto agente[1].
La disciplina generale, volta a definire la causalità penalmente rilevante, è contenuta agli artt. 40 e 41 del codice penale.
L’art. 40 al primo comma sancisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipenda la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”. Il secondo comma prevede la cd. clausola di equivalenza che specifica che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato diverse teorie al fine di fornire una ricostruzione sistematica del nesso di causalità. Si può affermare che la tesi più seguita in giurisprudenza è la teoria della “condicio sine qua non” (detta anche teoria condizionalistica o della equivalenza delle condizioni) in forza della quale è da intendersi come causa ogni singola condizione dell’evento senza la quale lo stesso non si sarebbe verificato.
L’altra faccia della stessa medaglia è rappresentata dall’art. 41 c.p. rubricato “concorso di cause” il quale, al primo comma, prevede che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento”. Dunque, la norma riprende e conferma il concetto già esposto dal primo comma dell’art. 40 c.p., chiarendo che il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute non esclude il rapporto di causalità fra l’azione e l’evento, anche nel caso in cui esse sono indipendenti dall’azione od omissione del reato. Analogamente al I comma anche il III comma dell’art. 41 assolve ad una funzione chiarificatrice, prevedendo che allorquando le cause preesistenti, simultanee o concorrenti dipendano da un fatto illecito altrui, si applicano le regole generali in tema di causalità. È pacifico che questi due commi confermino la vigenza, nel nostro ordinamento, del principio dell’equivalenza delle condizioni.
A molte discussioni ha dato luogo, invece, l’interpretazione dell’art. 41 comma due e, segnatamente, l’equivoca formula che si riferisce alla “cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento”. In particolar modo, ha suscitato perplessità interpretative nella parte in cui riconosce alle concause sopravvenute idoneità interruttiva del nesso causale, solo allorché le stesse siano state da sole sufficienti a determinare l’evento.
Orbene, secondo i fautori della teoria condizionalistica, tale comma costituisce solo una ulteriore conferma del principio dell’equivalenza causale in quanto le cause sopravvenute, che escludono il nesso causale, integrano la c.d. “serie causale autonoma” vale a dire una circostanza del tutto avulsa dalla condotta posta in essere dal soggetto agente che si innesta sulla serie causale ed è idonea a cagionare l’evento.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, ha ritenuto che se il secondo comma venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo, si tratterrebbe, verosimilmente, di una disposizione inutile poiché, in questi casi, si perverrebbe all’esclusione anche con l’applicazione del principio condizionalistico ed, inoltre, non spiegherebbe perché il secondo comma fa riferimento solo alle cause sopravvenute e non già a quelle preesistenti e simultanee[2]. Deve trattarsi, pertanto, secondo questo orientamento, di una situazione non completamente avulsa dall’antecedente ma caratterizzata da un percorso causale completamente atipico, di carattere anomalo ed eccezionale.
Significativa è la sentenza della Cassazione n. 13939 del 2008, la quale aderendo a quest’ultimo orientamento, ha rimarcato che “le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità non sono solo quelle che innescano un percorso causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dall’agente, bensì anche quelle che, pur inserite in un percorso causale ricollegato alla condotta (attiva od omissiva) dell’agente, presentino caratteri di assoluta anomalia, eccezionalità ed imprevedibilità”[3].
Utile alla comprensione di quest’ultimo assunto e dell’incidenza del comportamento della persona offesa atta ad interrompere il nesso causale, è una pronuncia del 2014 della Corte di Cassazione sul tema[4]. È opportuno, innanzitutto, considerare la struttura dell’accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi impropri. In quest’ultimi, infatti, le valutazioni relative al nesso eziologico mirano a stabilire se il compimento dell’azione omessa dal soggetto che riveste una posizione di garanzia, avrebbe impedito o meno la verificazione dell’evento. Dunque, nell’ambito dei reati omissivi impropri, nel giudizio controfattuale anziché eliminare mentalmente l’azione omessa per valutare se l’evento si sarebbe comunque verificato, è necessario, invece, aggiungere idealmente l’azione omessa attraverso un giudizio ipotetico o prognostico. Nel caso di specie la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito ad una triste vicenda: Tizio (vittima), transitando alla guida di una motoslitta a velocità elevata, adottando una condotta imprudente perché a conoscenza di alcune profonde depressioni del terreno (dette inghiottitoi) trovandosi di fronte ad un fossato, nell’inutile tentativo di saltarlo, finiva per ribaltarsi rovinosamente con la motoslitta, riportando un trauma che ne cagionava, in poco tempo, la morte. L’evento veniva ascritto all’imputato poiché, in quanto legale rappresentante della società proprietaria di quel terreno, aveva disatteso l’obbligo di garanzia consistente nell’adottare misure di sicurezza – predisponendo idonea recinzione ai margini delle depressioni o idonea segnalazione delle stesse – rispetto a chiunque accedesse all’area predetta. Ebbene, il Giudice dell’Udienza Preliminare aveva ritenuto che la condotta omissiva di Caio costituiva presupposto della sua responsabilità colposa della morte di Tizio, tuttavia, quest’ultimo veniva considerato corresponsabile per la sua condotta evidentemente imprudente, essendo emerso, nel corso delle indagini, che egli conosceva benissimo il terreno e che, nella stessa giornata, si era recato sul luogo con l’intento di saltare quella depressione con la motoslitta.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Caio ritenendo che considerando solo il dato fattuale del salto compiuto da Tizio con la motoslitta, l’omissione di misure di sicurezza, sarebbe causa condizionante dell’evento. Rileva, però, nel caso di specie la circostanza che Tizio, conoscendo bene la zona e le depressioni che insistevano su quel terreno, aveva deliberatamente accettato il rischio con l’intento di misurarsi con le stesse al fine di praticare sport. I giudici hanno ritenuto che di fronte alla volontà di sfida del pericolo (i menzionati inghiottitoi) mostrata dalla vittima, la presenza di una eventuale recinzione non avrebbe comunque potuto evitare l’evento, per cui il nesso causale deve considerarsi interrotto nel momento in cui si inserisca una condotta altamente imprudente ed orientata al rischio. Ad avviso della Corte, dunque, la pericolosità del luogo può apprezzarsi, come fattore causale giuridicamente rilevante, solo nei confronti di chi non ne abbia conoscenza o di chi, pur avendola ben presente, si trovi nelle condizioni di doverlo affrontare.
È interessante considerare anche la materia degli infortuni sul lavoro ove si è posto il problema dell’eventuale efficacia interruttiva del nesso causale esistente tra la condotta del datore di lavoro violativa delle norme antinfortunistiche e l’infortunio subito dal lavoratore, con comportamento imprudente di quest’ultimo. La giurisprudenza ritiene che la ratio della normativa antinfortunistica risieda nell’incolumità fisica dei lavoratori, avuto riguardo anche agli incidenti dovuti a negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi ed è unanime, inoltre, nel sostenere che il comportamento imprudente del lavoratore mentre svolge la propria mansione non valga ad interrompere il rapporto di causalità. L’interruzione del nesso causale interviene solo laddove il comportamento imprudente del lavoratore sia anomalo e imprevedibile perché assolutamente estraneo al processo di produzione o alle mansioni attribuite allo stesso. La Cassazione del 2006, ha affermato che “il mancato impiego delle cautele necessarie per impedire l’evento mantiene la sua efficacia causale pur in presenza di una condotta concorrente imprudente della vittima”. Nel caso di specie, la Suprema Corte, ha confermato quanto deciso dai giudici di merito, i quali avevano ritenuto sussistente la responsabilità, per il reato di omicidio colposo, del sindaco, dell’assessore ai lavori pubblici e del direttore dei lavori a seguito dell’incidente avvenuto nell’area del cantiere al lavoratore precipitato sulla scogliera a causa dell’instabilità della ringhiera collocata a protezione dello strapiombo. La Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso secondo cui l’evento sarebbe conseguenza esclusiva del comportamento altamente imprudente ed imprevedibile della vittima, che avrebbe dovuto avvertire il pericolo e non appoggiarsi alla suddetta ringhiera.
Ebbene, i Supremi giudici hanno ritenuto che “l’eventuale concorso di colpa del danneggiato non esclude la responsabilità di chi ha omesso di adottare le misure di sicurezza”[5].
Dunque, il mancato impiego delle cautele necessarie per impedire l’evento mantiene la sua efficacia causale pur in presenza di una condotta concorrente imprudente della vittima, in quanto, nel caso esaminato, l’adozione delle misure di sicurezza avrebbe impedito la possibilità al lavoratore di appoggiarsi alla ringhiera instabile.
La responsabilità del datore di lavoro incontra un limite nel caso di un comportamento “abnorme” o “esorbitante” del lavoratore, quale fattore interruttivo del nesso causale tra omissione ed evento. Per comportamento abnorme del lavoratore si intende una condotta imprudente posta in essere autonomamente ed in un ambito estraneo alle mansioni affidategli o in una condotta posta in essere nell’ambito delle mansioni che gli sono proprie ma consistita in qualcosa di radicalmente imprevedibile nella esecuzione del lavoro. Esemplificativa è una pronuncia della Cassazione del 2018 sul tema. Nel caso di specie la Corte[6] è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’esplosione, durante il taglio con un flessibile, di un coperchio di un fusto metallico contenete gasolio, ceduto ad un dipendente di altra ditta operante in loco, per uso personale, dal lavoratore dell’impresa. Ebbene la Suprema Corte ha ritenuto il comportamento dei lavoratori non rientrante nelle loro mansioni, configurandosi come anormale, atipico ed eccezionale e tale, quindi, da scagionare da qualsiasi responsabilità il datore di lavoro che, per tale motivo, era stato assolto sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello. Secondo la Suprema Corte le sentenze di merito, avevano esclusa l’esistenza di un nesso causale tra la condotta dell’imputato, datore di lavoro, accusato di avere utilizzato dei fusti per il gasolio privi di dell’indicazione della natura e pericolosità del contenuto e la condotta del tutto imprevedibile, prima del proprio dipendente, che aveva ceduto gratuitamente il fusto vuoto al dipendente di altra ditta e poi del lavoratore di quest’altra ditta che, per fare un uso personale del fusto, aveva deciso di tagliarlo con un flessibile munito di disco abrasivo. Correttamente quindi la sentenza impugnata, secondo la Sez. IV, aveva ritenuto interrotto il nesso causale tra la condotta colposa del datore di lavoro e l’evento dannoso a causa dell’imprevedibilità ed abnormità della condotta del lavoratore completamente esorbitante dalle sue attribuzioni e dall’uso degli strumenti di lavoro in relazione alle mansioni affidategli. Specificava, altresì la Corte, che in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, non rilevando che il fatto si sia verificato sul luogo in cui i predetti prestavano attività lavorativa, poiché deve escludersi ogni relazione tra i comportamenti in questione e il lavoro cui gli stessi erano addetti e la posizione di garanzia del datore di lavoro. Pertanto, la Suprema Corte, rigettava il ricorso proposto dal lavoratore.
[1] M.SANTISE – F. ZUNICA, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Giappichelli, 2018, p. 221.
[2] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale parte generale, Zanichelli, VII edizione, p. 250.
[3] Cass. Pen., Sez. IV, 30 gennaio 2008, sent. n. 13939.
[4] Cass. Pen., Sez. IV, 04 settembre 2014, sent. n. 36920.
[5] Cass. Pen., Sez. IV, 21 aprile 2006, sent. n. 14180.
[6] Cass. Pen., Sez. IV, 18 maggio 2018, sent. n. 22034.