sabato, Aprile 20, 2024
Criminal & Compliance

L’inizio dell’attività punibile nel tentativo: contrasti interpretativi e spunti comparatistici

  1. Brevi cenni sul tentativo

L’istituto del tentativo è regolato dall’art. 56 c.p., ai sensi del quale “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.

Il delitto tentato rappresenta una fattispecie autonoma di reato, che si innesta sulla fattispecie di parte speciale mai giunta a consumazione, creando una nuova fattispecie di reato solo tentata.

La ratio dell’istituto è da ricercarsi anzitutto in una funzione incriminatrice dello stesso, in quanto la norma testé citata rende punibili condotte che altrimenti non lo sarebbero, atteso che il reato non si è perfezionato; dall’altro lato, l’art. 56 c.p. ha lo scopo di anticipare la tutela penale nei confronti di condotte che, pur non raggiungendo la soglia della consumazione del reato, manifestano in ogni caso una certa capacità criminale del reo e pongono in pericolo i beni giuridici tutelati dalla fattispecie incriminatrice violata.

Tuttavia, il mancato compimento dell’azione, ovvero la mancata verificazione dell’evento, ambedue riferibili a circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, determinano una sensibile riduzione di pena nei confronti del reo: l’art. 56, comma secondo, c.p., dispone infatti che la pena prevista per la fattispecie consumata è diminuita da un terzo a due terzi (eccezion fatta per i delitti puniti con la pena perpetua, per i quali si applica la reclusione non inferiore ai 12 anni).

Due sono gli elementi oggettivi necessari a integrare il tentativo di un delitto: l’idoneità degli atti e la direzione non equivoca dei medesimi.

Quanto al primo requisito, si considerano idonei gli atti che abbiano creato la “probabilità della consumazione del reato, e quindi la messa in pericolo del bene tutelato dalla norma incriminatrice del corrispondente reato consumato[1]”. Idoneità degli atti, dunque, significa implicitamente pericolosità degli atti stessi. Il giudizio di idoneità degli atti va effettuato ponendosi in una prospettiva ex ante, cioè retroagendo al momento della condotta, ed in concreto: è necessario, dunque, accertare che gli atti abbiano in concreto messo in pericolo il bene giuridico protetto dal reato.

Il secondo requisito concerne la non equivocità degli atti stessi: in sé, significa che gli atti “devono far comprendere di essere indirizzati al compimento di una, e una sola, specifica ed individuabile, fattispecie incriminatrice[2]”.  

É proprio su tale ultimo requisito che si innesta il problema dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo, come si osserverà in seguito.

  1. L’univocità degli atti ed il problema dell’inizio dell’attività punibile

Gli atti necessari ad integrare la fattispecie tentata di delitto, oltre ad essere idonei, devono essere anche inequivoci, e cioè diretti all’integrazione di una ben individuata fattispecie incriminatrice.

Tale assunto pone non poche problematiche con riferimento alla normale esecuzione dei delitti.

Sono infatti infinite le casistiche in cui l’attività del reo, indirizzata al compimento di un reato, si arresti ad uno stadio anteriore, inidoneo a rivelarne le caratteristiche criminose: un uomo che si avvicini di notte al cancello di una casa, munito di passamontagna, potrebbe in seguito integrare i delitti di danneggiamento, violazione di domicilio, ovvero di furto in abitazione, oppure di rapina; si tratta di una situazione concreta in cui appare complesso comprendere se e che tipo di delitto stia per compiere il reo, vulnerando in tal senso il principio di inequivocità degli atti.

Si può dire, in sintesi, che in astratto l’atto potrebbe non essere mai univoco; il che sposta l’asse della problematica, rendendo necessario capire quali comportamenti e quali circostanze concrete del fatto siano in grado di rendere l’atto inequivoco.

Si ritiene ordunque fondamentale, in dottrina ed in giurisprudenza, individuare correttamente il momento a partire dal quale inizia l’attività punibile, in modo da dare una corretta linea di demarcazione tra fatti penalmente irrilevanti e tentativi di delitti, nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 56 c.p., ed in particolare di quello della direzione non equivoca degli atti.

  1. La teoria soggettiva e la teoria oggettiva

Con riferimento al concetto di univocità, si possono preliminarmente individuare due differenti interpretazioni dottrinali.

Secondo i fautori della teoria soggettiva, l’atto sarebbe univoco quando vi sia la prova dell’intenzione criminosa del colpevole; prova che può concretarsi in una confessione, ovvero in intercettazioni telefoniche o ancora per effetto della collaborazione di giustizia. La parola “soggettiva” ben si attaglia all’orientamento in discorso, poiché altro non richiede se non il disvelamento della volontà del reo, diretta a realizzare una specifica fattispecie incriminatrice.

Tale orientamento appare tuttavia contraddittorio, poiché sembra confondere la prova dell’elemento soggettivo del reato, oggetto di altra verifica da parte del giudice e da inserire nell’alveo della colpevolezza, con l’elemento materiale dell’art. 56 c.p., rappresentato, tra gli altri requisiti, dalla direzione non equivoca degli atti.

Secondo la differente teoria oggettiva, invero, l’atto è da considerarsi inequivoco ogni qualvolta lo stesso, oggettivamente considerato e di per sé, sia in grado di rivelare l’intenzione criminosa del colpevole; questa diversa impostazione ha l’indubbio merito di spostare il requisito in questione nella corretta sedes materiae, ossia l’elemento oggettivo del tentativo.

Va peraltro segnalato che, da un punto di vista dogmatico, parte della giurisprudenza adotta una diversa ricostruzione delle teorie poc’anzi descritte, facendo coincidere la teoria soggettiva con la teoria della rilevanza penale degli atti preparatori, e la teoria oggettiva con quella della rilevanza penale dei soli atti esecutivi[3]. Per linearità di esposizione, il presente scritto si ispira invece alla distinzione delle teorie in esame citata all’inizio del paragrafo ed operata da alcuni autori[4], nonché dal progetto di riforma del Codice Penale mosso dalla Commissione Pisapia, nel quale veniva rigettata la teoria soggettiva “(…)concezione oggettiva del tentativo legata alla qualità e al “valore” degli atti posti in essere (e non alla volontà criminosa dell’agente, come postulato dalle teorie soggettive)[5]”.

Ciò chiarito, e considerando gli atti inequivoci esclusivamente da un punto di vista materiale, la dottrina e la giurisprudenza divergono nella considerazione di quali atti, tra quelli oggettivamente considerati, siano inequivoci; di qui, la rilevanza del problema relativo all’inizio dell’attività punibile, che vede il contrapporsi nel nostro ordinamento di due grandi filoni interpretativi, tra loro confliggenti circa la considerazione, o meno, della rilevanza penale degli atti preparatori.

  1. La tesi che equipara gli atti univoci ai soli atti esecutivi

Secondo un primo orientamento tradizionale, l’atto inequivoco sarebbe soltanto l’atto esecutivo: il delitto tentato, dunque, non potrebbe mai essere integrato da un atto preparatorio.

Per atto esecutivo si intende l’atto che innesca il processo causale non più dominabile dall’agente; in altre parole, nel novero degli atti esecutivi rientrano gli “atti tipici, che corrispondono cioè almeno ad una parte dello specifico modello di comportamento descritto dalla norma incriminatrice[6]”.

Tale prima opzione ermeneutica si giustifica sulla base di due argomentazioni.

In primo luogo, si afferma che far coincidere l’inizio dell’attività punibile con il primo atto esecutivo del delitto risolverebbe il problema dell’inequivocità: soltanto l’atto esecutivo, infatti, sarebbe in grado di rivelare l’intenzione del reo da un punto di vista oggettivo. L’inizio dell’esecuzione del reato farebbe uscire dall’equivoco la condotta dell’agente, che integrerebbe tutti i crismi dell’art. 56 c.p. qualora il reato, per cause indipendenti dalla sua volontà, non giungesse a consumazione.

Tuttavia, il vero cavallo di battaglia della tesi in parola è rappresentato da una motivazione di ordine sistematico, riconducibile all’art. 115 c.p., ai sensi del quale l’accordo o l’istigazione a commettere un delitto, che poi non venga effettivamente commesso, è privo di qualsivoglia rilevanza penale (eccezion fatta per la possibilità di essere sottoposti ad una misura di sicurezza nel caso venga dimostrata la pericolosità sociale degli autori: ipotesi del cd. “quasi reato”).

Ma se così è, l’art. 115 c.p. sembrerebbe affermare la normale irrilevanza degli atti preparatori, atteso che gli accordi e gli atti di istigazione costituiscono pacificamente non già atti esecutivi, bensì meri atti preparatori di una qualsivoglia fattispecie di reato.

In giurisprudenza queste coordinate interpretative sono state fatte proprie da una risalente sentenza della Corte Costituzionale, la quale ha affermato che gli “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente[7]”. Il Giudice delle Leggi, ordunque, propende per l’anzidetta soluzione, ricollegando la non equivocità degli atti ai soli atti esecutivi e giustificando tale assunto proprio per l’effetto dell’art. 115 c.p., che avrebbe la rilevante funzione di distinguere tra atti preparatori e tentativo punibile.

Anche la Suprema Corte di Cassazione ha in plurime occasioni dimostrato di aderire a tale orientamento. Nella sentenza Musso si afferma testualmente che ai fini dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo “è, comunque, necessario il passaggio della condotta dalla fase preparatoria a quella esecutiva: gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono, infatti, essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte – come inizio di esecuzione – alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa[8]”. Il principio è stato accolto anche dalle Sezioni Unite, in tema di vendita di semi conformi a modelli botanici dai quali erano ricavabili stupefacenti: “Non è, tuttavia, ineludibile nel settore della inibita propaganda la mera offerta in vendita di semi dalla cui pianta sono ricavabili sostanze stupefacenti; l’attività che ha tale oggetto, di per sè, non è vietata configurandosi come atto preparatorio non punibile perchè non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato per la considerazione che non è dato dedurre la effettiva destinazione dei semi[9]”.

Questa prima tesi, che come si è visto è stata autorevolmente sostenuta anche ai più alti vertici giurisdizionali, ha l’indubbio merito di conformare la disciplina dell’inizio dell’attività punibile al dettato normativo, nel rispetto del requisito della direzione non equivoca degli atti; non meno importante, questo orientamento valorizza il principio di offensività, atteso che dare rilevanza penale agli atti preparatori potrebbe anticipare indebitamente la tutela penale a fatti ancora “lontani” dall’esecuzione criminosa e, di per sé, inoffensivi del bene giuridico protetto dalla norma penale.

  1. La tesi della rilevanza penale degli atti preparatori

Va tuttavia segnalato che l’orientamento prevalente in giurisprudenza, soprattutto negli ultimi anni, sposa la tesi opposta, dando rilevanza, ai fini del tentativo punibile, anche agli atti preparatori.

L’atto preparatorio è tutto ciò che non ha i crismi dell’atto esecutivo; gli atti in questione, dunque, sono rappresentati da tutte quelle condotte che sono strumentali al reato, ma che tuttavia sono antecedenti allo stesso, non essendo ancora il reato giunto ad esecuzione (si può pensare all’acquisto di una rivoltella funzionale al compimento di una rapina, ad appostamenti notturni diretti alla commissione di un omicidio, alle trattative destinate a sfociare in un accordo corruttivo e via discorrendo).

Va immediatamente sgombrato il campo da un dubbio: non tutti gli atti preparatori, secondo l’orientamento dianzi citato, integrano il delitto tentato. Vengono certamente esclusi gli atti di ideazione (nel rispetto del brocardo cogitationis poenam nemo patitur), nonché tutti gli atti preparatori che appaiano estremamente lontani dal requisito dell’univocità; in altre parole, come si vedrà nel proseguo, soltanto gli atti preparatori che precedano “di poco” l’esecuzione del delitto assumono rilevanza penale.

La giurisprudenza della Suprema Corte, in numerose pronunce, ha infatti affermato che “deve quindi essere ribadito il principio secondo cui per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come “preparatori“, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo; che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo[10]”. In particolare, le sentenze citate hanno ritenuto punibili, a titolo di tentata rapina, attività prodromiche alla stessa, quali l’effettuazione di appostamenti, l’approvvigionamento di armi e la programmazione del piano criminoso in ogni minimo dettaglio.

Tuttavia, il principio elaborato dalla giurisprudenza prevalente non dà rilevanza a tutti gli atti preparatori, ma soltanto a quelli che siano arrivati ad una progressione tale che siano, da un lato, in grado di rivelare l’intenzione criminosa del reo e, dall’altro lato, che portino alla probabile consumazione del delitto, salvo il verificarsi di circostanze concrete imprevedibili (quale, ad esempio, l’intervento improvviso della Polizia). Si può affermare, dunque, che gli atti preparatori punibili siano soltanto quelli che si trovino in uno stadio avanzato, ossia immanente all’esecuzione del delitto.

La correttezza delle coordinate ermeneutiche sopraesposte è da ricercarsi in plurime ragioni.

In primo luogo, un’interpretazione di tipo sistematico e storico imporrebbe di ritenere gli atti preparatori punibili ai sensi dell’art. 56 c.p. Invero, la formulazione del tentativo nel vecchio Codice Zanardelli, all’art. 61, puniva “colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione”, prevedendo espressamente la sola rilevanza penale degli atti  esecutivi; l’attuale art. 56 c.p. non riporta più la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, ricomprendendo, anche nelle intenzioni dei compilatori del Codice, tutti gli atti idonei a commettere un delitto, purchè non equivoci.

Anche un’interpretazione letterale dell’art. 56 c.p. suggerisce tale lettura, in tema di desistenza volontaria e di recesso attivo. Infatti, nelle ipotesi dianzi riportate, si confermerebbe la rilevanza penale di entrambi i livelli del tentativo punibile (preparatorio ed esecutivo), prevedendo peraltro diverse conseguenze penali nei confronti del reo (la desistenza volontaria dall’azione configura una causa di non punibilità in senso stretto; il volontario impedimento dell’evento, invece, prevede una risposta sanzionatoria attenuata rispetto alla pena prevista per il delitto tentato).

Da ultimo, l’avvertita necessità di anticipare la tutela penale nei confronti di condotte pericolose che, comunque, mostrano una certa capacità criminale, sembrerebbe suggerire la correttezza, anche da un punto di vista generalpreventivo, della lettura interpretativa in questione.

L’inizio dell’attività punibile nel delitto tentato, in conclusione, per la giurisprudenza oggi prevalente può coincidere anche con gli atti preparatori.

  1. Alcuni spunti comparatistici: l’inizio dell’attività punibile nella criminal law americana

Dopo aver osservato le posizioni della dottrina e della giurisprudenza italiana in merito alla questione giuridica oggetto del presente elaborato, appare interessante verificare come venga affrontato e risolto il problema negli altri ordinamenti giuridici, soffermandosi in particolare sull’esperienza degli Stati Uniti d’America.

Il problema dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo è avvertito anche dalla dottrina americana, concorde nel ritenere che la difficoltà punitiva nei delitti tentati è da ricondursi all’accertamento del “level of progress necessary to impute criminal responsibility (…) the crux of any attempt case is how close to completing the offense the defendant must get to fulfill the attempt criminal act requirement[11]”.

Per risolvere la problematica in esame che, come nell’esperienza italiana, si lega a doppio filo con la dicotomia tra atti preparatori ed atti esecutivi, la dottrina e la giurisprudenza statunitense utilizzano una serie di “test”, variabili tra le diverse giurisdizioni a cagione delle peculiarità del modello federale americano.

Si espongono in seguito i tre test più noti ed utilizzati allo scopo di definire in quali casi la condotta dell’agente integri un delitto tentato o meno.

Il primo viene definito res ipsa loquitur test, utilizzando un brocardo latino che sta a significare che il fatto parla da sé, sottolineandone la sua evidenza e chiarezza. Si afferma perciò che gli atti integrano un tentativo punibile quando, osservando gli stessi, appare chiaro che l’imputato non avesse altro scopo se non quello di cagionare l’evento delittuoso. Questa prima soluzione sembrerebbe in qualche misura evocare la teoria soggettiva italiana, evidenziando in particolar modo la necessità di ricavare l’intenzione del reo, ricollegabile ad atti inequivoci che ne manifestino l’elemento soggettivo in tutta la sua chiarezza.

Il secondo è denominato probable desistance test, ed è la soluzione che più si avvicina all’orientamento prevalente nella giurisprudenza italiana. Il tentativo, invero, sarebbe integrato ogniqualvolta l’agente, nell’incedere della progressione criminosa, si troverebbe ad un punto di non ritorno, tale per cui appare probabile che il reato venga commesso, eccezion fatta per il manifestarsi di circostanze esterne che ne impediscano il suo verificarsi. “A defendant commits attempt when he or she has crossed a line beyond wich is probable he or she will not desist unless there is an interruption from some outside source[12]”. La soluzione proposta dal probable desistance test presenta fortissime somiglianze con la soluzione italiana, concentrandosi sullo stato di avanzamento della progressione criminosa del reo, che sarà punibile soltanto nel momento in cui l’agente si trovi ad un punto di non ritorno; attraverso questo secondo test, la dottrina penale americana inequivocabilmente concede rilevanza penale agli atti preparatori, seppur in uno stadio avanzato.

Il terzo test deriva dal Model Penal Code e viene definito substantial steps test. Il Model Penal Code, ideato dall’American Law Institute e promulgato nel 1962, rappresenta un tentativo di codificazione penale negli Stati Uniti, in cui ogni Stato ha il suo codice penale e dove resiste la tradizione di common law, con l’obiettivo non celato di dare uniformità al diritto penale dei singoli Stati.

Quest’ultimo test si compone di due elementi: il primo è un elemento oggettivo e necessita, ai fini della sua integrazione, che la condotta sia arrivata ad un punto tale (substantial steps) da poter culminare nella commissione del crimine (che purtuttavia non si realizza). Il secondo elemento è invece soggettivo: le azioni del reo devono essere in grado di provare lo scopo e l’intenzione dell’agente.

Peraltro, il Model Penal Code fornisce alcuni esempi concreti di cosa si intenda per substantial steps, in grado anche di rivelare lo scopo criminoso del reo: tra gli altri, l’essere illegalmente penetrato in un edificio nel quale si intenda commettere il reato, ovvero il possesso di beni designati per usi illeciti, o ancora lo spronare la vittima a recarsi sulla scena del crimine. Anche questa soluzione non sembra poi così lontana dal dibattito italiano, essendo tesa a verificare da un lato la progressione criminosa della condotta del reo e, dall’altro lato, la rilevanza soggettiva dell’atto in sè, che deve essere in grado di disvelare l’intenzione del colpevole.

Si nota dunque come anche nel diritto penale degli Stati Uniti, qualunque sia il test scelto, la chiave di volta sia rappresentata dall’esigenza di anticipare la tutela penale, spostando l’inizio dell’attività punibile ad un momento anteriore agli atti esecutivi veri e propri.

Anche nelle Corti americane, in conclusione, parrebbe che venga data rilevanza penale agli atti preparatori del delitto, con i correttivi poc’anzi citati, tutt’affatto dissimili da quelli pensati dalla Corte di Cassazione.

  1. Conclusioni: una questione ancora aperta

Non è affatto agevole, come visto, individuare un’esatta linea di demarcazione tra tentativo punibile e tentativo non punibile. Le due soluzioni proposte dagli studiosi italiani presentano marcate differenze: l’una, certamente più improntata al favor rei, individua il delitto tentato nel novero dei soli atti esecutivi, nel rispetto del requisito della direzione non equivoca degli atti; l’altra, invero, fa retroagire il tentativo anche agli atti preparatori, in un’ottica di anticipazione della tutela penale.

Entrambe le tesi sono state autorevolmente sostenute. Certamente, la tesi prevalente si colloca anche in un’ottica di facilitazione della predisposizione delle forze di Polizia, permettendo alle stesse di intervenire in via anticipata rispetto all’esecuzione del delitto, evitando in tal modo che i beni giuridici tutelati dalle norme penali corrano rischi ingiustificati.

Sarebbe dunque auspicabile un intervento del legislatore, in modo da fornire una linea di confine più precisa a questa problematica, assai rilevante nella prassi. In questa direzione si era mossa la proposta riformatrice dell’art. 56 c.p., avanzata dalla Commissione Pisapia, che avrebbe ricostruito in termini forse più chiari la disciplina: “Tali considerazioni hanno determinato la commissione Pisapia a formulare un criterio direttivo di delega per cui è punita, con la pena ridotta da un terzo a due terzi, la condotta di chi, intenzionalmente e mediante atti idonei, intraprenda l’esecuzione di un reato, o si accinga ad intraprenderla con atti che immediatamente la precedono, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica[13]”.

[1] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, settima edizione – 2018

[2] C.F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, edizione 2020.

[3] Tra le altre, Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 24302, 16 Maggio 2017

[4] In particolare, la distinzione suddetta è operata da C.F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, edizione 2020

[5] Commissione Pisapia per la riforma del Codice Penale, Relazione, 19 Novembre 2007, disponibile qui: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_10&facetNode_5=0_10_17&facetNode_4=4_57&facetNode_3=3_1_3&facetNode_2=3_1&facetNode_6=3_1_3_1&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47445

[6] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, settima edizione – 2018

[7] Corte Cost., sentenza n. 177, 22 Dicembre 1980

[8] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 9411, 9 Marzo 2010

[9] Cass. Pen. Sez. Un., sentenza n. 47604, 7 Dicembre 2012

[10] Ex plurimis, Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 47295, 17 Ottobre 2018; Cass. Pen.Sez. II, sentenza n. 24302, 4 Maggio 2017

[11] L. M. Storm, Introduction to Criminal Law, 2012

[12] L. M. Storm, Introduction to Criminal Law, 2012

[13] Disegno di legge dei Senatori Casson, Chiti, Carofiglio, Chiurazzi, D’Ambrosio, Della Monica, Galperti, Latorre, Maritati e De Sena, Delega al Governo per la riforma della parte generale del codice penale, 24 Settembre 2008, disponibile qui: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/AS-1/AS-1043.pdf

Dario Quaranta

https://avvocatodarioquaranta.it/ Avvocato penalista, nato nel 1993. Ha conseguito il Master universitario di secondo livello in Diritto Penale dell'Impresa, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, con la votazione di 30/30 e lode, ottenendo altresì il premio indetto dall'Associazione AODV231 destinato ad uno studente del Master distintosi per merito, ex aequo con altro partecipante. E' membro dell'Osservatorio Giovani e Open Day dell'Unione delle Camere Penali Italiane ed è responsabile della Commissione Giovani della Camera Penale di Novara. Frequenta dal 2021 il Corso biennale di tecnica e deontologia dell’avvocato penalista, attivato dalla Camera Penale di Torino. Si laurea in Giurisprudenza all'Università del Piemonte Orientale con la votazione di 110/110, discutendo una tesi in diritto penale intitolata: "La tormentata vicenda del dolo eventuale: il caso Thyssenkrupp ed altri casi pratici applicativi". Durante gli studi universitari ha effettuato un tirocinio di 6 mesi presso la Procura della Repubblica di Novara, partecipando attivamente alle investigazioni ed alle udienze penali a fianco del Pubblico Ministero. Da Maggio 2018 è Praticante Avvocato presso lo Studio Legale Inghilleri e si occupa esclusivamente di diritto penale. Da Dicembre 2018 è abilitato al patrocinio sostitutivo. Ad Ottobre del 2020 consegue l'abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato presso la Corte d'Appello di Torino, riportando voti elevati nelle prove scritte (40-35-35) ed agli orali. Nel corso della sua attività professionale ha affrontato molte pratiche di rilievo, inerenti in particolar modo i delitti contro la Pubblica Amministrazione,  i delitti contro la persona, contro la famiglia e contro il patrimonio, nonchè in tema di reati tributari, reati colposi, reati fallimentari e delitti relativi al DPR n.309/1990. Si è occupato inoltre di importanti procedimenti penali per calunnia e diffamazione. Ha sostenuto numerose e rilevanti udienze penali in completa autonomia. E' collaboratore dell'area di Diritto Penale di Ius In Itinere e di All-In Giuridica, ed ha pubblicato un contributo sulla rivista Giurisprudenza Penale . E'altresì autore della sua personale rubrica di approfondimento scientifico, denominata "Articolo 40", disponibile sul sito della Camera Penale di Novara. Vanta 46 pubblicazioni sulle menzionate riviste e banche dati, tra contributi autorali e note a sentenza. Indirizzo mail: dario.quaranta40@gmail.com

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