venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

L’istituto della recidiva: la pronuncia delle SSUU con sentenza 15 maggio 2019, n. 20808

Interventi normativi e mutamento della natura giuridica

L’istituto della recidiva nel nostro ordinamento è stato oggetto di svariate modifiche normative che ne hanno nel tempo mutato la fisionomia e le caratteristiche originarie. Trattasi di un aggravio di pena attribuito a chi essendo già stato in precedenza condannato per un reato, ne commette altri.

In principio era diffusa la concezione della recidiva quale status giuridico, ricondotto ad una situazione personale del reo, tendente a valorizzare la figura del recidivo quale “tipo criminologico d’autore”[1]. La giurisprudenza, in ragione della suddetta qualificazione, ha ritenuto per svariato tempo che la recidiva fosse obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nella applicazione degli effetti giuridici ad essa connessi.

Soltanto in una fase successiva è prevalsa la tesi della recidiva quale circostanza aggravante pertinente al reato, il cui riconoscimento non può prescindere da una valutazione in concreto della relazione qualificata tra lo status e il fatto realizzato.

Il mutamento riguardante la natura giuridica dell’istituto muove dai diversi interventi normativi che si sono susseguiti nel tempo.

Il codice penale del 1889 prevedeva che “colui che, dopo una sentenza di condanna, e non oltre i dieci anni dal giorno in cui la pena fu scontata o la condanna estinta, commette un altro reato, non può essere punito col minimo della pena incorsa per il nuovo reato”. Pertanto sin dal codice Zanardelli veniva attribuita rilevanza, in termini di pena, alle precedenti condanne penali prescindendo dalla qualificazione di delitto o contravvenzione e, sotto il profilo subiettivo, di reato doloso o colposo.

Con l’entrata in vigore del codice Rocco viene conferita cittadinanza ad una forma di recidiva automatica ed obbligatoria che imponeva al giudice di merito di procedere all’applicazione dell’aggravio di pena salvi i casi eccezionali di cui all’articolo 100 c.p. Viene inoltre attribuita validità a qualsiasi precedente condanna indipendentemente dal fattore cronologico-temporale.

Con la legge n. 220 del 1974 il legislatore ha reso per la prima volta facoltativa l’applicazione della recidiva richiedendo all’autorità giudiziaria di valutare in concreto se sia necessario aumentare la pena inflitta per il reato commesso ovvero se bilanciare in maniera differente le circostanze del reato. Il trattamento sanzionatorio viene inoltre mitigato dalla previsione per la quale “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo reato”.

Da ultimo la legge ex Cirielli del 2005 che ha reintrodotto il carattere della perpetuità della precedente condanna, ha previsto la rilevanza delle sole pronunce per delitti non colposi, ha incrementato gli aumenti di pena per il recidivo, modificato il regime di bilanciamento, introdotto limitazioni per i recidivi all’accesso ai benefici penitenziari ed alle misure alternative alla detenzione. Elemento caratterizzante, tuttavia, è la reintroduzione di una ipotesi di recidiva obbligatoria prevista dall’articolo 99 comma 5 il cui testo, prima della pronuncia della Corte costituzionale del 2015[2] era il seguente: “Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto”. Ebbene la Corte costituzionale con l’intervento predetto ha dichiarato l’illegittimità del comma 5 limitatamente alle parole “è obbligatorio e” escludendo qualsiasi forma di recidiva obbligatoria nel nostro ordinamento alla luce del principio di ragionevolezza, data la valutazione anche di precedenti risalenti nel tempo e attinenti a fattispecie di reato tra loro eterogenee per struttura e disvalore.

Il quadro storico-normativo così delineato ha inciso sul regime applicativo dell’istituto in esame.

Le Sezioni Unite nel 2010[3] puntualizzano che è compito del giudice verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.

Pertanto alla luce di tale orientamento e del vigente reticolato normativo la recidiva è sempre facoltativa rispetto al suo riconoscimento (e dunque all’an) mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa. Il giudice di merito, pertanto, è munito di un potere discrezionale il quale è esercitato correttamente solo se accompagnato da un’adeguata parte motiva circa la scelta del riconoscimento e le sue ricadute in termini di aumento di pena e di relazione con concorrenti circostanze eterogenee.

La questione applicativa al vaglio delle Sezioni Unite

La Corte di Cassazione con sentenza a Sezioni Unite nel 2019 si è confrontata con la seguente questione di diritto «se la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato»[4].

Il quesito richiama al concetto di motivazione implicita quale “particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta consequenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda”.[5] Trattasi di una formula motivazionale che è pacificamente accolta in giurisprudenza poiché non osta alla comprensione del percorso logico-giuridico alla base di una data decisione adempiendo, di conseguenza, al dettato processuale che richiede “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto”.

Tale principio trova riconoscimento anche con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva purché venga ricostruito adeguatamente il quadro motivazionale richiesto per il riconoscimento della circostanza. In particolare è sufficiente che il giudice dia conto, in sentenza, della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’art. 99 c.p.

Le Sezioni Unite si sono soffermate, anzitutto, sulla adeguatezza di una motivazione implicita ricavata dalla connessione tra la valutazione dei precedenti penali ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti generiche ex articolo 62 bis ed il giudizio concernente la recidiva. Occorre rammentare che il riconoscimento o la ritenuta insussistenza delle circostanze attenuanti generiche presuppone un giudizio largamente discrezionale dell’organo giudicante che, pertanto, deve essere assistito da un adeguato impianto motivazionale.

Per consolidato indirizzo giurisprudenziale si ritiene che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il giudice sia tenuto a considerare i parametri di cui all’art. 133 c.p. potendo far riferimento anche ad uno o ad alcuni di quelli indicati dalla norma purché sufficienti a giustificare la decisione finale. Tra gli indici contenuti nella disposizione predetta rientrano, altresì, i precedenti penali la cui dimensione applicativa è più ampia rispetto a quella considerata in relazione all’istituto della recidiva. A tal proposito va ricordato che soltanto tra i precedenti penali valutati ai sensi del 133 c.p. rientrano le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva; le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all’ammissione all’oblazione di cui all’art. 162 bis c.p. ;le condanne per le quali si è prodotta l’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva ; l’art. 133 c.p., comma 2, n. 2, considera anche i precedenti giudiziari, irrilevanti, invece, ai fini del giudizio sulla recidiva.

La differente perimetrazione del concetto di precedente penale promana dalla necessità, ai fini della recidiva, di considerare come precedente soltanto quello funzionale ad attestare la consapevolezza del disvalore della condotta da parte del reo e, di conseguenza, della sua stessa pericolosità sociale.

Rispetto ai presupposti che integrano il concetto di “recidiva applicata” la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che “una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’art. 69 c.p. – un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato[6].

La recidiva si caratterizza, come le altre circostanze del reato, per essere fonte oltre che di un possibile aggravio della risposta sanzionatoria, anche di effetti secondari ed ulteriori che, come nel caso del giudizio di bilanciamento, si riverberano sul trattamento sanzionatorio finale.

Tale assunto risulta valevole anche in tema di prescrizione ove ai fini del computo del relativo termine in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.

Le Sezioni Unite, dunque, in risposta al quesito in precedenza riportato hanno affermato il seguente principio di diritto: “La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”.

 

 

 

[1] Bettiol, Diritto penale, Parte generale, 1982.

[2] Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 1015, n.185.

[3] Cass. Penale, Sezioni Unite, sentenza del 27 maggio 2010, n. 35738.

[4] Cass. Penale, Sezioni Unite, sentenza del 15 maggio 2019, n. 20808.

[5] Definizione fornita in sentenza al punto 5.1 delle motivazioni in diritto.

[6] Cass. Penale , sentenza del 10 luglio 2006, n.33634.

Francesco Di Gennaro

Francesco Di Gennaro nasce nel 1994 a Napoli. Ha conseguito il diploma di maturità scientifica presso il liceo "Immanuel Kant" di Melito di Napoli nel 2012. Laureato con lode nel Dicembre 2017 presso l'Università degli studi di Napoli "Federico II", discutendo una tesi in Istituzioni di diritto pubblico titolata "Il dialogo tra le Corti". Dall'Aprile del 2018 ha svolto il tirocinio formativo ai sensi dell'art.73 d.l. 69/2013 presso la Procura Generale della Corte d'appello di Napoli e dal Gennaio dello stesso anno è iscritto al registro dei praticanti avvocati dell'Ordine degli avvocati di Napoli Nord. Collaboratore dell'area di diritto penale.

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