giovedì, Marzo 28, 2024
Labourdì

L’obbligo di repêchage: risvolti pratici della disciplina

L’obbligo di repêchage: risvolti pratici della disciplina alla luce delle recenti pronunce Giurisprudenziali

a cura di Gabriele Longo, socio ELSA Siena

 La disciplina del demansionamento presenta delle notevoli implicazioni all’interno della normativa che il legislatore ha riservato al licenziamento, il riferimento è chiaramente al c.d. obbligo di repêchage, l’espressione francese che significa “ripescaggio” rende benissimo l’idea sottesa alla disciplina in questione.

Il datore di lavoro che voglia procedere ad un licenziamento per motivo oggettivo, da intendersi ovviamente come licenziamento individuale e non anche come licenziamento collettivo, è tenuto a verificare che in azienda non vi siano delle posizioni vacanti in cui collocare il lavoratore, anche se questo dovesse comportare l’attribuzione al lavoratore di una mansione inferiore.

Possiamo, sin da subito, alla luce di un principio di diritto siffatto, ritenere che il legislatore nel formulare questa forma di obbligo in capo al datore di lavoro, abbia certamente pensato al lavoro come diritto fondamentale, come attività umana che più di ogni altra, afferma la personalità interiore ed il progresso dell’ordinamento, di conseguenza un provvedimento quale il licenziamento deve essere assolutamente subordinato all’applicazione del principio dell’extrema ratio[1].

Ordunque, l’obbligo di repêchage si deve intendere per la disciplina del licenziamento per motivo oggettivo – per tale intendendosi il licenziamento dettato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”[2] – come una condizione di legittimità, ma con l’avvento del jobs act nel 2015 la condizione in questione è mutata; infatti se la disciplina previgente imponeva, guardando al fenomeno con la lente d’ingrandimento di chi mira a tutelare la professionalità del lavoratore, che l’obbligo di repêchage si estrinsecasse nella ricerca di una posizione all’interno dell’azienda in cui collocare il lavoratore, attribuendogli mansioni equivalenti alle ultime da questo effettivamente svolte[3],  la normativa che trova oggi applicazione, invece,  in seguito all’ampliamento del potere di esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro, consente al datore di lavoro di scongiurare il licenziamento attraverso la possibilità, ad egli accordata dalla legge, di adibire il dipendente anche alle mansioni inferiori rispetto alle ultime da questo svolte.

Vien da sé che, nel bilanciamento di interessi operato dal legislatore tra l’interesse alla tutela del posto e quello alla tutela della professionalità, a soccombere è stato quest’ultimo.

È lecito a questo punto interrogarsi sulle ripercussioni che la disciplina del jobs act possa aver prodotto in capo all’obbligo di repêchage.

I fili di questo interrogativo muovono dalla lettura della recente giurisprudenza che sul punto sembra aver influito in modo non indifferente, infatti come risposta all’ampliamento del potere di mutamento della prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro, sembra che si sia affermato anche un ampliamento dei confini dell’obbligo di ripescare il lavoratore.

La sentenza in questione è la n. 3370 del 16 dicembre 2016, pronunciata dal tribunale di Milano, una breve esposizione della parte in fatto è, ad avviso dell’autore, già di per se’ sufficiente a comprendere l’illegittimità del licenziamento alla luce della nuova disciplina; una lavoratrice era stata licenziata dalla società per la quale lavorava per giustificato motivo oggettivo, rinvenibile nella soppressione del posto di lavoro ricoperto dalla donna, quest’ultima dal canto suo decise citare in giudizio la società eccependo dinanzi al giudice la sussistenza di ulteriori posizioni all’interno delle quali poter essere collocata.

Il Tribunale di Milano, ovviamente, decretò illegittimo il licenziamento della donna, in quanto la società datrice di lavoro non aveva assolto l’onere della prova avente ad oggetto l’obbligo di repêchage, e riformando gli orientamenti passati, ritenne che in base alle prescrizioni del nuovo articolo 2103 c.c., la ricerca di una posizione relativa alle mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte dalla donna, sarebbe stata incongrua, avendo ormai il principio di equivalenza delle mansioni lasciato il posto alla più ampia sfera delle mansioni appartenenti al medesimo livello di inquadramento e categoria legale. Non è azzardato dire allora che, se da un lato il nuovo articolo 2013 c.c. rende più flessibile l’organizzazione del lavoro attraverso la possibilità per le imprese di estendere l’area delle prestazioni esigibili dai propri dipendenti, dall’altro introduce condizioni più stringenti per l’accertamento del repêchage, aggravando notevolmente l’onere della prova in capo al datore di lavoro[4] che abbia intenzione di procedere al licenziamento di un dipendente per motivo oggettivo.

Detto ciò, è bene ora affermare come la disciplina dell’obbligo di repêchage non sia intersecata solamente dalle disposizioni predisposte in materia di licenziamento, ma altresì con quanto disposto dal legislatore in materia di obbligo formativo.

L’obbligo formativo rientra nelle novità introdotte con l’avvento del jobs act, infatti nella riforma avutasi con la l. 300/1970 non era presente una disciplina di tal genere.

In sostanza l’obbligo formativo introdotto al co. 3 dell’art 2103 c.c., vorrebbe che il datore di lavoro si sobbarcasse le spese necessarie alla formazione del lavoratore che, essendo stato dimensionato a tutela del supremo interesse alla conservazione del posto, non ha le competenze necessarie a prestare l’opera connessa alla nuova mansione attribuitagli.  È opinione di numerosi esponenti della dottrina che introdurre un obbligo che si riverberi sulla posizione giuridica del datore in tal modo, determinerebbe un’eccessiva ingerenza nelle scelte organizzative, un limite ai poteri del datore di lavoro che si andrebbe a porre in contrasto con il precetto di cui all’art. 41 Cost.; così facendo le esigenze del lavoratore alla conservazione del posto andrebbero a prevalere in modo troppo preponderante sulle esigenze imprenditoriali di tutela dell’impresa [5].

Circa il c.d. obbligo formativo è bene indicare che non può propriamente parlarsi di obbligo, ma che è più corretto definirlo alla stregua di un onere, autorevole dottrina[6] ha pertanto ritenuto che l’obbligo di repêchage dovrebbe operare solamente in relazione all’ipotesi in cui vi siano in azienda delle posizioni vacanti ricopribili dal lavoratore in fase di licenziamento, le quali mansioni siano compatibili con le attitudini e la conoscenza professionale di questo, senza che si renda necessaria una formazione aggiuntiva, tale orientamento è condiviso dalla giurisprudenza[7] la quale ha sostenuto che sobbarcarsi il costo di  “un’ulteriore e diversa formazione per salvaguardare il (…) posto” di lavoro dei propri dipendenti, è un carico che il datore di lavoro non può sopportare.

Giurisprudenza più recente[8], si è inoltre occupata di una questione molto spinosa, avente ad oggetto i limiti temporali dell’obbligo di repêchage.

La massima, dalla quale intendo partire di modo che sia possibile fissare sin da subito il concetto attorno al quale ruota questa analisi, è la seguente: “Affinchè il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, il datore di lavoro deve provare che al momento dell’intimazione del recesso non sussistevano, all’interno dell’organizzazione aziendale, altre posizioni lavorative analoghe a quella soppressa alle quali il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere adibito tenuto conto della professionalità acquisita anche con riferimento ad un congruo lasso temporale”.

Com’è chiaro, la prima parte della massima non allude a nulla di nuovo, infatti si limita a confermare la sussistenza in capo del datore di lavoro dell’obbligo di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore, è piuttosto la parte finale a farci riflettere, si riferisce infatti ad un “congruo lasso temporale” entro il quale adoperare il ripescaggio; cosa vuole dire la corte di cassazione con questo? Dottrina[9] particolarmente sensibile sul punto, nel commentare la suddetta pronuncia della suprema corte, ha ritenuto che questa volesse definire i limiti dell’obbligo di repêchage da un punto di vista temporale, attraverso una puntualizzazione relativa al fatto che la valutazione strutturale ed organizzativa necessaria a verificare la possibilità di un reimpiego, non può limitarsi ad una prospettiva di ricollocazione dell’unità lavorativa meramente istantanea, ovvero al momento del recesso, ma deve avere ad oggetto l’assetto organizzativo anche in considerazione di un arco di tempo successivo al licenziamento.

La società datrice aveva in questo caso intimato il licenziamento al lavoratore giustificando il provvedimento con la soppressione del posto di lavoro dovuto ad un incremento dell’automazione all’interno di quel reparto produttivo, il lavoratore nell’impugnare il licenziamento aveva tra le censure proposte, protestato altresì contro il mancato assolvimento dell’obbligo di  repêchage, spiegando come anche se al momento del licenziamento non vi fossero posizioni ricopribili dal lavoratore, il datore di lavoro fosse comunque a conoscenza della prossima disponibilità di due posizioni di capo area dimissionari, caratterizzate, tra l’altro, da una compatibilità di mansioni rispetto a quelle che il lavoratore aveva precedentemente svolto.

Si noti bene come nel caso in questione il lavoratore ottiene giustizia una volta giunto in   cassazione, ma precedentemente la giurisprudenza di merito gli aveva negato la reintegra, infatti la corte d’appello aveva ritenuto che l’obbligo di  repêchage fosse stato assolto in quanto il datore di lavoro aveva provato che, al tempo del provvedimento, non sussistesse un posto in azienda ricopribile dal lavoratore; ad avviso dell’autore il caso in questione rappresenta un ottimo esempio di come spesso è necessario approfondire, non soffermarsi in modo superficiale a ciò che sembra, già Platone attraverso il mito della caverna[10]aveva proposto un insegnamento in tal senso, infatti così come gli uomini che continuavano a guardare le cose solo sulla base della loro ombra riflessa su un muro, non riuscivano a comprenderne la vera essenza, anche coloro che svolgono la funzione giurisdizionale non potranno fare giustizia senza un congruo approfondimento della questione.

Se mediante l’abbandono della superficialità, gli uomini saranno in grado di liberarsi dai pregiudizi e potranno capire finalmente la verità delle cose, allo stesso modo i giudici potranno far emergere una verità processuale quanto più possibile coerente con i fatti narrati dalle parti.

 

[1] Zilio Grandi G., Gramano E., La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act, Giuffrè Editore, 2016, p.159.

[2] Secondo la definizione che ne da l’art. 3 l. 15 luglio 1966 n.604.

[3] Ex multis, Cass., 1 agosto 2013, n. 184116, la quale statuiva inoltre che il lavoratore dovesse cooperare nel procedimento, indicando quali fossero le mansioni a cui poteva essere adibito alternativamente al licenziamento.

[4] Mauro A., Con il nuovo art. 2103 cod. civ. cambiano anche le regole del repêchage (?), in Archivio interventi Bollettino ADAPT, http://www.bollettinoadapt.it, 29 maggio 2017

[5] Zilio Grandi G., Gramano E., La disciplina delle mansioni prima e dopo il Jobs Act, Giuffrè Editore, 2016, p.160.

[6] Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli Editore, 2015, p.150.

[7] Cass., 11 marzo 2013, n. 5963.

[8] Cass., 5 dicembre 2018, n. 31495, in Riv. Giur. Lav. 2/2019.

[9] Carbone M., L’obbligo di repêchage va assolto con riferimento a un congruo arco temporale successivo al licenziamento, in Riv. Giur. Lav., 2/2019, p. 211.

[10] Platone, La repubblica, Libro VII.

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