lunedì, Dicembre 2, 2024
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L’UE alla sbarra: la denuncia alla CPI per crimini contro l’umanità nella gestione dei migranti

A cura di Silvia Casu e Fabio Tumminello

Once they left their homeland, they remained homeless, once they left their State, they became stateless; once they were deprived of their human rights, they were rightless, the scum of the earth.”[1]

È con queste parole che si apre la memoria, inviata alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, di un gruppo di avvocati ed esperti che hanno accusato l’Unione Europea e, in particolare, Italia, Francia e Germania, di crimini contro l’umanità per le modalità con cui le autorità, comunitarie e nazionali, hanno gestito la questione e la rotta migratoria nel Mar Mediterraneo a partire dalla sua esplosione, nell’ormai lontano 2014.

Segnatamente, i legali sostengono che le istituzioni comunitarie sarebbero responsabili, direttamente e indirettamente, della morte di migliaia di migranti, tanto nel Mediterraneo – mettendo in atto politiche migratorie particolarmente rigide – quanto in Libia – finanziando le autorità libiche e la costruzione di campi di detenzione e tortura libici in cui si sono consumati e si consumano tutt’oggi violenze, stupri, torture ed omicidi [2].

Prima di approfondire le questioni relative alla supposta responsabilità delle autorità per i capi d’accusa appena descritti, occorre ripercorrere l’intera catena di eventi che ha portato all’attuale crisi migratoria, atteso che, come si dirà, le sue ragioni affondano le loro radici in un contesto geo-politico complesso e in costante mutamento.

Le origini della crisi migratoria: i rapporti tra Libia, Italia e UE

Fin dalla metà degli anni ’90, la Libia è stata meta e punto di arrivo delle principali rotte migratorie provenienti dall’Africa sub-sahariana: i migranti trovavano in questo paese le opportunità e le prospettive lavorative negate nel proprio paese di origine e ciò grazie ai piani di sviluppo promossi dal governo di Gheddafi fin dal suo insediamento.

Tuttavia, la situazione mutò con l’introduzione della Convenzione di Dublino [3], la quale andò a ridefinire i rapporti di forza tra gli attori presenti nel teatro Mediterraneo. Occorre, in questo senso, fare riferimento al contenuto della Convenzione; in particolare, al ben noto – e criticato – articolo 3, §1, secondo il quale “gli Stati membri si impegnano affinché la domanda di asilo di qualsiasi straniero, presentata alla frontiera o nel rispettivo territorio sia esaminata.” In concreto, a seguito dell’entrata in vigore di questa Convenzione, sui c.d. Stati “di primo approdo” gravò l’obbligo di esaminare le domande di asilo di tutti gli stranieri arrivati – o, in questo caso, sbarcati – sul territorio nazionale. Il regime di Gheddafi, pertanto, conscio della posizione di debolezza occupata dai paesi affacciati sul Mediterraneo – che avrebbero dovuto gestire da soli un alto numero di ingressi – approfittò dell’indiretto vantaggio ed utilizzò i migranti come leva politica (o, ancora meglio “as a bargaining chip[4]) nei confronti dell’Unione Europea e, in particolare, dell’Italia.

Fu così che, per quasi un decennio, Italia e Libia conclusero una serie di accordi finalizzati al contrasto dell’immigrazione illegale: il nostro paese, nei fatti, “delegò” il controllo delle frontiere al governo libico, finanziando campi di reclusione [5] ed addestrando le autorità preposte al controllo delle frontiere [6]. L’Unione Europea criticò in più occasioni gli accordi conclusi [7], fino a decidere di porre, nel 2004, un embargo nei confronti del governo di Gheddafi [8]. Ma la stretta collaborazione tra le due nazioni non si fermò e culminò con il celeberrimo “Trattato di Amicizia” [9], un accordo dal valore di quasi 5 miliardi di dollari con cui l’Italia finanziò infrastrutture e programmi economici espansivi in Libia in cambio di un rafforzamento dei confini meridionali del paese, al fine di rallentare i flussi migratori provenienti dal Sahara e “per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori” (articolo 19). Detto accordo si tradusse in politiche repressive e discriminatorie: le autorità libiche trattennero la maggior parte dei migranti nei campi di prigionia – costruiti con fondi italiani [10], accettando di riammettere nel paese coloro che fossero stati espulsi dall’Italia [11].

La prima guerra civile libica

Il meccanismo si ruppe nel 2011, con lo scoppio della c.d. prima guerra civile libica. La popolazione, sempre più in difficoltà per la pressante crisi economica e insofferente al militarismo del regime di Gheddafi, scese in piazza e le successive rivolte si tramutarono in un vero e proprio conflitto civile. In questo contesto – complice anche la morte di Gheddafi e la successiva transizione di potere – le autorità marittime libiche, lealiste[12], non parteciparono più alle operazioni di salvataggio.

È in questo difficile momento storico che la Corte europea dei diritti dell’uomo pubblicò la sua celebre sentenza sul caso Hirsi Jamaa [13], con la quale l’Italia è stato condannata per violazione del divieto di non respingimento (principio del non-refoulement), previsto dall’articolo 3 CEDU: come si legge nel testo, infatti, “le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che […] i migranti irregolari, sarebbero stati esposti in Libia a trattamenti contrari alla Convenzione e non avrebbero potuto accedere ad alcuna forma di tutela in quel paese.[14]

Nonostante ciò, l’Italia e l’Unione Europea avviarono nuove politiche di controllo delle frontiere, tra cui spicca la EUBAM Lybia[15]. Sennonché, la mancanza di un partner strategico sul territorio per il controllo dei flussi migratori in partenza e l’instabilità del paese, privo di una guida e di un governo centrale che potesse coordinare le autorità frontaliere [16], portarono al fallimento di queste prime missioni. Per l’UE fu dunque necessario adottare un nuovo approccio e un nuovo corso nell’esercizio della propria azione esterna.

Le nuove politiche dell’Unione Europea nella gestione dei migranti

A partire dal biennio 2011/2012, le istituzioni comunitarie inaugurarono una nuova linea politica nei confronti del fenomeno migratorio fondata su due tipi di interventi: uno (noto come EU’s first policy) incentrato sullo sviluppo dei paesi di partenza, con la creazione di fondi e la concessione di aiuti ai paesi che si trovavano lungo la rotta africana[17]; l’altro (noto come EU’s second policy) focalizzato, invece, sul controllo delle frontiere esterne, tale da ridurre il numero di partenze e, conseguentemente, il numero di arrivi sul continente. Secondo i legali, questa scelta ha rappresentato forse il “peccato originale” dell’Unione Europea, la quale decise di affrontare con durezza la questione immigrazione, venendo meno ai suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, e causando la morte di migliaia e migliaia di migranti nel Mediterraneo [18].

Il primo pacchetto di politiche di Italia e UE nel Mediterraneo: Mare Nostrum, Triton e Sophia

Relativamente a questo primo pacchetto di riforme, la denuncia dei legali si rivolge principalmente alle modalità con cui sono state gestite le zone SAR[19]. Già il Consiglio d’Europa, con la Risoluzione 1872(2012), aveva criticato la condotta delle autorità territoriali, colpevoli, negli anni, di non aver presidiato le zone SAR, in particolare qualora gli Stati competenti non potessero o non intendessero rispondere ai loro obblighi di ricerca e soccorso, come nel caso della Libia[20], invitando gli Stati direttamente coinvolti, come Italia e Malta, a rafforzare la loro presenza nell’area.

A seguito di una serie di tragici eventi e della morte di centinaia di persone tra il 2012[21] e il 2013[22], l’Unione Europea cercò di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri, ma fu l’Italia che, da sola, avviò la propria missione umanitaria, denominata Mare Nostrum. La missione ebbe come obiettivo quello di rinforzare la presenza italiana nelle zone SAR adiacenti (italiana, maltese e libica), con l’intento di intercettare le barche partite dalla Libia e arrestare i trafficanti. Nonostante il successo della missione – sia per estensione[23] che per numero di persone salvate[24], vi furono comunque numerose critiche. Secondo molti commentatori, la missione modificò le dinamiche migratorie (i) aumentando il numero di partenze (il c.d. pull factor, in realtà inesistente[25]) e (ii) conseguentemente, causando un aumento del numero di morti nel Mediterraneo (chiamato death factor); tale numero, al contrario, aumentò con la fine della missione[26].

L’operazione venne abbandonata per ragioni politiche ed economiche[27] e sostituita dall’operazione Triton[28], le cui concrete attività vennero, almeno nelle intenzioni, realizzate nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale, dal diritto comunitario e dalla legislazione sui diritti umani, ivi compreso il rispetto del divieto di non respingimento [29].

L’operazione Triton ebbe però un ambito di operatività molto più ristretto, un minor budget e un mandato di intervento molto più limitato[30]: le navi dislocate agirono, infatti, molto più vicino alle coste europee, riducendo l’incidenza della loro presenza nel Mediterraneo.

Su questo punto, i legali evidenziano come la scelta dell’Unione non fosse motivata da un’errata interpretazione dei fatti, ma piuttosto dalla palese volontà di creare un sistema apertamente ostile nei confronti dei migranti e che avesse, come primario effetto, quello di rallentare le partenze grazie alla sua efficacia deterrente[31]. Il fallimento della missione si materializzò dopo poco tempo, tanto che fu la stessa agenzia Frontex a cercare di risolvere le criticità più evidenti promuovendo la collaborazione tra le autorità marittime e i mercantili e navi civili nelle operazioni di salvataggio[32]: sennonché, come si può facilmente immaginare, tali imbarcazioni si rivelarono assolutamente impreparate a condurre dette operazioni[33].

Solamente nel 2015 l’Unione Europea riconobbe il proprio errore[34], cercando di rimediarvi rafforzando gli strumenti a disposizione nell’ambito della missione Triton e inaugurando poi un nuovo progetto, la missione EUNAVFOR MED (conosciuta anche come missione Sophia, attualmente in svolgimento)[35], il cui compito principale è quello di colpire i trafficanti di esseri umani, distruggendo e affondando le barche su cui vengono trasportati i migranti[36].

Il corso degli eventi fin qui delineato e la risposta dell’UE – anche alla luce della sostanziale indifferenza di gran parte deli Stati membri – evidenziano come il primario interesse fosse quello di mettere in atto una più efficace politica repressiva, nella speranza che la mancanza di aiuti e soccorsi esplicasse un’efficacia deterrente e facesse diminuire il numero di partenze.

In seguito, anche a causa di un rapido cambiamento di sensibilità[37], l’attenzione delle politiche dell’UE si spostò sul tentativo di risolvere “alla radice” il problema, affidando – o meglio, delegando – la gestione dei flussi migratori a soggetti terzi, ossia gli Stati da essi direttamente interessati.

Il secondo pacchetto di politiche di Italia e UE: l’attuale gestione della crisi libica

Il secondo “pacchetto” di politiche venne inaugurato nel 2015 e partì, almeno a parole, da un’autentica “ammissione di colpa”: la situazione in Libia, ormai “terra di nessuno” in balia dei trafficanti[38], era tale da rendere quasi accettabile, per i migranti, il rischio di naufragio in mare; in quest’ottica, alla luce dell’inefficacia della politica di deterrenza avviata negli anni precedenti, il nuovo obiettivo divenne quello di evitare naufragi e stragi in mare, mal percepiti dall’opinione pubblica, bloccando “fisicamente” i migranti dal punto di partenza, ossia la Libia. Le istituzioni comunitarie decisero quindi di interfacciarsi con le autorità libiche presenti sul territorio, rafforzando la cooperazione nel settore del controllo dei confini esterni e nel contrasto ai trafficanti di esseri umani e delle organizzazioni criminali attive sul territorio.

Sennonché, le intenzioni di questo progetto si scontrarono con una situazione, in Libia, ulteriormente aggravatasi dopo la fine del regime di Gheddafi. Nel 2014 era scoppiata, infatti, la seconda guerra civile libica tra le forze lealiste di Tobruk, controllate dal generale Khalifa Haftar – e riconosciute dalla comunità internazionale – e il Governo di Unità Nazionale (GNA) di Tripoli, facendo così ricadere il Paese in un nuovo vortice di scontri e violenze. Il paese, diviso in due, non poteva pertanto offrire alcun tipo di supporto alle istituzioni comunitarie nella gestione dei flussi migratori. In mancanza di un’autorità centrale, l’UE non trovava altro partner attivo sul territorio ad eccezione della sedicente Guardia Costiera libica (di seguito GC libica), la quale però non rispondeva ad alcun centro di comando e non aveva alcun legame con i due governi attivi sul territorio libico[39], ma era costituita da vere e proprie milizie armate vicine alle organizzazioni di trafficanti e scafisti[40].

Nonostante i dubbi circa i metodi e le prassi operative adottate dalla GC libica[41], scarsamente collaborativa con le autorità italiane e con il centro di comando nello svolgimento di operazioni di salvataggio congiunte[42], nel febbraio del 2017, con la Dichiarazione di Malta, è stato ufficialmente siglato il matrimonio tra Italia e Libia – o almeno, parte di essa – con il benestare dell’Unione Europea[43], che ha così deciso di riconoscere il ruolo centrale delle autorità libiche nel controllare il territorio, i confini, marittimi e terrestri, e nel combattere il traffico illegale di esseri umani[44].

Tra l’altro, delegare alle autorità libiche il controllo della relativa zona SAR ha ulteriormente limitato la presenza di navi straniere nell’area, in particolare delle ONG, che oggi battono il tratto di mare tra Lampedusa, Malta e Libia. Invero, occorre ricordare come le numerose ONG attive nel Mediterraneo per il salvataggio dei migranti abbiano svolto, nel corso degli anni, un notevole lavoro per la tutela di richiedenti asilo e il soccorso a navi a rischio naufragio[45], spesso ovviando alle mancanze operative delle autorità nazionali[46]. Nonostante ciò, queste organizzazioni non sono mai state riconosciute come partner dall’Unione Europea ma, anzi, delegittimate e criminalizzate, sospettate di essere colluse con i trafficanti di esseri umani[47]. Questa politica, ostile nei confronti delle organizzazioni non governative – cavalcata, nel dibattito pubblico, da forze politiche contrarie a salvataggio e accoglienza dei migranti – si è tradotta in sequestri, fermi e avvio di indagini che, lungi dall’ottenere qualsivoglia risultato in sede processuale[48], hanno finito con il rallentare le operazioni di salvataggio.

A ciò si aggiunga anche come l’attività della GC libica, orientata al pattugliamento delle coste per il recupero dei migranti – anche, come visto, grazie al supporto logistico dell’UE [49] –  sia stata (e sia) palesemente contraria al principio di non refoulement, dal momento che l’obiettivo di questi accordi è esplicitamente quello di gestire meglio i confini marittimi e assicurare uno sbarco sicuro sulle coste libiche[50], che al momento, tuttavia, non rappresenta un “luogo sicuro”. Invero, gli Stati, ai sensi del diritto internazionale, dovrebbero rispettare il divieto di rimpatriare o respingere individui in paesi in cui “la vita e la libertà di coloro i quali asseriscono un fondato timore di persecuzioni sarebbe minacciata[51]. Ne consegue che i migranti salvati in mare e fuggiti da zone di guerra o zone in cui i loro diritti fondamentali siano in pericolo, dovrebbero essere fatti sbarcare in luoghi in cui non sussista più una tale minaccia e dove possano accedere a servizi fondamentali per la loro salute e sicurezza (cibo, acqua, riparo e cure mediche)[52].

Ebbene, già nel 2011, durante la prima guerra civile libica, le N.U. richiesero agli attori coinvolti di concludere “un immediato cessate il fuoco e di autorizzare ogni mezzo idoneo a proteggere i civili”[53]. In virtù del deferimento ad essa effettuato dal Consiglio di Sicurezza delle NU a giudicare sulla questione libica (come sarà specificato nel prosieguo), anche la CPI considerò la situazione “disastrosa e inaccettabile”[54].

Nel 2015 fu invece l’UNHCR ad affermare come la Libia non possedesse le caratteristiche per essere considerata come un porto sicuro in cui far sbarcare le persone soccorse in mare”[55]. A conferma di quanto detto, anche la Corte penale internazionale, relativamente al caso libico, affermò come nel paese ci fossero ormai migliaia di persone, tra cui anche donne e bambini, detenute in condizioni inumane, vittime del traffico di esseri umani ed esposte a violenze e persecuzioni[56].

Nonostante ciò, in concreto, l’Unione Europea ha continuato, fino ad oggi, a restare fedele alle proprie politiche, pur in un contesto geo-politico notevolmente cambiato nel corso di pochi anni.

Attualmente, dunque, i migranti intercettati dalla GC libica vengono riportati nell’”inferno libico” [57] e la responsabilità di ciò – come vedremo – non può che essere imputata interamente (ma non solo) in capo all’Unione Europea, che ha scelto di “nascondere la polvere sotto il tappeto”, ignorando i gravi rischi per la vita dei migranti[58] in un paese in cui non esiste un governo riconosciuto[59].

Questa politica di controllo dei confini, unita all’aumento del numero di migranti imprigionati e bloccati nelle carceri del paese, ha portato ad un crollo degli arrivi sulle coste italiane dell’86% tra il luglio 2017 e il luglio 2018[60]. Ma, come confermato anche da Human Rights Watch, meno partenze equivalgono ad un numero maggiore di persone imprigionate in Libia, all’interno di campi di reclusione sempre più affollati e in condizioni disumane[61]. Un autentico circolo vizioso che è ben conosciuto e tollerato dall’Unione Europa[62] ed è proprio questa esplicita ammissione di colpa che fonda, più da un punto di vista morale che giuridico, la responsabilità dell’Unione Europea nella realizzazione di quella che è, a tutti gli effetti, una tragedia umanitaria.

Profili processuali

Stando al parere dei legali, la politica migratoria dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri nei confronti della Libia è classificabile come un crimine contro l’umanità, inteso come un consapevole ed esteso o sistematico attacco nei confronti di una popolazione civile. Si tratta, invero, di una linea di condotta di cui sono ritenute responsabili non solo le istituzioni comunitarie (il Consiglio Europeo, il Consiglio dell’Unione Europea, la Commissione Europea e le sue agenzie amministrative), ma anche gli Stati membri e i relativi capi di governo e leader politici coinvolti nel processo decisionale[63].

Prima di analizzare l’effettiva corrispondenza dei comportamenti contestati con la definizione di “crimine contro l’umanità”, è necessario verificare la sussistenza dei presupposti processuali alla base della denuncia.

Posto che non vi sono dubbi circa la competenza ratione temporis della Corte (essendo i crimini stati commessi dal 2013, ben 11 anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto, secondo l’art. 11 dello stesso), è opportuno procedere con l’analisi della sussistenza della giurisdizione.

  • La Corte ha giurisdizione, secondo l’art. 12, § 2 dello Statuto, su ogni soggetto avente nazionalità di uno Stato firmatario del Patto[64], e per atti o omissioni compiuti nel territorio di tale Stato, o a bordo di una nave o di un aeromobile ivi registrati. Nonostante le autorità libiche abbiano avuto un ruolo centrale nella perpetrazione dei crimini, esse risultano escluse dalla giurisdizione ratione personae della Corte, non avendo la Libia ratificato il Patto. I legali, tuttavia, ricordano come la giurisdizione si applichi in realtà agli attori europei (in particolare, alle istituzioni europee e agli Stati membri), i quali hanno emanato le decisioni e direttive nel cui quadro hanno agito le autorità libiche, e sono perciò definiti “complici” delle perpetrazioni, così come successivamente analizzato.
  • Secondo i legali, però, la giurisdizione della CPI sussiste anche in ragione della risoluzione n. 1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite[65], adottata unanimemente il 26 febbraio 2011, la quale ha deferito alla CPI la competenza a giudicare sui crimini commessi nell’intero territorio libico, a partire dal 15 febbraio 2011. Vi sono comunque elementi fattuali e giuridici della fattispecie che hanno avuto luogo in territori di Stati aderenti allo Statuto quali, ad esempio, lo svolgimento a Bruxelles dei processi decisionali, la ricezione delle chiamate di soccorso da parte del MRCC a Roma, o la collocazione in acque territoriali di Stati membri di navi e imbarcazioni deputate all’assistenza. Tali elementi sono comunque sufficienti, secondo i legali, per far scattare la giurisdizione della Corte.

Occorre poi considerare come la Corte possa agire sulla base di quanto disposto dall’art. 17 dello Statuto, in quanto “l’assenza di procedimenti nazionali è sufficiente per rendere il caso ammissibile[66]. Nel caso di specie, nonostante più di 40 000 vittime e migliaia di morti, sorprendentemente, nessuno dei 28 Stati membri – né, tantomeno, alcuna autorità libica – ha aperto indagini relativamente ai crimini contro l’umanità causati dalle politiche comunitarie[67]. Una tale inerzia non può certo derivare, secondo i legali, da una mancanza di tempo (la situazione presa in esame considera un arco temporale di 5 anni), bensì da una “generale indisponibilità – o unwillingness – ad agire”, e, in ragione di ciò, apre la strada ad un’azione motu proprio dell’Ufficio del Procuratore della Corte (OTP). La presa di iniziativa da parte della Corte si fa a fortiori più necessaria allorché la mancanza di procedimenti sia la “conseguenza di una strategia volta ad evitare il riconoscimento di ogni responsabilità degli attori politici in capo all’Unione Europea e degli Stati membri”[68].

Tuttavia, l’esercizio della giurisdizione da parte della Corte deve avvenire in presenza di un crimine contro l’umanità che sia, secondo gli artt. 17, § 1, d) e 53, § 1, c) dello Statuto, “di gravità sufficiente”. Questo limite sostanziale va valutato in relazione a più fattori, quali: la quantità e qualità dei crimini commessi, loro natura sistematica e ricorrente, il loro impatto, il numero e tipo di vittime, la vulnerabilità di tali soggetti, il contesto, gli obiettivi perseguiti. Alla luce di ciò, pur interpretando il criterio di gravità nella maniera più restrittiva, il caso in questione, nell’opinione dei legali, non potrebbe rimanere impunito senza detrimento al ruolo deterrente esercitato dalla Corte. Infatti: (i) i crimini compiuti sono ampi, sia sotto un profilo territoriale – essendosi verificati sul suolo libico, in acque territoriali e internazionali – che temporale, dovendo considerare, a tal proposito, non solo l’arco temporale quinquennale, ma anche la continuità e perpetuità dell’offesa; (ii) la natura dei crimini è notoriamente grave (morte, esecuzioni, violenze sessuali, rapimenti e torture); (iii) si tratta di gravi negazioni di diritti umani, risultato di un’impunità sistematica realizzata attraverso una complessa struttura di poteri statali e non, che dispongono delle competenze e capacità militari, amministrative e legislative necessarie per la perpetrazione di tali reati.

È dunque innegabile che il limite della gravità sia stato oltrepassato, e che – quindi – la questione sia pienamente ammissibile dinanzi alla Corte.

Profili sostanziali: la EU’s 1st policy (20132015) e la EU’s 2nd policy (20162019)

I legali proseguono la questione attraverso l’analisi delle due politiche europee prima analizzate ed intervenute rispettivamente dal 2013 al 2015 e dal 2016 al 2019, finalizzate ad arginare gli arrivi dal Mediterraneo. Il documento si struttura secondo tre linee di analisi: la sussistenza di un attacco diffuso o sistematico diretto contro una popolazione civile; i crimini commessi nella realizzazione di queste politiche, e il regime di responsabilità applicabile agli autori.

1. L’attacco esteso o sistematico contro popolazioni civili

Il crimine contro l’umanità di cui all’art. 7 dello Statuto deve essere commesso sotto forma di “attacco (i) esteso o sistematico (ii) diretto contro ogni popolazione civile (iii), realizzato consapevolmente (v) in esecuzione del disegno politico di uno Stato o organizzazione (iv)”.

(i)     La nozione di attacco ricomprende la commissione reiterata di atti tipici elencati nel par. 1 dell’art. 7[69]. La creazione della cd. lethal SAR gap nell’ambito dell’operazione Triton è stata parte di un disegno politico volto a sacrificare le vite di molti per scoraggiare le partenze di altri[70]. Le politiche intercorse dal 2016, invece, non solo sono volte a impedire gli arrivi sulle coste europee, ma costituiscono una vera e propria push-back policy[71] con l’intento di finanziare, addestrare e supportare[72] la GC libica al fine di respingere i migranti in terra africana. Il ritorno in terra madre ha poi reinnescato una serie di violenze, persecuzioni, deportazioni di massa nei centri di detenzione, sedi di stupri, omicidi, maltrattamenti, torture e altri atti inumani, così come definiti all’interno dello Statuto. L’UE ha però continuato, in applicazione tanto della prima quanto della seconda politica a collaborare con le autorità libiche, nonostante fosse consapevole di ciò che stava avvenendo nel paese e di come venivano utilizzate le risorse messe a disposizione delle autorità libiche (ad esempio, come accennato nella sezione fattuale, la fornitura di navi militari italiane, poi trasformate ed impiegate dalle milizie libiche per perpetrare crimini contro i migranti, o per forzarli a prendere parte ai conflitti in suolo libico[73], ha violato espressamente l’embargo di armi [74]). Dal tenore letterale dell’art. 7 dello Statuto si evince, inoltre, che la commissione di crimini contro l’umanità non debba necessariamente avvenire tramite atti di tipo “militare”. Tuttavia, è indubitabile che l’attacco in questione sia stato condotto nel contesto del conflitto armato libico, già soggetto a inchieste da parte della CPI, a embargo di armi e a un regime di sanzioni[75]. Per tale ragione, nel febbraio del 2011, il Consiglio di Sicurezza delle NU ha deferito la questione libica (tuttora pendente) alla CPI, denunciando, oltre i crimini contro l’umanità, anche la commissione di veri e propri crimini di guerra ai sensi dell’art. 8 dello Statuto[76]

(ii)      L’attacco, inoltre, deve essere (a) esteso o (b) sistematico. Nonostante il criterio sia alternativo, le politiche europee incontrano entrambi i requisiti. (a) L’estensione va valutata in base al numero delle vittime, alla durata complessiva delle perpetrazioni, e all’ampiezza territoriale del raggio d’azione. In questo senso, si stima che più di 9.492 civili siano deceduti o dichiarati dispersi tra il 2014 e il maggio 2016[77], ossia nel periodo compreso dal termine dell’operazione Mare Nostrum fino al graduale intervento, alla fine del 2015, delle ONG nella zona SAR rimasta scoperta. La politica europea avviata dal 2016, ben più grave, ha mietuto almeno 40.000 vittime. Anche con riguardo all’ampiezza territoriale, l’attacco risulta ‘esteso’, comprendendo l’intera zona del Mediterraneo centrale sotto il controllo dell’UE e dei suoi Stati membri. (b) L’attacco è anche sistematico, in quanto organizzato, realizzato ed effettivamente condotto dal complesso apparato di potere costituito da UE e Stati membri, inclusivo dei suoi agenti e funzionari. Un quadro in cui le ONG sono ostacolate nei salvataggi, mentre le unità europee si astengono dall’intervento, non può che rivelare il carattere organizzato dei crimini contro i migranti. Si tratta, infatti, di una politica ben coordinata, che coinvolge diversi attori in un esteso arco di tempo, con il comune obiettivo di bloccare il flusso migratorio, ottenendo un calo di arrivi (ma non delle partenze) dell’86%, che ha reso il Mar Mediterraneo “il più vasto cimitero del mondo”[78].

(iii)    I crimini, inoltre, risultano diretti contro una popolazione civile, ai sensi del citato art. 7, che può essere internamente diversificata, di qualsiasi nazionalità ed etnia (come nel caso in questione), purché non consti di “individui arbitrariamente selezionati”. La stessa Procuratrice della CPI, Fatou Bensouda, ha ribadito come quella dei ‘migranti’ sia una categoria semantica creata ad hoc al fine di essere attaccata in quanto ‘popolazione civile’ ai sensi dello Statuto di Roma. Le autorità, riconducendo un gruppo vulnerabile e ben diversificato di migliaia di civili sotto un target così omnicomprensivo, hanno creato un nemico de facto al fine di facilitare la commissione di violenze e discriminazioni[79]. Sulla scia di una grave crisi economica e di frammentazione sociale, gli attori politici hanno progressivamente deviato il sentiment pubblico verso le minoranze maggiormente vulnerabili, con la conseguenza che l’ansia e la paura sociali generalizzate hanno impedito qualsiasi dibattito razionale sul “problema” dei “migranti”[80]. Ciò ha progressivamente giustificato l’adozione di misure sempre più repressive ed inumane, aventi la presunzione di agire “in difesa dei valori europei”.

(iv)    L’attacco così descritto è stato, come più volte ribadito, condotto in attuazione del disegno politico di un’organizzazione (e di Stati) finalizzato al contenimento del flusso migratorio dall’Africa. Il criterio a cui è necessario fare affidamento per la determinazione di questo limite consiste nella capacità di tale organizzazione di violare diritti umani fondamentali[81]. Nonostante sia stata definita come una politica di cd. killing by omission, la condotta dell’organizzazione è tutt’altro che passiva: sono chiaramente individuabili decisioni e atti legislativi o amministrativi che hanno legittimato le innumerevoli negazioni dei diritti fondamentali.

(v)     Lo Statuto di Roma richiede non solo la mens rea per quanto attiene alla commissione degli atti illeciti, ma anche la consapevolezza che tali atti siano commessi come parte dell’attacco. I funzionari e gli attori europei non erano solamente consapevoli dell’attacco: ciò era la loro precisa intenzione, nonché diretta conseguenza della loro decisione di passare dall’operazione Mare Nostrum a Triton[82]. Un incremento drastico del tasso di mortalità era stato preannunciato nel 2014 da Frontex, e le istituzioni europee erano ben consce delle conseguenze negative delle loro politiche, prima che queste divenissero efficaci.

2. I crimini sottostanti

Le condotte penalmente rilevanti perpetrate in danno ai migranti, dalla loro intercettazione, fino allo sbarco e alla detenzione, integrano numerose fattispecie criminose tra quelle tipizzate dal primo paragrafo dell’art. 7 dello Statuto[83].

  • Il reato di persecuzione previsto dall’art. 7, § 1, h) e § 2, g), configurandosi come “l’intenzionale e grave privazione dei diritti fondamentali in violazione del diritto internazionale, […] ispirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale”, per il suo carattere ‘generale’ e per la previsione di un ampio ventaglio di tutela dei diritti fondamentali, copre, di per sé, gran parte delle violazioni perpetrate dai responsabili e si pone come norma cardine per l’analisi delle successive fattispecie. In tale nozione rientra il mancato soccorso di soggetti in pericolo in mare, che ne ha causato la morte o la deportazione forzata e la susseguente esposizione degli stessi ad altre forme di atti illeciti. È proprio in questi comportamenti passivi e di inazione, che si ravvisano le c.d. violazioni per omissione sopra accennate[84]. La punibilità della condotta omissiva per mancato adempimento ad un obbligo preesistente ai sensi dello Statuto è stata ribadita in svariate occasioni[85] e più volte avvalorata dalla giurisprudenza della CPI[86], in cui si è affermato come l’obbligo di tutelare i diritti fondamentali dei civili, specie in condizioni di particolare rischio, sussista in qualsiasi momento e non sia limitato ai soli periodi di conflitto.
  • Le autorità europee risultano poi responsabili della violazione del divieto di deportazione o trasferimento forzato di cui all’art. 7, § 2, d) dello Statuto. Affinché la deportazione o il trasferimento[87] avvengano illecitamente, è necessario che il consenso sia mancante[88] e che il soggetto si trovasse legittimamente nel luogo dal quale è stato coercitivamente rimosso. Potendosi ritenere ‘mancante’ il consenso anche – e soprattutto – se fornito sotto minaccia o sotto l’uso della forza, è ora opportuno analizzare il secondo requisito. I migranti dispongono di un diritto, internazionalmente protetto, di uscire dal territorio libico: ciò in osservanza del principio di non-refoulement, sopra accennato[89].
  • L’imprigionamento (a) e la privazione della libertà personale (b) costituiscono due fattispecie illecite ai sensi dell’art. 7, § 1, e) dello Statuto ed estendono la violazione a svariate forme di detenzione, includendo qualsiasi forma di privazione fisica della libertà che avvenga arbitrariamente[90], ovvero senza un giusto processo, per un periodo di tempo indefinito, qualora i prigionieri vengano privati dell’accesso alle garanzie processuali che regolano la loro detenzione. Nel caso di specie, i migranti che – sopravvivendo alla tratta nel Mediterraneo, già di per sé difficoltosa – fanno ritorno sul suolo libico, sono criminalizzati e incarcerati in centri di detenzione organizzati, fattorie o strutture a gestione privata. La condotta europea che ha favorito e facilitato tali detenzioni integra, inoltre, numerose violazioni del diritto internazionale, in particolare l’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966[91].
  • Le perpetrazioni che avvengono durante la detenzione configurano molteplici fattispecie criminose previste dall’art. 7, tra le quali rientrano: omicidio, schiavitù, tortura, stupro e altre violenze sessuali. In particolare, l’art. 7, § 2, c) dello Statuto definisce la schiavitù come “l’insieme di poteri inerenti al diritto di proprietà, esercitati su una o più persone”. Secondo numerosi rapporti[92] il migrante è effettivamente strumentalizzato, e su di esso insistono poteri tipici del diritto di proprietà, quali: l’acquisto, la vendita, il prestito o lo scambio. Inoltre, nella definizione di omicidio, così come prevista dall’art. 7, § 1, a) dello Statuto, rientrano numerose morti dei migranti ad opera (direttamente) delle autorità libiche e (indirettamente) dagli attori europei, tra le quali: esecuzioni, omicidi, violenze, torture, morti per malattie, aggravate dalle scarse condizioni igienico-sanitarie delle carceri libiche. Non meno gravi e perseguibili sono le violazioni del divieto di tortura, stupro e altre violenze sessuali, definite dall’art. 7, § 1, f) e g), e § 2, e)[93] e f) dello Statuto. Come posto in luce dal report delle NU del 7 gennaio 2019[94], i migranti hanno subìto numerose violenze sessuali e fisiche, sofferenze causate da inadeguate cure mediche, carenza di viveri e acqua, sovraffollamento, privazione del sonno e negazione delle cure fisiche e mentali. Inoltre, i metodi punitivi e sadici impiegati durante (ma non solo) la detenzione sono fondamentale fonte di profitto per gli agenti libici, in quanto, tramite il timore e la minaccia, essi sono in grado di soggiogare le vittime (e i loro familiari) ottenendo rapidamente dei riscatti. Inoltre, la politica deterrente va a fondamentale “vantaggio” dei funzionari europei, ed è preciso obiettivo delle loro misure.
  • I funzionari e le agenzie europee si sono resi infine colpevoli della commissione di “altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale”, secondo la previsione dell’art. 7, § 1, k). Lungi dall’essere una norma aperta, per il rispetto del fondamentale principio nullum crimen sine lege, tale disposizione mira a tutelare anche gli effetti dannosi (fisici e psicologici) a lungo termine sofferti dai migranti in ragione delle condizioni di vita stressanti cui sono andati incontro.

    3. La responsabilità giuridica

La responsabilità penale è strutturata dallo Statuto di Roma secondo un modello ampio, che garantisca l’imputabilità dei crimini a tutti coloro che si siano resi (consapevolmente) partecipi: la Corte ha infatti giurisdizione sui pubblici ufficiali, incluso sia chi abbia diretto e sviluppato le politiche in seno all’UE, sia gli agenti individuali che abbiano eseguito, on the ground, tali disposizioni. Secondo l’art. 25, § 3, a) dello Statuto, “una persona è penalmente responsabile e può essere punita per un reato di competenza della Corte quando commette tale reato a titolo individuale o insieme ad un un’altra persona o tramite un’altra persona, a prescindere se quest’ultima è o meno penalmente responsabile”. Sono così individuate più forme di responsabilità.

Se sembra naturale ipotizzare, in primis, una responsabilità diretta in capo a coloro che hanno fisicamente ed attivamente commesso i crimini contro i migranti, ossia i comandanti della GC libica, membri delle milizie e altri corpi pseudo-governativi libici[95], le tre forme di responsabilità – previste dall’art. 25 dello Statuto – risultano tuttavia dirette esclusivamente agli agenti europei. Dalla formulazione letterale della denuncia, si evince infatti come i legali intendano rendere responsabili delle condotte perpetrate in danno ai migranti solo gli agenti europei e, in particolare, italiani, che hanno elaborato ed attuato le politiche migratorie.

a) Responsabilità diretta (individuale)

Il primo tipo di responsabilità è diretta contro tali agenti europei, i quali hanno, tramite la loro condotta omissiva, permesso la riconduzione dei migranti in terra libica, integrando quindi i reati di “omicidio per omissione” e “tortura per omissione”. Infatti, l’UE ha dato vita a un sistema per cui i migranti, una volta sulla tratta del Mediterraneo, potevano “scegliere” se morire per annegamento o essere intercettati dalla GC libica. Entrambe le alternative figurano come atti e omissioni costituenti crimini contro l’umanità. I legali attribuiscono quindi il primo dei tre tipi di responsabilità diretta ai funzionari europei e agli agenti italiani che si sono trovati sulla scena o hanno direttamente partecipato alle operazioni SAR e che hanno dato in custodia i migranti ai loro complici libici.

b) Co-responsabilità

Nei termini dello Statuto, un crimine può essere commesso anche congiuntamente a un’altra persona, e innescare così una cd. “co-responsabilità”. Tale forma di imputazione richiede la prova dell’esistenza di un piano comune, l’intenzionalità e consapevolezza delle conseguenze delle azioni e, infine, un essenziale e decisivo contributo alla perpetrazione. Il ruolo dell’UE come organizzazione è stato parte di un piano comune che ha autorizzato la commissione dei reati, come parte di un attacco pianificato da politiche europee e, in particolare, italiane. Il contributo fornito dall’UE e dagli Stati membri è stato non solo decisivo, ma essenziale: senza il complesso sistema di controllo posto in essere dall’UE, i crimini non sarebbero stati commessi. Quella tra UE e Libia è, secondo i legali, “una vera e propria collaborazione finalizzata alla violazione di diritti umani”[96].

c) Responsabilità indiretta o “oggettiva”

Lo Statuto riconosce un terzo tipo di responsabilità indiretta o “oggettiva”, relativa a soggetti che agiscono tramite un’altra persona. È una perpetrazione “verticale” intesa a concentrare il controllo esercitato sui migranti nelle mani di soggetti in una posizione di leadership. La relazione intercorrente tra UE, GC libica, milizie e DCIM (Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale[97]) è strutturata gerarchicamente, per cui i leader europei e nazionali si trovano in una posizione sovraordinata rispetto alla guardia costiera, alle milizie e alle agenzie. Tali attori “di vertice” sono quindi penalmente responsabili anche rispetto agli individui che agiscono on the ground nei centri di detenzione libici, ovvero la GC libica, i membri delle milizie e del DCIM.

d) Responsabilità di comando

L’art. 25, § 3, b) dello Statuto sancisce altresì la responsabilità penale di chi “ordina, sollecita o incoraggia la perpetrazione un reato di competenza della Corte, nella misura in cui vi è perpetrazione o tentativo di perpetrazione di tale reato”. La disposizione si riferisce quindi a coloro che, trovandosi in una posizione di particolare autorevolezza, possano indurre altri a perpetrare l’offesa. Come precedentemente descritto, nel presente caso l’UE e gli Stati membri, con l’obiettivo precipuo di agevolarne la commissione, hanno istruito e sollecitato gli agenti della GC libica al compimento degli atti illeciti. È già stato dimostrato come, senza tale tipo di concorso, la popolazione civile in questione non sarebbe stata vittima delle atrocità.

Conclusioni

C’è una difficoltà psicologica nel percepire l’Unione Europea, un apparato democratico con una realtà liberale tra le più sviluppate, come un’organizzazione criminale. Le implicazioni materiali e professionali di quest’argomentazione non sono poche. Un grave peso morale ci affligge nel pensarci come cittadini di uno spazio politico che si è reso autore di atti che non vorremmo accadessero a nessun altro, in nessun altro luogo. Il Mediterraneo, però, è un cimitero, e la Libia detiene ancora migliaia di migranti in condizioni deplorevoli, in assenza di acqua e cibo, che chiedono all’Europa di salvare le loro vite e di non essere respinti verso la terra dalla quale sono faticosamente fuggiti. Questo non è un disastro naturale, né un “tragico errore” umano; questo è un crimine contro l’umanità commesso da individui che ora devono rendere conto delle loro azioni, siano essi leader politici, o comuni cittadini.

Questi i pensieri conclusivi del team che, per due anni, ha lavorato nella redazione di questa comunicazione all’Ufficio del Procuratore della Corte Penale Internazionale. È però anche un appello alla comunità internazionale, per ottenere un maggiore supporto fattuale e legale, e perché non si guardi all’immigrazione come a una minaccia, ma come a un’opportunità.

[1] Arendt H., L’origine dei totalitarismi, 1951, Harcourt, Brace e co., New York.

[2] Shatz M., Branco J. e altri, Communication to the Office of the Prosecutor of the International Criminal Court Pursuant to the Article 15 of the Rome Statute – EU Migration Policies in the Central Mediterranean and Libya (2014-2019), 4 giugno 2019, §2, p. 7.

[3] Convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri delle Comunità Europee, Dublino, 1997, in Gazzetta ufficiale, n. C 254, 19.8.1997. 

[4] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §1, p. 14.

[5] Richey, Mason L., The North African Revolutions: A Chance to Rethink European Externalization of the Handling of NonEU Migrant Inflows, Hankuk University of Foreign Studies: 16 febbraio 2012; Paoletti E., A Critical Analysis of Migration Policies in the Mediterranean: The Case of Italy, Libya and the EU, RAMSES Working Paper 12/09, European Studies Centre, Oxford, p. 15.

[6] Paoletti E., op. cit., p. 15.

[7] Parlamento Europeo, Risoluzione su Lampedusa del Consiglio dell’Unione Europea, 2664esima riunione dell Consiglio, Giustizia e Affari interni, 2-3 giugno 2005, Lussemburgo, n. 8849/05.

[8] The Guardian, EU lifts Libya Sanctions”, 11 ottobre 2004; Human Rights Watch, Stemming the Flow: Abuses Against Migrants, Asylum Seekers and Refugees, Vol.18(5(E)).

[9] Ronzitti N., The Treaty on Friendship, Partnership and Cooperation between Italy and Libya: New Prospects for Cooperation in the Mediterranean?, Bollettino di politica italiana, Vol. 1, n. 1, 2009, pp. 125-133.

[10] Heller, C., Pezzani, L., Mare Clausum: Italy and the EU’s undeclared operation to stem migration across the Mediterranean, Forensic Oceanography, 2018, pp. 28/29.

[11] Amnesty International, Libya’s Dark Web of Collusion: Abuses Against Europe-bound Refugees and Migrants, 2017, p. 14

[12] In Shatz M., Branco J. e altri, cit., §21, p. 18 si fa riferimento al fatto che “… the LYCG was the enemy…”.

[13] Corte EDU, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza 23 febbraio 2012.

[14] Ibid., §131.

[15] Consiglio dell’Unione Europea, European External Action Service, EUBAM Libya Initial Mapping Report Executive Summary, 2017.

[16] Toaldo M., Fitzgerald M., A Quick Guide to Libya’s Main Players”, Consiglio europeo sulle relazioni estere, 2016.

[17] Come l’EUTF (“EU Emergency Trust Fund for Africa”).

[18] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §33, p. 21.

[19] Per un approfondimento si veda Casu S., Le zone SAR, Ius in itinere, 3 marzo 2019 (https://www.iusinitinere.it/le-zone-sar-18324).

[20] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §39, p. 23.

[21] La memoria ricorda il caso della “Left to die boat”: il 26 marzo 2012 un barcone con 72 migranti partito dalla Libia finì la benzina nel mezzo del Mediterraneo e rimase alla deriva per 14 giorni; sopravvissero solo 10 persone, che naufragarono sulle coste libiche e vennero nuovamente imprigionate nei campi.

[22] Va segnalato, tra i vari casi, il naufragio avvenuto nell’ottobre 2013 al largo delle coste di Lampedusa, in cui morirono 366 persone.

[23] L’ambito operativo della missione copriva quasi 70mila chilometri quadrati, come rilevato da Amnesty International, Europe’s Sinking Shame, 2015, p. 13; Shatz M., Branco J. e altri, cit., §47, p. 24.

[24] Come evidenziato anche dall’UE (Parlamento Europeo, Risoluzione 2015/2660(RSP) sulle ultime tragedie nel Mediterraneo e le politiche dell’UE su migrazioni e asilo, § d) furono salvate più di 150mila anime in appena un anno.

[25] In realtà l’aumento del numero di partenze fu dovuto principalmente all’aumento dell’instabilità in aree come il Corno d’Africa – punto di partenza di molti migranti – e la Libia (si veda, ex multis, Heller C., Pezzani L., Death by Rescue, Forensic Oceanography, 2016, p. 6, in cui si afferma come “[crossings] resulted from deeper regional political factors that were leading to this trend before MN. [..] the fact that MN was not the major cause is further confirmed by the comparable scale of crossings after MN”).

[26] Anche questa critica, però, manca di fondamento: se nel periodo di operatività di Mare Nostrum le morti furono appena 60, nel periodo successivo le morti aumentarono a 1687 (Heller C., Pezzani L., op. cit., p. 10).

[27] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §§54 – 58, pp. 26 – 27.

[28] Frontex: Operations Division Joint Operations Unit, Concept of reinforced joint operation tackling the migratory flows towards Italy: JO EPN-Triton: to better control irregular migration and contribute to SAR in the Mediterranean Sea, 2014, p. 9

[29] Commissione Europea, Frontex Joint Operation ‘Triton’ – Concerted efforts to manage migration in the Central Mediterranean, 2014, p. 2.

[30] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §§62 – 66, pp. 27 – 28.

[31] Ibid., §§68 – 77, pp. 29 – 30.

[32] Frontex, JO Triton 2015 Tactical Focused Assessment, 2015, p.2

[33] Associazione armatoriale della Comunità europea (AACE) e la Camera internazionale della navigazione (CIN), Lettera al Capo dello Stato / Capo del governo dei membri dell’UE / EEA – Crisi umanitaria nel Mar Mediterraneo, 2015.

[34] Con Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea che affermò come “it was a serious mistake to bring the Mare Nostrum operation to an end. It cost human lives.” (Juncker J.C., Discorso del Presidente Jean-Claude Juncker al dibattito del Parlamento Europeo sulle conclusioni del Consiglio europeo speciale del 23 aprile “Affrontare lacrisi dei migranti).

[35] Decisione (PESC) 2015/778 del Consiglio relativa ad un’operazione militare dell’Unione Europea nel Mediterraneo

Centromeridionale (EUNAVFOR MED), 18 maggio 2015.

[36] Come ben evidenziato da Campbell Z., Una strategia ipocrita e spietata, Politico (traduzione in Internazionale, n.

1297, marzo 2019), la distruzione di navi e imbarcazioni ha però il distorto effetto di aumentare il rischio per la vita dei migranti, che vengono imbarcati non più su piccoli pescherecci o navi di legno ma direttamente su gommoni, molto più pericolosi e soggetti a naufragi.

[37] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §131.

[38] The Migrant Project, UN report accuses Libyan Security forces of colluding with smugglers and traffickers in Libya. 1° marzo 2018.

[39] Panel di esperti sulla Libia, Rapporto finale del panel di esperti sulla Libia istituito ai sensi della Risoluzione 1973(2011), Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, 1° giugno 2017, § 152.

[40] Reitano T., Micallef M., The anti-human smuggling business and Libya’s political end game”, Institute for Security Studies, 2017, p. 11.

[41] Amnesty International, Europe: A perfect storm: The failure of European policies in the central Mediterranean, 2017, p. 23.

[42] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §298, p. 81.

[43] Consiglio europeo, Comunicato stampa – Malta Declaration by the members of the European Council on the external aspects of migration: addressing the Central Mediterranean route, 2017.

[44] Ibid.

[45] Shatz M., Branco J. e altri, cit., §§227 – 233, pp. 62 – 63.

[46] In Hockenos P., Europe has Criminalized Humanitarianism, Foreign Policy, 2018, si afferma come “The NGOs are present to fill a lifesaving gap in the absence of a state-led response to reduce the loss of lives”.

[47] Spesso senza alcuna prova, si veda, ex multis, Camilli A., Il teorema Zuccaro sulle ONG è fallito, Internazionale, 15 marzo 2019 (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2019/05/15/open-arms-zuccaro-ong).

[48] Si veda F. Tumminello, Critiche delle Nazioni Unite alle politiche migratorie italiane: il bilanciamento tra esigenze di sicurezza e tutela dei migranti, Ius in itinere, 19 maggio 2019 (https://www.iusinitinere.it/critiche-onu-alle-politiche-migratorie-italiane-20619).

[49] Heller, C., Pezzani, L., 2018, “Mare Clausum: Italy and the EU’s undeclared operation to stem migration across the Mediterranean”, Forensic Oceanography, p. 39-40; Shatz M., Branco J. e altri, cit., §258, p. 69.

[50] Commissione europea e Alto Rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza, Comunicazione al Parlamento Europeo, Il Consiglio europeo e il Consiglio: Migrazioni nella rotta del Mediterraneo centrale: controllare i flussi, salvare vite, 25 gennaio 2017, JOIN (2017) 4 finale, p.6.

[51] Ibid., p. 8.

[52] Organizzazione marittima internazionale, Risoluzione MSC.167(78) – Linee guida per la gestione di persone salvate in mare, 2004, Allegato 34, 6.17, p. 10.

[53] Risoluzione 1973 (2011) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, S/RES/1973(2011), 17 marzo 2011.

[54] Corte Penale Internazionale, “Statement of the ICC Prosecutor to the UNSC on the Situation in Libya”, 2017. Vedi anche: Risoluzione 1970 adottata il 26 febbraio 2011 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, online: http://unscr.com/en/resolutions/doc/1970

[55] UNHCR, Posizione dell’UNHCR sui rimpatri in Libia – Aggiornamento I, 2015

[56] Corte Penale Internazionale, Dichiarazione del Procuratore della CPI al Consiglio di sicurezza delle NU sulla situazione in Libia, 2017.

[57] Menduni M., ‘Giro: “Fare rientrare quelle persone vuol dire condannarle all’inferno”, La Stampa, 6 agosto 2017.

[58] Nazioni Unite, Dichiarazione del presidente del Consiglio di sicurezza di condanna della tratta di schiavi dei migranti in Libia, appello alle autorità nazionali di rispettare il diritto internazionale dei diritti umani, 7 dicembre 2017.

[59] Pennetier, M., “France tells Libya to act over ‘migrant crimes against humanity”, 2017.

[60] Servizio europeo per l’azione esterna, Strategic Review on EUNAVFOR MED Op Sophia, EUBAM Libya & EU Liaison and Planning Cell, 2018, p. 13.

[61] Human Rights Watch, No Escape from Hell – EU Policies contribute to abuse of migrants in Libya, gennaio 2019, p. 16.

[62] Dimitri Avramopoulos, il Commissario europeo per i migranti, affermò, nel novembre del 2017, che “We are all conscious of the appalling and degrading conditions in which some migrants are held in Libya; Euractiv e AFP, EU working without ‘letup’ to help migrants in Libya, 24 novembre 2017.

[63] Sulla base degli eventi sopra descritti, le autorità italiane hanno agito secondo una prospettiva talvolta autonoma, così ipotizzando la possibilità di una responsabilità individuale indipendente rispetto agli altri apparati sovranazionali.

[64] Tutti i Paesi membri dell’Unione Europea hanno ratificato individualmente lo Statuto di Roma, rendendo così i propri cittadini soggetti alla giurisdizione della Corte.

[65]Risoluzione 1970 adottata il 26 febbraio 2011 dal Consiglio d sicurezza delle Nazioni Unite, online: http://unscr.com/en/resolutions/doc/1970

[66] Ciò avviene conformemente all’articolo 17 dello Statuto relativo alla procedibilità, secondo cui: “1. Con riferimento al decimo comma del preambolo ed all’articolo primo del presente Statuto, la Corte dichiara improcedibile il caso se: a) sullo stesso sono in corso di svolgimento indagini o provvedimenti penali condotti da uno Stato che ha su di esso giurisdizione, a meno che tale Stato non intenda iniziare le indagini ovvero non abbia la capacità di svolgerle correttamente o di intentare un procedimento”

[67] Le uniche azioni intraprese dalle autorità nazionali si sono concentrate sulla condanna di trafficanti, ma hanno escluso ogni dimensione politica o qualsiasi riferimento generalizzato alle politiche dell’Unione.

[68] Vedi il punto 467 della denuncia.

[69]  Tra i quali si riportano: omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato della popolazione, imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale, tortura, stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità, persecuzione, sparizione forzata delle persone, apartheid, altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale.

[70] Vedi il punto 523 della denuncia.

[71] N.B. La politica di respingimento è per se illecita, essendo numerosi i casi in cui i migranti, pur di non essere nuovamente sottoposti a torture in Libia, hanno preferito rischiare la propria vita gettandosi dalla nave.

[72] Secondo il punto 722 della denuncia, “[…] Se l’UE e l’Italia non avessero contrattato con il Governo di Accordo Nazionale libico (GNA) e non avessero procurato i mezzi finalizzati alle operazioni, la GC libica non sarebbe stata in grado di condurre alcuna operazione”. Per approfondimenti, vedi la sezione fattuale di cui sopra.

[73] Vedi: Libya: Detained Migrants at Risk in Tripoli Clashes, Human Right Watch, 25 April 2019, online, https://www.hrw.org/news/2019/04/25/libya-detained-migrants-risk-tripoli-clashes

[74] Human Rights Watch, 19 Giugno 2017, “EU: shifting rescue to Libya risks lives”, Human Rights Watch, online, https://www.hrw.org/news/2017/06/19/eu-shifting-rescue-libya-risks-lives.

[75]  Vedi punto 696 della denuncia.

[76] Vedi: Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1970, 2011, online, http://unscr.com/en/resolutions/doc/1970; CPI, Situazione in Libia, ICC-01/11, online, https://www.icc-cpi.int/libya

[77] 1200 dei quali sono deceduti in una singola settimana di aprile nel 2015, secondo i dati del Global Migration Data Analysis Centre, Giugno 2016, “The Central Mediterranean route: Deadlier than ever”, Data Briefing Series, Issue No.3, online, https://publications.iom.int/system/files/pdf/gmdac_data_briefing_series_issue3.pdf

[78] Vedi punto 705 della denuncia.

[79] La politica di non-assistenza è stata infatti indirizzata esclusivamente a navi di migranti in pericolo, e mai a navi turistiche o imbarcazioni commerciali.

[80] Vedi il punto 545 della denuncia.

[81] Vedi: Situation in the Republic of Kenya, Pre-Trial Chamber II, “Decision Pursuant to Article 15 of the Rome Statute on the Authorization of an Investigation into the Situation in the Republic of Kenya”,31 Marzo 2010, ICC-01/09, §90.

[82] Nella fattispecie, per assegnare un budget drasticamente inferiore e ridurre le imbarcazioni disponibili per le operazioni SAR, al fine precipuo di collocarle in una zona abbastanza distante dall’area critica, tale da rendere vana e troppo lenta qualsiasi risposta – come precedentemente considerato.

[83] Vedi nota n. 69

[84] Per configurare la fattispecie criminosa di omicidio non è infatti necessario un comportamento positivo, ma è sufficiente il mancato adempimento all’obbligo di assistere i civili in situazioni di grave pericolo, come quelle di cui al presente caso.

[85] Vedi: UN doc. A/CONF.183/C.I/WG.GP/L.1

[86] Vedi: Prosecutor v Stanislav Galic, Appeals Chamber, “Judgement”, 30 November 2006, IT-98-29-A, §175

[87] Deportazione e trasferimento forzato sono due concetti distinti, in quanto il primo implica il trasferimento da uno Stato all’altro, mentre il secondo prevede un più generale trasferimento da un luogo ad un altro.

[88] Se l’aggettivo ‘forzato’ lascia sicuramente intendere una mancanza di volontà, tuttavia, come affermato in seno al Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, “un apparente consenso indotto dalla forza o dalla minaccia della forza non dev’essere considerato un reale consenso”. Vedi: Prosecutor v Blagoje Simić et al., Trial Chamber, “Trial Judgement”, 17 Ottobre 2003, It-95-9, § 125; Vedi anche Prosecutor v Milorad Krnojelac, Trial Chamber II, “Trial Judgement”, 15 Marzo 2002, IT-97-25, § 475, fn. 1435.

[89] Essendo la Libia stata decretata, da una sentenza della Corte EDU del 2012, come “unsafe place”, o “porto non sicuro”, a fortiori sussiste un diritto di determinarsi in un luogo diverso.

[90] L’imprigionamento può essere considerato arbitrario anche quando le condizioni detentive implichino un trattamento crudele, inumano e degradante, come nel presente caso.

[91] Secondo tale disposizione, “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto. Nessuno può essere privato della propria libertà, se non per i motivi e secondo la procedura previsti dalla legge. 2. Chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento del suo arresto, dei motivi dell’arresto medesimo, e deve al più presto aver notizia di qualsiasi accusa contro di lui. 3. Chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un’accusa di carattere penale deve essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice o ad altra autorità competente per legge ad esercitare funzioni giudiziarie, e ha diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato. La detenzione delle persone in attesa di giudizio non deve costituire la regola, ma il loro rilascio può essere subordinato a garanzie che assicurino la comparizione dell’accusato sia ai fini del giudizio, in ogni altra fase del processo, sia eventualmente, ai fini della esecuzione della sentenza. 4. Chiunque sia privato della propria libertà per arresto o detenzione ha diritto a ricorrere ad un tribunale, affinché questo possa decidere senza indugio sulla legalità della sua detenzione e, nel caso questa risulti illegale, possa ordinare il suo rilascio. 5. Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo”.

[92] Tra i quali, si veda il Rapporto UNSMIL emanato il 7 gennaio 2019, online: https://unsmil.unmissions.org/sites/default/files/sg_report_on_unsmil_s_2019_19e.pdf

[93] L’art. 7, par. 2, lett. e) intende per ‘tortura’ “l’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, ad una persona di cui si abbia la custodia o il controllo; in tale termine non rientrano i dolori o le sofferenze derivanti esclusivamente da sanzioni legittime, che siano inscindibilmente connessi a tali sanzioni o dalle stesse incidentalmente occasionati”.

[94] si veda il già citato Rapporto UNSMIL emanato il 7 gennaio 2019, online: https://unsmil.unmissions.org/sites/default/files/sg_report_on_unsmil_s_2019_19e.pdf

[95] Così lasciano supporre i legali al punto 906 della denuncia: “In the context of the present case, this rule means the Prosecutor should not only investigate those who directly perpetrated these crimes, namely Libyan agents, members of various militias and pseudo-governmental bodies, but also the complex structures of power that designed the policy with the objective to avoid criminal liability for its rulers that structured and nourished their action”.

[96] Inoltre, come sopra esposto, l’Unione Europea e i suoi Stati membri esercitano un controllo effettivo e completo sulle vie del Mediterraneo centrale percorse dai civili nel tentativo di fuggire dagli abusi delle terre d’origine. Il controllo funzionale europeo non si è limitato alle proprie acque territoriali, ma si è dimostrato capace di influenzare anche l’operato nelle acque internazionali che separano l’Europa dalla Libia. Conseguentemente, è opportuno ritenere che le azioni della GC libica siano state non solo facilitate dall’Unione Europea nel periodo preso in esame, ma siano state da essa autorizzate, tale da poter ritenere che le autorità libiche non sarebbero state in grado di agire senza l’attività di sostegno europea.

[97] L’autorità libica che gestisce i centri di detenzione.

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