giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Maltrattamenti in famiglia e violenza privata: concorso o assorbimento?

1.  Premessa

La tematica dei maltrattamenti in famiglia ha, negli ultimi anni, sempre di più interessato la casistica dei Tribunali e conseguentemente della giurisprudenza di legittimità, oltreché l’opinione pubblica.

I casi portati all’attenzione dell’organo giudicante rappresentano solamente una parte di quelli che accadono nella quotidianità e che generano un sommerso di difficile individuazione.

Consapevole di tale fenomeno anche il legislatore italiano ha posto in essere – come molto spesso accade non tanto per presa di coscienza, ma sulla scia di alcuni casi mediatici – delle riforme ad un codice che tendeva a non occuparsi delle questioni familiari. Per sua stessa struttura intrinseca infatti, il nostro codice penale, fin dagli albori nell’epoca fascista, ha sempre cercato di evitare di intromettersi nelle questioni attinenti alla vita familiare e di relazione.

La pretesa punitiva dello Stato quindi si fermava e arretrava di fronte al fulcro familiare, in quanto il Legislatore voleva evitare di andare a sanzionare penalmente delle condotte che attenevano strettamente alla vita familiare.

2. Lo stato dell’arte.

La L. 15 ottobre 2013 n. 119 (c.d. legge sul femminicidio) ha introdotto all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. una circostanza aggravante applicabile quando, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché in relazione al delitto di cui all’articolo 572 c.p., il fatto fosse commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza. Dalla medesima disposizione è inoltre ricavabile la definizione di violenza domestica, che comprenderebbe cioè: “tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

La vera e più incisiva modifica è arrivata con L. 19 luglio 2019, n. 69  “Tutela delle vittime di violenza domestica o di genere”, c.d. Codice rosso, che ha apportato delle consistenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale.

Il legislatore individua un catalogo di reati attraverso i quali si esercita la violenza domestica e di genere e, in relazione a queste fattispecie, interviene sul codice di procedura penale al fine di velocizzare l’instaurazione del procedimento penale e, conseguentemente, accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime. Il provvedimento, inoltre, incide sulla stessa disciplina sostanziale, prevedendo ora l’inasprimento della cornice edittale di taluni reati, ora la rimodulazione di alcune circostanze aggravanti, ora infine l’introduzione di alcune nuove fattispecie incriminatrici.

L’art. 9 L. 69/19 interviene sui delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, prevedendo l’aumento della pena per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi; l’attuale pena della reclusione da 2 a 6 anni viene sostituita con la reclusione da 3 a 7 anni.

È inoltre prevista una fattispecie aggravata quando il delitto di maltrattamenti è commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, ovvero se il fatto è commesso con armi; in questi casi la pena è aumentata fino alla metà. Sussiste anche un sensibile aumento della pena per il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.): l’attuale pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni viene sostituita con quella della reclusione da un anno a 6 anni e 6 mesi.

Vi poi è l’inserimento del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) nell’elenco dei delitti che consentono, nei confronti degli indiziati, l’applicazione di misure di prevenzione.

Proprio di recente, inoltre, il legislatore ha inteso apportare delle ulteriori modifiche all’attuale disciplina vigente, con il nuovo disegno di legge in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne (A.S. 2530). Tale modifica si è resa necessaria in quanto, all’interno della disciplina del codice rosso, permangono alcune discrasie e vuoti normativi.

In particolare si è evidenziato la sussistenza di grave difetto di coordinamento normativo tra l’introduzione dell’obbligatorietà dell’arresto in flagranza per il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla p.o. di cui all’art. 387-bis c.p. (art. 380, comma 2, lett. l-ter c.p.p.) e la mancata modifica delle norme che disciplinano le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali – che viceversa non consentono l’adozione di alcuna misura cautelare per tale reato, in ragione dei suoi limiti edittali, inferiori ai requisiti di pena necessari per l’applicabilità delle misure coercitive (art. 280 c.p.p.) – obbligando così l’autorità giudiziaria all’immediata liberazione degli arrestati, senza poter procedere all’applicazione di alcuna misura coercitiva nei loro confronti (artt. 121 disp. att. e 391, comma 6, c.p.p.).

Ad attenta analisi della norma vengono apportate importanti modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione e ad alcune leggi speciali.

Una prima e significativa novità concerne l’ammonimento questorile per condotte di violenza domestica disciplinato dall’art. 3 D.L. 14 agosto 2013, n. 93, attualmente previsto per i soli reati di percosse e lesioni (artt. 581 e 582 c.p.); tale atto viene esteso ad ulteriori condotte prodromiche che rappresentano un campanello d’allarme, rispetto a forme di violenza più gravi.

In tal senso tale procedura di natura amministrativa può trovare applicazione anche per i reati, consumati o tentati, di violenza privata (art. 610 c.p.), minaccia aggravata (art. 612 comma 2 c.p.), violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e danneggiamento (art. 635 c.p.), nonché a tutti i casi in cui, a prescindere dal titolo di reato, gli atti di violenza domestica siano commessi in presenza in minorenni[1].

Il nuovo D.D.L. in ossequio alla disposizione  di cui all’art. 8, comma 3, D.L. 11/2009 in relazione al reato ex art. 612-bis c.p., se commesso da soggetto già ammonito, introduce una nuova circostanza aggravante ad effetto comune  per i reati di cui agli artt. 581, 582, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p. se commessi nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito, nonché la procedibilità d’ufficio per i reati di cui agli artt. 581, 582 comma 2, art. 612 comma 2, prima ipotesi, 614 commi 1 e 2 c.p., qualora il fatto sia commesso nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito.

L’art. 1 D.D.L. estende inoltre la misura dell’ammonimento questorile previsto per il reato di atti persecutori di cui all’art. 8 D.L. 11/2009 ai reati di violenza sessuale procedibili a querela di cui all’art. 609-bis c.p., prevedendo anche per questi ultimi lo stesso aggravamento di pena e la procedibilità d’ufficio se commessi da soggetto che sia stato già ammonito[2].

Lo schema di D.D.L. interviene poi sul codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, estendendo il catalogo dei soggetti dotati di pericolosità qualificata di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-ter), a cui saranno applicabili le misure di prevenzione personali.

In particolare, l’art. 4 D.D.L. aggiunge ai soggetti pericolosi gli indiziati dei delitti di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p., nonché anche gli indiziati dei delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 575, 583-quinquies e 609-bis c.p., nonché i soggetti che, già ammoniti dal Questore ai sensi dell’art. 3 D.L. 14 agosto 2013, n. 93, siano indiziati dei delitti di cui agli artt. 581, 582, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p., commessi nell’ambito di violenza domestica[3].

Viene in tal modo estesa anche ai soggetti indiziati di altri gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni di violenza di genere e ai soggetti che, già ammoniti dal Questore, risultino indiziati dei delitti di percosse, lesioni, violenza privata, minaccia aggravata, violazione di domicilio e danneggiamento, se commessi nell’ambito di violenza domestica.

Con riferimento alle modifiche al codice di procedura penale, l’art. 2 D.D.L. sopprime l’inciso contenuto nell’art. 275-bis, comma 1, c.p.p. che subordina l’applicazione del braccialetto elettronico alla previa verifica, da parte del giudice, della loro disponibilità materiale in capo alla p.g.-

Sempre l’art. 2 D.D.L. mira poi a modificare l’art. 276, comma 1-ter, c.p.p. relativo alla trasgressione delle prescrizioni imposte con la misura cautelare degli arresti domiciliari, prevedendo la revoca della stessa e l’applicazione della custodia cautelare in carcere non soltanto in caso di allontanamento dal luogo di sottoposizione agli arresti, ma anche in caso di manomissione dei dispositivi elettronici di controllo[4].

Viene infine superata la problematica inerente il rapporto tra l’art. 282-bis c.p.p. e l’art. 282-ter c.p.p., estendendo anche al secondo le previsioni già contenute nell’art. 282-bis, comma 6, c.p.p. che consentono, nel caso in cui si proceda per i reati di cui agli artt. 570, 571, 572, 582 limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-septies.1, 600-septies.2, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, art. 612 comma 2 e 612-bis c.p., di disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla p.o. e ai luoghi dalla medesima frequentati anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p.-

L’art. 5 D.D.L. concerne poi le disposizioni relative alle comunicazioni che devono essere effettuate dall’autorità giudiziaria alle vittime dei reati violenti in ordine ai provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, nonché in caso di evasione dell’imputato o del condannato o della volontaria sottrazione all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva da parte dell’internato. In tal senso la disposizione di cui all’art. 90-ter, comma 1, c.p.p. viene modificata facendo generico riferimento a tutti i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva emessi nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato o dell’internato, mentre viene contestualmente abrogata la disposizione di cui al comma 1-bis dell’art. 659 c.p.p.[5]-

Sempre sotto il versante processuale, l’art. 6 disciplina il fermo del PM o, in caso di urgenza, della polizia giudiziaria, della persona gravemente indiziata dei delitti di maltrattamenti, lesioni o atti persecutori ovvero di qualsiasi altro delitto commesso con violenza o minaccia alla persona punito con la pena dell’ergastolo o superiore nel massimo a tre anni, qualora vi sia il grave ed imminente pericolo che l’indiziato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale e, per l’urgenza, non sia possibile attendere il provvedimento del giudice.

Per l’applicazione di tale misurerà occorrerà la sussistenza di uno dei reati tipizzati o di qualsiasi altro delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona e punito almeno con pena superiore a tre anni di reclusione, la sussistenza di un quadro indiziario grave, l’imminente pericolo dell’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, nonché l’impossibilità, per l’urgenza, di attendere il provvedimento del giudice. Per il reato di cui all’art. 387-bis c.p., viene prevista la possibilità di effettuare il c.d. arresto in flagranza differita.

L’art. 8 D.D.L. infine equipara la violazione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari emessi dal giudice civile di cui all’art. 342-ter c.c. alla violazione degli analoghi provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento alla p.o. adottati dal giudice penale, prevedendo per entrambe le ipotesi l’integrazione del reato di cui all’art. 387-bis c.p.-

3. Sul delitto di maltrattamenti in famiglia.

Brevemente, il reato di maltrattamenti è un delitto a forma libera, perpetrabile esclusivamente all’interno di precisi rapporti tra agente e vittima e genericamente riferibile a qualunque comportamento caratterizzato dalla commissione nel tempo di atti di sopraffazione, tali da offendere la personalità del soggetto passivo e causare la degenerazione del rapporto nel cui alveo sono posti in essere.

La condotta tipica, che può manifestarsi sia in forma commissiva che mediante omissioni laddove il soggetto agente ometta di tenere un determinato e doveroso comportamento, deve essere caratterizzata dal requisito dell’abitualità, cioè della continuità e ripetitività di atti vessatori, giacché il legislatore ha inteso sanzionare la lesione dell’integrità psico-fisica, del patrimonio morale, della libertà e del decoro del soggetto passivo.

Lo stesso elemento psicologico del reato non postula la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria idonea a ledere la personalità della persona offesa.

Orbene, come noto, i maltrattamenti in famiglia rappresentano – da un punto di vista prettamente dottrinale[6] – un classico esempio di reato abituale.

Tale istituto si caratterizza in quanto il fatto tipico è descritto come una serie di condotte omogenee ripetute nel tempo; la ripetizione qualifica l’offensività, in quanto isolati ed occasionali atti lesivi non sono ritenuti sufficienti a compromettere il bene giuridico protetto.

Le condotte devono pertanto caratterizzarsi per frequenza e convergenza, oltre che per pluralità in quanto l’abitualità del reato implica la sua necessaria protrazione per un periodo di tempo apprezzabile, con la conseguenza che ogni condotta si salda con le precedenti in un unico fatto. Per tale ragione sono evidenziabili due momenti: la perfezione, che si raggiunge una volta per tutte quando viene realizzato il numero minimo di condotte necessario per integrare il reato, e la consumazione, che si verifica invece dopo la realizzazione di ciascuna ulteriore condotta, ed è pertanto suscettibile di ripetersi un numero indeterminato di volte[7].

In tal senso anche la giurisprudenza di legittimità[8] ha più volte affermato che i maltrattamenti in famiglia integrino un’ipotesi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di condotte, per lo più commissive, le quali isolatamente considerate potrebbero anche essere non punibili (come gli atti di infedeltà), ma  acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

Come evidenziato, infatti, il reato si perfeziona quando si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità, di tal che ogni successiva condotta di maltrattamento si riallaccia a quelle in precedenza realizzate; ovviamente affinché si abbia abitualità è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persistente azione nocumentale nei confronti della vittima.

4. Sulla violenza privata.

La violenza privata è il delitto previsto e punito dall’art. 610 c.p., che si configura quando un soggetto, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa.

La condotta quindi consiste nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’utilizzo della violenza personale fisica (propria o impropria), ovvero della violenza personale psichica (minaccia) attiva o omissiva.

La pena prevista è la reclusione fino a quattro anni, aumentata se concorrono le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 c.p., se la violenza o la minaccia sono commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.

Una autorevole dottrina[9] ha sostenuto che soggetti passivi del delitto di violenza privata possano essere soltanto coloro che sono muniti della capacità naturale (anche se non giuridica) di volere. Coloro che, viceversa, ne siano sprovvisti, potrebbero al più considerarsi oggetto (materiale) della figura delittuosa de qua; soggetti passivi potrebbero esserne, se ed in quanto esistenti, gli eventuali rappresentanti legali delle suddette persone (naturalisticamente) incapaci di volere. L’assunto si fonda sul seguente fondamento logico: posto che nella libertà del volere — e, più specificamente, in quella afferente alla estrinsecazione della stessa — deve ravvisarsi l’oggettività giuridica del delitto contemplato dall’art. 610, in capo a coloro che sono sprovvisti della capacità di volere non potrebbe riconoscersi la titolarità del bene giuridico a protezione del quale è posto il delitto di violenza privata.

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, tramite violenza o minaccia, a fare, tollerare o omettere qualcosa.

In relazione agli aspetti procedurali, il reato di violenza privata è procedibile d’ufficio e la competenza spetta al tribunale in composizione monocratica.

Sono previsti l’arresto facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.), nonché l’applicabilità delle misure cautelari personali (artt. 280 e 287 c.p.p.), mentre non è consentito il fermo di indiziato di delitto.

5. Profili di concorso tra i due delitti: l’ultimo orientamento della Cassazione.

Esaminate le caratteristiche di entrambi i delitti, è ora opportuno analizzare una recente sentenza[10] della Corte di Cassazione circa la possibilità che sussista un concorso di reati e non un mero assorbimento.

La pronuncia origina dal ricorso per cassazione presentato dal difensore dell’imputato contro la sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato quella del Tribunale con la quale l’imputato era stato ritenuto responsabile per i reati di cui all’art. 572 c.p., (capo a), in esso assorbito il fatto contestato al capo b); artt. 582,585 e 576 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 (capo a-bis); 610 c.p. (capo c); 570, comma 2, c.p. (capo d).

Il gravame si basava sulla violazione di legge, in relazione all’art. 576 c.p. e art. 61 c.p., n. 2, e vizio di motivazione, violazione di legge, in relazione agli artt. 572 e 610 c.p., e vizio di motivazione e violazione di legge, in relazione all’art. 125 c.p.p., artt. 163 e 164 c.p., e mancanza di motivazione.

Per quanto attiene al motivo di interesse per la presente trattazione, la Corte ha ritenuto che il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. non possa trovare applicazione con riferimento agli art. 572 e 610 c.p.-

Difatti il criterio di cui all’art. 15 c.p. richiede, ai fini della individuazione della disposizione ipoteticamente prevalente, che il presupposto della convergenza di norme possa ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.

Tali condizioni di convergenza non sono riconoscibili tra le due fattispecie in argomento, considerato che nell’art. 610 c.p. la condotta è costituita dal compimento istantaneo di atti violenti o minacciosi e l’evento è rappresentato dalla privazione temporanea della libertà morale della persona offesa, costretta a fare, tollerare o omettere qualche cosa, mentre nell’art. 572 c.p. si parla più genericamente di comportamenti abituali di maltrattamenti, senza l’indicazione di uno specifico evento. Dunque, è da escludersi, per tale raffronto, che esista una norma speciale che prevale su una generale, cioè che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante.

La Suprema Corte ritiene che non possa nemmeno trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 84 c.p. in quanto è la legge che deve stabilire la sussistenza degli elementi strutturali indicati da tale articolo, e cioè che un elemento costitutivo o una circostanza aggravante di un reato sia rappresentato da fatti che la legge considera di per se stessi come reati: di talché non è sufficiente che in concreto la realizzazione di un reato si sia sviluppata occasionalmente attraverso un diverso reato, che, lungi dall’essere previsto legislativamente come elemento costitutivo o circostanza aggravante del secondo, costituisce solamente una particolare modalità di esecuzione del fatto integrante l’altro reato.

La Corte afferma quindi che: “I due profili vanno, dunque, valutati congiuntamente: solo se è la legge a prevedere espressamente la struttura tipica del reato complesso – dunque a stabilire che l’elemento costitutivo o una circostanza aggravante di un reato costituiscano essi stessi gli elementi integranti di altro reato – si può passare ad esaminare il profilo della contestualità spaziale, temporale e finalistica dei fatti; se la legge non prevede gli elementi strutturali tipici del reato complesso, ma dovesse ravvisare – come nella specie è accaduto – una forma di connessione solo occasionale, perché la commissione di un reato (quello di violenza privata) risulta in concreto una particolare modalità di esecuzione dell’altro reato (quello di maltrattamenti), manca in radice la possibilità di applicare l’art. 84 c.p. ed è inutile passare a valutare l’esistenza degli ulteriori indicati requisiti di contestualità”.

In conclusione quindi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di giudizio della parte civile.

 

[1] G. Pestrelli, Il Governo corre ai ripari sul “codice rosso”: nuovo d.d.l. sulla violenza domestica, in Quotidiano Giuridico, 03.03.2022

[2] Sempre sotto il profilo degli strumenti di prevenzione dei fenomeni di violenza domestica, l’art. 1 D.D.L. amplia anche il novero dei reati a cui si applicano gli obblighi informativi previsti dall’art. 11D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, per i quali le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che ricevono dalle vittime la notizia di aver subito delitti a base violenta sono tenuti a dare alle stesse tutte le informazioni sulle misure a loro tutela. In particolare, accanto ai reati – già previsti dalle norme in vigore – di cui agli artt. 581, 582, 572, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., il D.D.L. aggiunge i reati di cui agli artt. 583-quinquies, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p., nonché il reato di tentato omicidio di cui agli artt. 56 e 575 c.p., nel caso in cui siano commessi nell’ambito di episodi di violenza domestica, al novero delle ipotesi in cui scatta l’obbligo per le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche di fornire informazioni alla vittima di tali reati sui centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella zona di residenza della stessa, nonché di metterla direttamente in contatto con tali strutture, ove essa ne faccia espressa richiesta.

[3] F. Martin, Nuovi profili normativi e giurisprudenziali sul reato di maltrattamenti in famiglia: il requisito dell’abitualità, in Ius in itinere, 22.03.2022.

[4] L’art. 2 D.D.L. interviene altresì direttamente sulla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prevista dall’art. 282-bis c.p.p., da un lato inserendo tra le ipotesi che la consentono sempre, anche fuori dai limiti di pena di cui all’art. 280 c.p.p., quella del tentato omicidio (previsione a ben vedere del tutto inutile, sia in considerazione della cornice edittale del reato, di gran lunga superiore a tale limite, sia perché in genere tale fattispecie impone l’adozione di misure cautelari ben più incisive); dall’altro, disponendo invece che, «con lo stesso provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo» mediante il braccialetto elettronico.

[5]  G. Pestrelli, Op. cit.-

[6] F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 270 ss.; S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, p. 292; G. Cocco, Manuale di diritto penale. Parte generale, Padova, 2012, p. 53; G. Fiandaca, E. Musco,Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, p. 215 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte Generale, Padova, 2020, p. 497 ss.; G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2020, p. 284 ss.

[7] A. Beccu, L’abitualità del reato di maltrattamenti in famiglia e i suoi corollari, in Sist. Pen., n. 7, 2020, p. 185.

[8] Cass. pen., sez. VI, 19.10.17, n. 56961; Cass. pen., sez. III, 22.11.17, n. 6724; Cass. pen., sez. III, 20.03.18, n. 46043; Cass. pen., sez. VI, 09.10.18, n. 6126.

[9] V. Manzini, Trattato di diritto penale, Vol. IIX, Torino, 1986.

[10] Cass. Pen., Sez. VI, 08.06.2022, n. 22413.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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