Marketing legale e codice deontologico forense: il caso DC Legal Show
Sommario: 1. Il caso “DC Legal Show” – 2. Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza: gli artt. 2 e 9 CDF – 3. La pubblicità dell’Avvocato: gli artt. 17, 35 e 37 CDF – 4. Conclusioni
Il caso “DC Legal Show”, che ha scosso l’avvocatura torinese nel gennaio 2022, permette di riflettere sui profili deontologici del marketing legale, in particolare sul modo in cui gli avvocati possono pubblicizzare se stessi e la propria attività sui social come veri e propri influencer.
1. Il caso “DC Legal Show”
“1 città magica (Torino), 2 avvocatesse, la loro vita, il mondo legal. Lo show legale diventerà realtà”. Si presenta così – e scatena la bufera – la pagina Instagram “DC Legal Show”[1] dell’Avv. Alessandra Demichelis, inizialmente condivisa con la collega Avv. Federica Cau. Dopo la tempesta, compare, oltre ad un post relativo al passo indietro di quest’ultima, anche un’ulteriore dicitura nella bio: l’individuazione di una social media manager che si occuperà professionalmente della gestione del profilo, scelta in effetti prevedibile dopo il clamore mediatico che la pagina ha sollevato, nonché sintomo, apparentemente, di un nascente progetto editoriale e di digital marketing legale.
Ma andiamo con ordine. La vicenda, riportata da numerose testate giornalistiche nel mese di gennaio 2022[2], si impone come uno dei primi gossip del nuovo anno sulla scena Torinese e poi nazionale. Le due avvocatesse postano inizialmente scatti che le ritraggono, talvolta spensierate e sorridenti, talvolta determinate e affascinanti, in outfit griffati, per poi iniziare, una volta raccolti più followers, a condividere anche contenuti di carattere giuridico presentati in modo semplice e divulgativo, alternati a stories e post più modaioli. Un modo di pubblicizzare se stesse e la propria attività sui social o solo un vezzo modaiolo?
In ogni caso, l’Ordine degli Avvocati di Torino non gradisce e convoca le professioniste per un colloquio teso a verificare la conformità dell’iniziativa alle regole imposte ai professionisti dal Codice Deontologico Forense. Questa mossa, definita dalle rappresentanti del DC Legal Show “too much per una cosa così insulsa” (cit.[3]), si risolve nella cancellazione delle stesse dal sito dello Studio Legale con cui collaboravano, in un passo indietro da parte dell’Avv. Cau dalla gestione della pagina, nell’avvio di un procedimento istruttorio da parte dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo piemontese ma, ciliegina sulla torta, in un clamore mediatico non indifferente, con notevole aumento di articoli che riportano la notizia e soprattutto di follower sulla pagina[4].
Il “mondo legale” è stato più volte spettacolarizzato dagli show televisivi. Come insegnano le storie avvincenti che coinvolgono gli elegantissimi e griffati protagonisti di spettacoli come, ad esempio, “Suits”, non è tanto la sacralità della toga ad attirare l’attenzione, quanto piuttosto l’aria di determinazione e sicurezza che, in questo genere di spettacoli, avvolge la figura degli avvocati. Essi, infatti, sono rappresentati come i protagonisti di vite estremamente interessanti, eleganti e stimolanti, scandite da battaglie che nell’immaginario collettivo vengono combattute all’ultimo sangue con arringhe passionali e mosse machiavelliche, il tutto immerso in quell’aura mistero che nasce dal segreto professionale.
Il più delle volte, le vite dei professionisti, a modo loro, sono tutto questo o, almeno, lo sono in parte. Ma fino a che punto è consentito parlarne, in che modo e con che limiti?
Il caso delle avvocatesse torinesi offre un interessante spunto di riflessione sulle modalità con cui l’avvocato può pubblicizzare se stesso e la propria attività, in particolar modo su internet. In particolare, le correnti di approfondimento che si delineano sono due: il rispetto dei “doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza” imposti dal Codice Deontologico Forense, e le modalità con cui lo stesso norma la pubblicità dell’attività professionale degli Avvocati.
2. Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza: gli artt. 2 e 9 CDF
La conformità della condotta dell’avvocato al Codice Deontologico Forense, in ragione di quanto previsto dall’art. 2 CDF, rappresenta un metro di misura delle azioni dei professionisti non solo nell’ambito della vita lavorativa, nei reciproci rapporti e in quelli con i terzi; le norme del Codice, infatti, si applicano anche ai comportamenti tenuti dall’avvocato nella vita privata, “quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense”.
Alla luce di questa premessa, è possibile comprendere, dunque, perché l’Ordine degli Avvocati abbia ritenuto di intervenire in una questione che potrebbe apparire “personale” quale la gestione di un profilo sui social.
Se è vero infatti che, ai sensi dell’art. 9 comma 1 CDF, è dovere dell’avvocato “esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”, al comma 2 la stessa norma impone al professionista, anche al di fuori dell’attività professionale, di “osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense”.
Gli stessi doveri erano imposti agli Avvocati anche in forza dell’art. 5 del CDF previgente, sostituito da quello attuale il 15 dicembre 2014. L’art. 5 non più in vigore, inoltre, prevedeva che l’Avvocato fosse “soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense” [5].
Risalente è, quindi, l’influenza degli Ordini Professionali nelle vite private degli avvocati. Negli anni non sono mancate pronunce in merito, che meglio hanno chiarito il perimetro di operatività delle norme in esame. La gran parte delle sentenze che rimarcano l’importanza del rispetto dell’attuale art. 9 CDF e dell’art. 5 CDF prev. da parte dei professionisti hanno riguardo al rispetto dei citati doveri nell’ambito dello svolgimento della propria attività professionale; tuttavia, non mancano i casi in cui, nel tempo, è stata sottolineata dal Consiglio Nazionale Forense la pari rilevanza del comma 2 di tale norma, che fa riferimento alle condotte tenute in privato dall’avvocato.
Con la sentenza del 3 luglio 2017, n. 75, il CNF ha precisato che
“deve ritenersi disciplinarmente responsabile l’avvocato per le condotte che, pur non riguardando strictu sensu l’esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro (art. 9 ncdf, già art. 5 cod. prev.) e, riflettendosi negativamente sull’attività professionale, compromettono l’immagine dell’avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria. Deve conseguentemente ritenersi deontologicamente rilevante il comportamento dell’avvocato che, approfittando dell’altrui stato di bisogno, si offra di prestare denaro contante ad un elevato tasso di interesse (nella specie, 10% trimestrale) ed emetta assegni privi di provvista”.
In questa circostanza, il CNF ha confermato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di mesi dodici inflitta al professionista dall’Ordine di appartenenza.
Ancora, con sentenza del 12 luglio 2016, n. 192 il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato l’appello di un avvocato contro la pronuncia del Consiglio di Disciplina del proprio Ordine di appartenenza, e, successivamente, anche la Suprema Corte si è espressa in maniera concorde sul punto (Sent. Cass. Civ., Sezioni Unite, n. 4994 del 02.03.2018). È stata infatti confermata la sanzione della censura imposta al legale
“per avere usato in una memoria difensiva, quale coimputato con la moglie, un’espressione riferita letteralmente all’incurabilità del male da cui era affetta la persona con cui aveva un rapporti conflittuali, originati da sfratto per morosità e da cui era derivata anche la causa penale”. Ciò poiché “in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, l’illecito contemplato dall’art. 5 del previgente codice deontologico rimane integrato in ogni ipotesi di violazione dell’obbligo deontologico di probità, dignità e decoro, sia quando l’avvocato agisca in qualità diversa da quella professionale sia – ed a “fortiori” – nell’esercizio del suo ministero”[6].
3. La pubblicità dell’Avvocato: gli artt. 17, 35 e 37 CDF[7]
L’avvocatura nazionale si è dotata un rigido regolamento in materia di pubblicità realizzata dall’avvocato attraverso le norme imposte dal Codice Deontologico Forense. Il riferimento va agli artt. 17, 35 e 37 CDF, la cui analisi permette di meglio calibrare il perimetro dei contenuti pubblicabili sul web e di comprendere quali pubblicazioni potrebbero esporre l’avvocato al rischio di una sanzione disciplinare.
Prima di giungere al cuore della questione, risulta utile sottolineare come il tema della pubblicità rappresenti una sorta di innovazione per il mondo dell’avvocatura: in passato, infatti, il codice deontologico forense del 1997, ora non più vigente, non ammetteva per gli avvocati la possibilità di pubblicizzare la propria attività professionale, salvo consentire di indicare la materia o le materie di cui il professionista si occupava nell’ambito della propria attività professionale.
Con le successive riforme, in particolare con le modifiche introdotte il 16 ottobre 1999 e il 12 giugno 2008, le informazioni sull’attività professionale dell’avvocato sono state disciplinate più nel dettaglio, con l’aggiunta, oltre al riformato art. 17 CDF, dell’art. 17 bis CDF. In tale contesto era consentito all’avvocato “dare informazioni sulla propria attività professionale”, purché il contenuto e la forma dell’informazione fossero “coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività” e rispondessero “a criteri di trasparenza e veridicità, il rispetto dei quali è verificato dal competente Consiglio dell’Ordine”. Quanto al contenuto, l’informazione doveva essere conforme a verità e correttezza e non avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale né il nome dei clienti dell’avvocato. Quanto invece alla forma e alle modalità, l’informazione doveva essere strutturata in modo da rispettare la dignità e il decoro della professione e, come precisava l’art. 17 bis, l’avvocato doveva indicare la denominazione dello Studio e i nominativi dei professionisti che lo componevano e del Consiglio dell’Ordine presso il quale erano iscritti, le sedi e i recapiti e, facoltativamente, “i titoli accademici; i diplomi di specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari; l’abilitazione a esercitare avanti alle giurisdizioni superiori; i settori di esercizio dell’attività professionale e, nell’ambito di questi, eventuali materie di attività prevalente; le lingue conosciute; il logo dello studio; gli estremi della polizza assicurativa per la responsabilità professionale; l’eventuale certificazione di qualità dello studio”. L’avvocato, in base al previgente Codice Deontologico Forese, poteva utilizzare esclusivamente siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo Studio Legale Associato o alla Società di Avvocati alla quale partecipava, previa comunicazione tempestiva al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto degli stessi, obbligo di comunicazione oggi non più in vigore. Era fatto infine divieto, a norma dell’art. 17 bis CDF previgente, di inserire nel sito riferimenti commerciali e/o pubblicitari mediante l’indicazione diretta o tramite banner o pop-up di alcun tipo.
Anche il Codice Deontologico attualmente vigente, nella versione del 2014 e successive modifiche, in particolare quella introdotta nel 2016, disciplina la materia de quo. Si fa riferimento, in particolare, agli att. 17, 35 e 37 CDF.
Quanto alla prima delle norme citate, la lettera dell’art. 17 CDF dispone che sia consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello Studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti. Ciò, fermo restando che le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative e, in ogni caso, le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
Quanto invece all’art. 35 CDF, esso impone all’avvocato, qualunque sia il mezzo utilizzato per rendere informazioni sulla propria attività professionale, di rispettare i doveri di corretta informazione consistenti in “verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale” nonché i principi di dignità e decoro della professione. Esso impone altresì di non dare informazioni comparative con altri professionisti, né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale. Resta ferma, come in passato, l’indicazione del titolo professionale, della denominazione dello Studio e dell’Ordine di appartenenza, e il divieto di rivelare i nomi dei clienti nonostante l’eventuale consenso di questi ultimi. La violazione dei doveri appena descritti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
Alla luce delle norme citate, dunque, la pubblicità realizzata dall’Avvocato deve intendersi come volta a rendere una informazione della propria attività, che può essere effettuata sia nella forma informatica, sia tradizionale, che rispetti le modalità descritte dal Codice Deontologico e che non sia tesa all’accaparramento di clientela, divieto sancito dall’art. 37 CDF. Anche in questo caso, la violazione di tale divieti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
La giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense ha, negli anni, dato concreta applicazione alle norme in parola, rendendo anche soluzioni ai singoli casi utili ai fini interpretativi delle norme.
Ad esempio, con la sentenza n. 208 del 18 dicembre 2017, il CNF ha rinvenuto una violazione delle norme suesposte con riguardo ad un caso di affissione di manifesti pubblicitari nelle vie della città di Napoli e pubblicazioni sui principali giornali cittadini, che diffondevano un messaggio contenente (i) la frase “un grande studio legale fa infortunistica stradale SERIAMENTE”, che rappresenterebbe un caso di pubblicità comparativa; (ii) la frase “nessuna spesa di istruttoria”, locuzione che potrebbe essere interpretata in modo equivoco e che lascerebbe intendere la totale gratuità della prestazione professionale, in violazione degli obblighi di correttezza e trasparenza nei rapporti tra Avvocato e Cliente; (iii) la frase “totale supporto in ogni fase del procedimento” che parrebbe lasciare intendere in tale attività un quid pluris rispetto agli obblighi imposti all’Avvocato, quando essa deve intendersi connaturata al corretto esercizio della professione forense. Il CNF, a riguardo, così si esprime:
“nella sua interezza, ed anche nella sua “atomizzazione” il messaggio evidenzia il mancato rispetto dei canoni trasparenza e correttezza indispensabili per la tutela dei soggetti cui il messaggio si riferisce: esso è di conseguenza idoneo a violare la dignità e il decoro della professione che deve manifestarsi anche in relazione alle modalità con cui vengono veicolati i messaggi pubblicitari non essendo decoroso e tanto meno dignitoso ricorre a forme di comunicazione ingannevoli ed autoelogiative anche nella rappresentazione fotografica. Dalla lettura del messaggio si deduce che le ragioni che dovrebbero indurre un potenziale cliente a rivolgersi allo studio professionale riguardano la serietà dallo stesso implicitamente vantata come requisito “esclusivo” non posseduto da altri studi e le condizioni offerte in relazione alla “fase istruttoria”, sotto il profilo economico e alle altre fasi del procedimento sotto quello della qualità della assistenza. Il riferimento ad una fase istruttoria non meglio definita, rivolta a persone che non necessariamente hanno dimestichezza con le prassi di gratuità invocate dalla difesa, ed il riferimento ad un non meglio identificato “totale supporto in ogni fase del procedimento”, come se questo fosse effettivamente qualcosa in più rispetto al comportamento che l’Avvocato è tenuto a mantenere sempre e comunque, rendono l’intero messaggio non trasparente e potenzialmente ingannevole.”.
Ancora, il CNF con la sentenza n. 49 del 29 aprile 2017 ha rilevato una violazione delle norme predette nella condotta dell’Avvocato che si proclamava “specialista assoluto”.
“L’eccellenza a tutto campo “reclamizzata” sul sito”, si legge nella sentenza, “costituiva una forma di comunicazione ingannevole essendo suggestiva con enfatizzazioni circa le doti professionali in assenza di qualsiasi parametro idoneo a valutare la veridicità del messaggio e pretendendo di richiamare come peculiarità dello Studio S. un impegno ed una preparazione implicitamente negati alla parte restante della categoria professionale. Dichiararsi “specialista assoluto” in presenza di una normativa professionale (art. 17 e 17 bis del previgente C.D.) che, all’epoca, imponeva il dovere di verità e correttezza (art. 17, 3° comma) e che consentiva solo l’indicazione di titoli accademici o di diplomi di specializzazioni (art. 17, 2 ° comma) costituisce affermazione autoreferenziale, non consentita in punto di diritto ed inopportuna in via di fatto anche alla luce del precetto di cui all’art. 17, 1° comma e 35 del nuovo C.D. Inoltre, l’evocazione del coinvolgimento nel proprio studio di avvocati (oltre che specialisti) “appassionati”, indicati non nominativamente ma esclusivamente per l’appartenenza ad una categoria caratterizzata da una auto attribuita eccellenza professionale, ha un evidente fine captatorio essendo voluta che la “passione” sia caratteristica peculiare di quel particolare studio. Trattasi di un messaggio perentorio che, segnatamente agli occhi del lettore non particolarmente avveduto, appare come un invito ad escludere tutti gli altri avvocati dal novero di quelli competenti ed appassionati. Giova evidenziare, che lo specifico illecito deve essere individuato nella prospettazione di un’eccellenza non supportata, nemmeno a titolo di offerta, da criteri e da elementi idonei a valutarne il livello accompagnandola con una omissione di controllo sull’operato della struttura.”.
Simile è la statuizione con cui il CNF rileva una condotta scorretta da parte del Professionista che pubblicizza i servizi offerti garantendo il “pieno successo” degli incarichi affidatigli (CNF, sentenza n. 8 del 9 marzo 2017).
4. Conclusioni
Alla luce delle norme e delle sentenze analizzate, si evidenzia come il CNF nel tempo non abbia mai cessato di sottolineare l’importanza del rispetto, da parte dei professionisti, delle disposizioni contenute del Codice Deontologico, rimarcando a più riprese l’applicazione delle stesse in diversi contesti.
Secondo quanto è stato riportato[8], alcuni colleghi delle ideatrici del DC Legal Show hanno commentato la notizia offrendo il loro supporto alle avvocatesse, in ragione anche dell’uso dei social sempre più presente nella vita personale e professionale dei professionisti. Al contrario, altri colleghi hanno criticato l’iniziativa.
Ad oggi, in attesa di una pronuncia definitiva da parte dell’Ordine degli Avvocati di Torino, la vicenda resta pendente. Il suo esito con buona probabilità rappresenterà un altro spunto di riflessione per gli avvocati del futuro, futuro che, tuttavia, a ben vedere è molto vicino, considerate le attuali evoluzioni tecnologiche che ogni giorno di più entrano nella vita dei cittadini, avvocati compresi [9].
[1] La pagina è reperibile al seguente indirizzo: https://www.instagram.com/dc_legalshow/.
[2]Ex multis, riportano la notizia: FAVRO, Tacchi a spillo e bella vita: convocate dall’Ordine le avvocatesse torinesi del legal show, La Stampa, 17.01.2022; NEROZZI, Torino, l’Ordine non ferma il «LegalShow» ma lo studio cancella le colleghe dal sito, Corriere della Sera – Torino, 18.01.2022; ZANOTTI, Avvocatesse su Instagram, decoro o libertà? Una questione frivola ma non troppo, La Stampa, 19.01.2022; MARTINENGHI, Le avvocate di Legalshow su Instagram “oscurate” dallo studio con cui collaborano, La Repubblica, 19.01.2022; MARTINELLI, Avvocatesse torinesi troppo social. L’appello: “Nessun procedimento disciplinare da parte dell’Ordine”, Torino Today, 21.01.2022; FAMA, Il legal show, polemica per le foto su Instagram di due avvocate, La Stampa, 23.01.2022.
[3] NEROZZI, Borse Chanel e toghe su Instagram, il «LegalShow» che agita gli avvocati, Corriere della Sera – Torino, 16.01.2022.
[4] Si richiamano gli articoli citati nella nota n. 2 che hanno riportato le varie fasi della vicenda.
[5] L’art. 5 del previgente codice deontologico disponeva, inoltre, una serie di norme relative all’eventualità in cui il professionista fosse implicato in un procedimento penale, che tuttavia non rilevano nel caso di specie.
[6] Un altro esempio di considerazioni della Suprema Corte circa la rilevanza delle norme del codice deontologico forense è reperibile nella nota alla sentenza Cass. Pen., sez. V, 06 luglio 2018, n. 39486: REDAZIONE IUS IN ITINERE, Cass. Pen., sez. V, 06 luglio 2018, n. 39486, 20.03.2019, reperibile al seguente indirizzo: https://www.iusinitinere.it/cass-pen-sez-v-06-luglio-2018-n-39486-18987.
[7] Il seguente paragrafo rappresenta una rielaborazione del parere in materia di deontologia redatto dall’Autrice nell’ambito del percorso formativo c.d. tirocinio forense svolto presso l’Ordine degli Avvocati di Padova. L’originale del parere è stato depositato presso l’Ordine degli Avvocati di Padova – Commissione Tirocinio.
[8] Si richiamano nuovamente le fonti riportate nella nota n. 2 che hanno riportato le diverse reazioni al caso in esame.
[9] CATRINI, ORLANDINI, Avvocati, tra pubblicità e social network, Diritto dell’informazione, 15.02.2022, disponibile qui: https://dirittodellinformazione.it/avvocati-tra-pubblicita-e-social-network/.
Trainee Lawyer e Legal Researcher
Classe 1995, nel 2019 Elisa Simionato si laurea con lode presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Padova, discutendo una tesi intitolata “La tecnologia Blockchain e le criptovalute nel contrasto al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo” (relatore Prof. Riccardo Borsari), nella quale declina l’interesse per le nuove tecnologie con quello per il diritto commerciale e i profili di internazionalità dello stesso.
Dopo la laurea, dando seguito alle numerose esperienze all’estero compiute durante gli anni universitari (fra le altre, Dresda, Mülheim, Spalato, Budapest) si trasferisce a Praga presso uno Studio Legale Internazionale, dove si occupa di corporate and media law.
Tornata in Italia, svolge la pratica forense inizialmente presso uno Studio boutique del Veneziano dove, sotto la guida dei professori cafoscarini Ticozzi e Sicchiero, si abilita al patrocinio sostitutivo, e, successivamente, presso il dipartimento Digital IP/IT di Legalitax – Studio Legale e Tributario. Oggi è Associate di ICT Legal Consulting.
Si occupa di nuove tecnologie, privacy, ICT e compliance e, al contempo, si dedica alla redazione di articoli di approfondimento giuridico per diverse testate, in particolare Ius in Itinere.
Email: simionatoelisa0@gmail.com