giovedì, Aprile 18, 2024
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Migranti ambientali: quale protezione giuridica?

Gli individui che a causa della degradazione ambientale e dei cambiamenti climatici sono costretti a lasciare il tradizionale luogo di residenza, vengono definiti “rifugiati o migranti ambientali”.

 “Le emissioni di gas serra stanno aumentando rapidamente, il riscaldamento globale avrà effetti catastrofici come l’innalzamento del livello del mare, l’incremento delle ondate di calore e dei periodi di intensa siccità, delle alluvioni, l’aumento per numero e intensità delle tempeste e degli uragani. Questi fenomeni avranno un impatto su milioni di persone, con effetti ancora maggiori su chi vive nelle zone più vulnerabili e povere del mondo, danneggeranno la produzione alimentare e minacceranno specie di importanza vitale, gli habitat e gli ecosistemi.” (Analisi riportata dal WWF in occasione degli Accordi di Parigi sul clima).

Lo spostamento degli individui o di intere popolazioni a causa di condizioni climatiche allarmanti, non è un fenomeno nuovo, tuttavia esso si è intensificato negli ultimi anni a causa dei cambiamenti climatici e di danni ecologici irreversibili che rendono il luogo di appartenenza, temporaneamente o in modo permanente, inadatto a garantire loro i mezzi di sostentamento necessari.

Questi fattori si intersecano con altri quali il contesto socio-economico, politico e culturale del paese di origine, i quali concorrono, in vario modo, ad influenzare ed in alcuni casi ad incentivare i fenomeni migratori. Per analizzare tali fenomeni, le migrazioni sono state spesso distinte in due grandi categorie in base alle motivazioni dello spostamento:

  • Migrazioni spontanee o volontarie, che derivano da una scelta autonoma dell’individuo, seppur indotta da ragioni come la ricerca del lavoro;
  • Migrazioni forzate, le cui motivazioni sono di natura politica, religiosa o etnica, e sono riconducibili a eventi catastrofici naturali o provocati dall’uomo.

Tuttavia tale distinzione non è sempre agevole.

Nel 2015 il numero di sfollati per calamità naturali è stato 19,2 milioni in 113 Paesi e nel corso degli ultimi otto anni, è stato registrato un totale di 203,4 milioni di spostamenti collegati ai disastri ambientali”. L’UNHCR (United National High Commissioner for Refugees) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio paese.

Il ricercatore egiziano Essam El-Hinnawi ha ufficializzato nel 1985 il termine “rifugiato ambientale” nel rapporto UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente). Secondo tale rapporto sono rifugiati ambientali “quelle persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un’interruzione ambientale (naturale e/o causato dall’uomo) che ha messo in pericolo la loro esistenza e/o gravemente influito sulla qualità della loro vita. Con interruzione ambientale in questa definizione si intende ogni cambiamento fisico, chimico e /o cambiamento biologico nell’ecosistema (o nelle risorse di base) che lo rendono, temporaneamente o in modo permanente, inadatto a sostenere la vita umana”. Altre definizioni si sono avvicendate nel corso della storia; una delle più complete è sicuramente quella che considera alla base delle migrazioni tutti i possibili fattori ambientali (ad esempio siccità, deforestazione, deficit di risorse quali quelle idriche, riscaldamento globale ecc.), insieme ad altre cause quali la povertà diffusa, le malattie, la fame o problemi legati allo sviluppo politico, economico e sociale del paese.

L’OIM nel suo rapporto del 2008 sulle migrazioni e i cambiamenti climatici, definisce i rifugiati ambientali come “persone o gruppi di persone che, per ragioni legate ad un cambiamento ambientale, improvviso o progressivo, che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare il proprio territorio temporaneamente o definitivamente, e che perciò si spostano dentro al loro paese o ne escono”. Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) “i rifugiati ambientali sono persone costrette ad emigrare per ragioni ambientali, degradazione o scomparsa delle terre dove abitano o per disastri naturali. Tale definizione esclude l’abbandono temporaneo della residenza.” Tuttavia, così come emerge da vari fonti, si è concordi nell’utilizzare il termine “migranti” piuttosto che “rifugiati” in quanto è necessario focalizzare l’attenzione sulla causa ambientale dello spostamento e non sulla destinazione interna o esterna degli individui.

Nonostante l’attenzione posta al tema nel corso degli anni e nonostante i numerosi strumenti internazionali volti a proteggere l’ambiente e i diritti umani non esiste attualmente una definizione legislativa per questa categoria di migranti.

La Convenzione di Ginevra sui Rifugiati firmata a Ginevra nel 1951 ed in seguito modificata dal Protocollo aggiuntivo del 1967, disciplina lo status giuridico di “rifugiato” e l’art. 1 accorda tale status a: “chiunque, per un fondato timore di essere perseguitato per questioni di razza, religione o opinioni politiche, si trovi all’esterno del paese di cui possiede la nazionalità e non può, o a causa di tale timore non vuole, avvalersi della protezione di quel paese; oppur chiunque, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal paese in cui aveva residenza abituale, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Secondo la ratio della norma sono quattro gli elementi che un soggetto deve soddisfare per essere qualificato rifugiato:

  1. trovarsi all’esterno del Paese di cui possiede la nazionalità;
  2. il Paese di cui possiede la nazionalità non deve essere in grado di offrire protezione o rendere possibile il ritorno;
  3. la causa della migrazione deve essere indeprecabile;
  4. la ragione della migrazione deve essere legata a questioni di razza, religione o opinione politiche.

Alla luce degli attuali conflitti politici, delle crisi sociali e del degrado ambientale, è quantomeno complesso soddisfare congiuntamente questi requisiti, essendo difficile legare gli spostamenti degli individui o delle popolazioni a singoli fattori.

Le migrazioni ambientali sono in gran parte migrazioni interne. La principale differenza tra gli sfollati interni per ragioni ambientali (Internal Displaced Person, IDPs) e i rifugiati convenzionali, è che i primi rimangono all’interno dei confini del proprio Stato, rimanendo quindi sotto la protezione giuridica dello Stato di appartenenza, mentre i secondi attraversano i confini del proprio Paese e cercano protezione in un altro Stato. Si esclude che i migranti ambientali possano trovare la regolamentazione del loro status nel regime di cui alla Convenzione di Ginevra. Al fine di risolvere tale problematica, l’ONU ha stilato i Principi Guida sugli sfollati interni che sanciscono i diritti che assistono gli individui forzati al trasferimento, per garantire loro protezione ed assistenza durante il trasferimento così come nella ricollocazione.

Alle luce di tali problematiche, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha sostenuto, in varie sedi, che bisogna affrontare il tema delle migrazioni indotte dal degrado ambientale al fine di giungere ad una cooperazione tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite, i governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative che tenga conto del legame esistente tra migrazioni e cambiamenti climatici.

Si può prospettare una strategia di adattamento a questo fenomeno attraverso una regolamentazione che inquadri le migrazioni ambientali tra i “drivers dello sviluppo sostenibile”. Quest’ultimo infatti, come si ricava dal Rapporto Bruntlandnon è uno stato fisso di armonia, ma piuttosto un processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e il cambiamento istituzionale avvengono coerentemente con i bisogni futuri quanto con quelli presenti”. “Le politiche di sviluppo sostenibile sono uno degli strumenti fondamentali per agire sulle cause delle migrazioni ambientali, in vista di ridurle fino ad annullarle, sia per gestirne gli effetti. La realizzazione di uno sviluppo sostenibile infatti ridurrebbe le motivazioni che inducono alla migrazione, tra le quali il degrado ambientale e la privazione dei mezzi di sostentamento”. Entro il 2030 gli Stati membri dell’ONU mirano ad eliminare la povertà, le disuguaglianze, a salvaguardare i diritti umani e a proteggere il paese.

Per quanto riguarda l’Italia vi è una previsione di legge specificatamente indirizzata agli individui dislocati per ragioni ambientali. Il testo di riferimento è il d.lgs. 286/1998, il cui art. 20 prevede che con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa con i Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, le misure di protezione temporanea da adottarsi per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea.

Amalia Scaperrotta

Nasce ad Ariano Irpino (AV) il 14/12/1993. Consegue la maturità scientifica ed é attualmente iscritta al quinto anno di Giurisprudenza presso l'Università degli studi del Sannio. Prossima alla laurea intende sviluppare una tesi in Negoziazione e Sviluppo Sostenibile. Da sempre sensibile ai problemi ambientali e ai temi sociali, è un energy broker presso un'azienda che si occupa di energie rinnovabili impegnata anche nel sociale. Ha partecipato al Concorso indetto dalla Fondazione Italiana Accenture, sullo Sviluppo Sostenibile, "Youth in Action for Sustainable Development Goals", in cui è arrivata in finale. È socia di Elsa ( The European Law Student's Assocation ). Nelle sue esperienze universitarie ha partecipato ad un progetto di ricerca, nell'ambito del Diritto Commerciale dal titolo "La liceità del marchio".

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