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Il “Muslim Ban” di Trump: la vicenda giudiziaria

L’ordine esecutivo 13769, noto giornalisticamente come “Muslim Ban”, è stato emanato dal Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, il 27 gennaio 2017, provocando, fin da subito, molte polemiche.

Lo stesso, rubricato “proteggere la nazione dall’entrata dei terroristi stranieri negli Stati Uniti”, prevedeva un intervento, diviso in 4 punti, per realizzare lo scopo enunciato:

1) Limite massimo di 50.000 rifugiati per tutto il 2017;
2) Sospensione del programma di ammissione rifugiati per 120 giorni;
3) Sospensione dell’entrata nel paese dei rifugiati siriani a tempo indeterminato;
4) Blocco per l’entrata nel paese strutturato in base alla provenienza da una lista di paesi, fra cui Iraq, Iran, Libia, Siria e Yemen.

Il dibattito sullo stesso fu, fin dal giorno dopo, molto acceso, sia in campo politico che in campo giuridico.
Infatti, dal 28 gennaio, giorno dopo l’emanazione, al 31 gennaio, si registrano già quasi 50 casi di impugnazione dell’ordine esecutivo dinanzi alle corti federali.

I soggetti impugnanti il decreto erano, fra loro, molto eterogenei: nella maggior parte dei casi erano privati, soprattutto quelli bloccati all’ingresso degli Stati Uniti a causa del decreto, ma vi furono impugnazioni anche da parte di alcuni Stati, come quello di Washington e quello del Minnesota, oltre che da alcune organizzazioni a tutela dei diritti civili e dei diritti degli americani-islamici.

Le polemiche si accentuarono quando il Procuratore Generale, Sally Yates, annunciò la decisione di non difendere l’ordine dinanzi ai giudici perché non convinta della sua legalità, provocando l’ira dell’amministrazione e il suo conseguente licenziamento.

Le controversie legali si fondavano essenzialmente sulla conformità o meno dell’ordine esecutivo ad alcune leggi federali e ai principi della costituzione americana.

Erano 3 essenzialmente le fonti su cui verteva la controversia:
1) “Immigration and nationality Act” (INA), disciplinante l’immigrazione.

2) “Administrative procedure  Act”, (APA) sul procedimento amministrativo.

3) Costituzione americana, in particolare per i principi di “Procedural due process” e per la “Establishment clause”.

Nel dettaglio, gli avvocati di coloro che hanno impugnato l’ordine sostenevano, in primo luogo, che lo stesso fosse contrario all’INA, nonostante il Presidente si fosse espressamente richiamato a quest’ultimo per fondare il suo potere di bloccare le entrate nel paese per alcune categorie di stranieri.

Secondo l’amministrazione, infatti, l’INA del 1952, sezione 212 (f), attribuiva al Presidente degli Stati Uniti il potere di bloccare le entrate nel paese di stranieri nel caso in cui il loro ingresso potesse essere ritenuto “pregiudizievole” per gli interessi della nazione.

Gli avvocati si opponevano a tale ricostruzione, adducendo che nel 1965 l’INA era stato modificato dal Congresso, ponendo in esso una clausola espressa di non discriminazione per razza, nazionalità e sesso, da rispettare nell’esercizio del potere previsto in capo al Presidente.

Ritenevano, quindi, che, essendo l’ordine esecutivo diretto a colpire esclusivamente stranieri provenienti da Paesi a quasi totalità musulmana, la clausola era violata e, di conseguenza, l’ordine illegittimo.

In secondo luogo, sostenevano che l’ordine esecutivo fosse contrario all’APA, in quanto lo stesso poneva una serie di garanzie intorno all’esercizio dei poteri propri delle agenzie governative, vietando il loro arbitrio, provvedimenti contrari a legge ed abusi di discrezione.

In questo caso, arbitrio ed abusi di discrezione erano per loro rintracciabili nella scelta della lista dei paesi dai quali bloccare le entrate, in quanto la stessa non era conforme a principi di razionalità, prevedendo l’inclusione di alcuni paesi, fra loro diversi, e l’esclusione di paesi simili a quelli interessati dal “ban”, basti pensare a tutti i paesi della penisola araba.

In terzo luogo, lamentavano una violazione del principio costituzionale del “procedural due process”, cioè il principio per cui il governo non può privare i singoli delle loro libertà senza una sorta di procedura garantista, includente, per esempio, la possibilità di essere ascoltati da un giudice.

Infine, ritenevano sussistente anche una contrarietà alla clausola di “establishment”, secondo la quale l’amministrazione dovrebbe esercitare i suoi poteri in base a principi di eguaglianza e razionalità, nel caso non presenti visto l’espresso disfavore verso una particolare religione.

Da notare l’assenza, tranne qualche rara eccezione, nei ricorsi contro l’ordine esecutivo, di riferimenti espressi ai principi internazionali, in particolare alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati che all’articolo 33 sancisce il principio di “non refoulement”.

Lo stesso consiste nel divieto di respingimento di un rifugiato verso un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza,  della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

La prima corte interpellata, quella federale di Washington, decise di emanare un “Temporary restraining order” (TRO), subito seguita da tutte le altre.

I TRO sono provvedimenti ingiuntivi emanabili dal giudice nella fase del “pre-trial”, cioè prima ancora del giudizio di merito e senza che sia instaurato il contraddittorio fra le parti, in presenza del convincimento giudiziale che, in attesa del giudizio, possano essere irreparabilmente lesi gli interessi dei soggetti colpiti dall’atto esecutivo.

In questo modo fu bloccata l’esecutività dei punti più controversi dell’ordine esecutivo, in particolare del blocco degli ingressi dai paesi listati, e a nulla valse l’impugnazione da parte del governo federale presso la Corte d’Appello del nono distretto, respinta dalla corte.

Le controversie legali spinsero il presidente Trump ad emettere un decreto di modifica, l’ordine esecutivo 13780, che si presentava più morbido rispetto al precedente, in particolare con la rimozione di alcuni limiti per coloro che già possedevano un visto.

Il 15 marzo, però, l’ordine esecutivo fu di nuovo bloccato dalla corte del distretto delle Hawaii che ritenne ancora sussistenti pesanti violazioni ai principi costituzionali, anch’essa seguita da tutte le altre corti interpellate.

Il Dipartimento della Giustizia ha dichiarato, però, di non volersi arrendere, impugnando tutti i TRO ed aspettando i giudizi di merito in relazione al provvedimento.

La vicenda giudiziaria, dunque, non è ancora terminata e la sua fine appare lontana, ma qualche punto fermo può essere tratto dalla vicenda.

Era dal secolo scorso che la magistratura statunitense non si poneva così fortemente in contrasto con una decisione del potere esecutivo in tema di sicurezza del paese.

I commentatori internazionali rimasero sorpresi dall’interruzione del tradizionale attivismo giudiziario statunitense, espresso nel rispetto della legge e della costituzione, durante l’amministrazione Bush, in particolare nella fase post attentato dell’11 settembre 2001 e in relazione al “Patriot Act”.

La vicenda recente sembra, invece, portare ad una riaffermazione del principio tipicamente statunitense secondo cui “la magistratura rientra fra le istituzioni politiche propriamente dette del sistema americano”, caratteristica raccontata e tanto apprezzato dal Tocqueville nel lontano 1831.

Simone D'Andrea

Studente di Giurisprudenza, classe 1994, tesista in Diritto del Mercato Finanziario, collaboratore area di Diritto Internazionale

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