venerdì, Marzo 29, 2024
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No war factory: dal diritto ambientale alla moda sostenibile

No war factory: dal diritto ambientale alla moda sostenibile

a cura di Dott.ssa Chiara Guardabascio

Nel gergo comune definire cos’è l’ambiente è facile: ognuno di noi sa cosa esso sia e cosa comprenda.

Se aprissimo il vocabolario troveremmo definizione ed etimologia: la parola “ambiente” deriva dal latino “ambiens” ed è “participio presente del verbo ambire, viene definita come “l’insieme delle condizioni in cui si svolge la vita degli organismi (…) un sistema complesso di fattori fisici, chimici e biologici, di elementi viventi e non viventi e di relazioni in cui sono immersi tutti gli organismi che abitano il Pianeta”. Al contrario, se cercassimo la sua definizione nella nostra Carta Costituzionale – vertice della gerarchia delle nostre fonti ordinamentali – non sembrerebbe così facile e scontato trovare una definizione ad hoc del termine ambiente.

All’epoca della redazione della Costituzione, all’indomani della guerra, fu riconosciuta priorità ad altri diritti, e al bene “ambiente”, non ricompreso fra questi, non fu prestata la stessa attenzione. È però possibile provare a ricostruire una sua definizione attraverso il combinato disposto degli articoli presenti nella prima parte della Carta Costituzionale: l’art. 2, che tutela i diritti dell’uomo nelle formazioni sociali; l’art. 9, che tutela il paesaggio e l’art. 32, che tutela la salute come diritto soggettivo e della collettività. Ne deriva che l’ambiente è si oggetto di tutela, ma in via indiretta, poiché l’obiettivo principale del nostro legislatore è la tutela della vita umana complessivamente intesa. A conferma di ciò, basti citare l’art. 2 del Testo Unico Ambientale, il quale sancisce: “Il presente decreto legislativo ha come obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”.[1]

Con l’adeguamento del diritto alle esigenze attuali e grazie ai frequenti interventi legislativi, l’ambiente sta recuperando quel ruolo di vitale importanza che merita e gli è dovuto.

Possiamo dire con certezza che il nostro Paese si è mosso con notevole ritardo, rispetto ad altri Stati, nel fornire gli strumenti atti a tutelare l’ambiente: soltanto nel 2001 gli è stata riconosciuta un’espressa menzione nella Costituzione, con l’intervento della legge costituzionale n. 3 che tramite l’art. 117 Cost. ha riformato il titolo V, disciplinando il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. In questo articolo, difatti, viene riconosciuta, al secondo comma, legislazione esclusiva statale in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e, al terzo comma, competenza concorrente tra Stato e Regioni in materia di “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”. Fino all’intervento modificativo della Costituzione, i giuristi si sono trovati a dover effettuare notevoli sforzi interpretativi per poter riconoscere una garanzia costituzionale alla tutela dell’ambiente, ed inizialmente i fenomeni d’inquinamento venivano regolamentati da autonome leggi speciali, non armonizzate tra di loro.

Al fine di disciplinare in modo unitario la tutela ambientale, il legislatore è intervenuto con l’emanazione del d.lgs. n. 152/2006, il c.d. Testo Unico Ambientale (TUA). A due anni di distanza dall’introduzione del TUA, è poi intervenuta la Comunità Europea con la Direttiva n. 99/2008, occupandosi di tutela penale dell’ambiente. La direttiva però non fu recepita dall’Italia nel termine previsto – termine entro il quale gli Stati Membri avrebbero dovuto adeguarsi – e ciò accadde solo a seguito di messa in mora da parte della Commissione Europea, con il d. lgs. n. 121/2015. Tale decreto, per quanto sia stato definito attuativo della direttiva, non la recepì in toto e fu necessario un successivo intervento normativo nel 2015, quando, con legge n. 68, il legislatore introdusse alcune nuove fattispecie di reato a tutela dell’ambiente.[2] Finalmente, con l’introduzione dell’art. 452 bis c.p. sono state riconosciuti alcuni comportamenti causativi di inquinamento ambientale quali specifiche forme di reato.[3] Infine, con il d.lgs. 121/2015 e la previsione della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001, anche le aziende che attraverso lo svolgimento della propria attività causano inquinamento ambientale (delle acque, dell’aria), possono essere soggette a pesanti sanzioni.

Uno dei principali fattori d’inquinamento è legato allo svolgimento di attività  industriale senza cautele. Basti pensare che l’industria della moda è uno dei settori più inquinanti, secondo solo al petrolchimico, in quanto è molto diffuso nelle economie industrializzate il concetto di  tendenza ed avendo un breve ciclo di vita rilegato alle seasons SS o AW, ciò porta ad un’ elevata produzione di rifiuti, sia perché c’è un impiego intensivo di risorse naturali. Ed allora, si rende necessario diffondere la sostenibilità attraverso la trasformazione dei processi produttivi industriali , in ogni settore economico. L’impegno in questa direzione prende il nome di Corporate Social Responsibility, intesa come management che crea valore per una vasta platea di soggetti detti stakeholders, ovvero portatori di interessi. Questi sono la comunità locale, i dipendenti, i clienti e qualunque investitore, interno o esterno all’azienda.[4] La sempre più crescente attenzione riconosciuta alla tutela dell’ambiente dalla legislazione sia nazionale che europea, ma anche da stampa e associazioni ambientaliste, ha portato all’incremento della domanda di prodotti ecosostenibili da parte del pubblico; di conseguenza, le aziende della moda sono state, nel tempo, portate ad immettere sul mercato prodotti , il cui ciclo produttivo- e non solo-  sia maggiormente rispettoso delle esigenze ambientali.

La moda sostenibile e la trasformazione dei vecchi ordigni di guerra

Negli ultimi anni, proprio nell’ottica dell’ecosostenibilità, il settore della moda si è reinventato, con la creazione di nuove linee di design che, senza pregiudicare la funzionalità del prodotto, possano garantire, tramite l’utilizzo di materiali a basso impatto ambientale, la protezione dell’ambiente.

La “moda sostenibile” pone attenzione all’ambiente e alla società in tutte le sue fasi: concezione, produzione, distribuzione e vendita. Essa prevede l’utilizzo di materie prime meno inquinanti, il riciclo dei materiali utilizzati; i lavoratori vengono tutelati garantendo orari di lavoro adeguati, un ambiente salubre e una remunerazione equa. Sicuramente se ne trae un gran beneficio per la salute psicofisica di ogni individuo, ma c’è un altro aspetto da considerare.

Questo nuovo concept punta sulla valorizzazione delle caratteristiche tradizionali di produzione e sulle specificità culturali dei vari Paesi, in contrasto con la standardizzazione produttiva frutto della globalizzazione.[5]

La stessa Camera Nazionale della Moda, associazione il cui scopo è la promozione della moda italiana,  ha predisposto il “Manifesto della sostenibilità per la moda italiana”, al fine di dare una linea guida alle aziende del settore e  garantire l’adozione di un modello di gestione responsabile ed ecosostenibile in tutto il processo produttivo.[6] Fra gli interventi di rilievo va menzionato  il Fashion Pact, presentato l’anno scorso ,in occasione del G7, dalla società Kering e voluto fortemente dal presidente francese Emmanuel Macron. Esso riunisce alcune aziende leader nel settore della moda che mirano al raggiungimento di alcuni obiettivi riassumibili in tre aree fondamentali: arrestare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani.[7] Dubbi sono emersi circa il rispetto di tale patto, da parte delle trentadue aziende che hanno aderito, in virtù del fatto che il Fashion Pact non ha natura vincolante dal punto di vista legale. Come affermato dal responsabile della sostenibilità Kering, Marie-Claire Daveu, “Non si tratta di regolamentazione. Non possiamo punire direttamente i gruppi, ma impegnandosi a migliorare la trasparenza collettiva, c’è un incentivo per coloro che fanno parte di questo patto a rispettare gli obiettivi e non rimanere indietro”.[8]

Da anni le tematiche ambientali sono oggetto di discussioni tra i governanti dei maggiori Stati industrializzati. Il cambiamento climatico e le sue conseguenze  spingono a riconsiderare  alcuni processi produttivi particolarmente impattanti, considerando che il concetto di sostenibilità non è riconducibile esclusivamente al rispetto dell’ambiente, ma anche al rispetto dei lavoratori[9]. Tanti sono i marchi che hanno adottato questo stile di produzione, tra cui la società “No war factory”.

“No war factory” è un’azienda fondata da Massimo e Serena, originari di Viareggio e che da molti anni operano nel sud-est asiatico anche al fine di aiutare, tramite il loro contributo, la  popolazione residente. La loro azienda lavora con un’etica di produzione solidale e responsabile, occupandosi di gioielli realizzati da artigiani del Laos, con l’alluminio di ordigni bellici risalenti alla guerra del Vietnam. L’estrazione dell’alluminio avviene in tutta sicurezza grazie alla collaborazione dell’associazione di sminamento e rimozioni ordigni inesplosi, denominata  MAG (Mine Advisory Group). La guerra civile ha fatto in modo che al Laos fosse attribuita la definizione di Paese “più bombardato della storia” e ancora oggi, a distanza di anni , quelle bombe continuano a far contare vittime. Il rischio maggiore al quale si va incontro è la morte di bambini che, per gioco o meno,  tentano di aprire gli ordigni che sono presenti in grande quantità nel territorio. Pur non essendo mai state utilizzate armi nucleari nella guerra in Laos, i prodotti della “No war factory” vengono  comunque analizzati da un laboratorio sito a Bassano del Grappa che attesta l’assenza di elementi radioattivi . La collaborazione non si conclude con l’acquisto del materiale prodotto dagli artigiani locali, ma l’azienda  dona il 10% dei ricavi ottenuti con le vendite all’associazione MAG, per contribuire allo sminamento, e all’associazione “Adopt a village in Laos” allo scopo di acquistare filtri per rendere l’acqua potabile. È evidente la doppia utilità sociale che tale azienda persegue: in primis si presta attenzione alla tutela ambientale mediante  l’utilizzo di materiali riciclati; allo stesso tempo, tramite gli acquisti dei gioielli prodotti dagli artigiani e la donazione di una percentuale del ricavato delle vendite, si dà un aiuto concreto  alla popolazione locale.[10] Vale la pena sostenere queste iniziative, sottolineando come esse, soprattutto, siano la prova che è possibile regalarci un  ambiente recuperato. Un passo alla volta.

[1] D.lgs n.152 del 3 Aprile 2006.

[2] Mauro Catenacci, I reati ambientali e il principio di offensività.

[3] Carlo Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, 2016

[4] Andrea Ghiraldin, La sostenibilità nel settore moda, Università Cà Foscari di Venezia, scritti per il Dipartimento di Management 2017.

[5] Ulteriori informazioni reperibili su https://www.esritalia.com/moda-sostenibile-cose-e-perche-e-importante/

[6] Informazioni disponibili sul sito ufficiale della Camera della Moda Italiana https://www.cameramoda.it/it/

[7] Sul punto maggiori informazioni possono leggersi qui https://thefashionpact.org/?lang=it

[8] Ulteriori informazioni qui https://www.thefashionlaw.com/32-fashion-companies-from-kering-to.hampm-partner-for-a-voluntary-sustainability-pact/

[9] Valentina Jacometti, Diritto e moda sostenibile tra iniziative legislative e iniziative volontarie, Giuffrè, 2016.

[10] Per maggiori informazioni si legga il Codice Etico della No War Factory 

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