Nullità parziale di intese anticoncorrenziali a monte e nullità parziale di contratti riproduttivi a valle
Sommario: 1. La vicenda – 2. Le clausole dello schema ABI di fideiussione omnibus dichiarate nulle dalla Banca d’Italia – 3. La possibilità di ricondurre uno schema unilaterale nel concetto di “intesa” – 4. Gli orientamenti della giurisprudenza – 4.1. La legittimazione ad agire del consumatore – 4.2 La invalidità del contratto di fideiussione “a valle” – 5. Le tesi della dottrina – 6. La posizione delle Sezioni Unite e il principio di diritto
- La vicenda
Nel giugno del 2004 un istituto di credito italiano – nell’accordare un mutuo ad una S.p.A., già cliente della medesima banca – ne subordinava l’erogazione alla prestazione di garanzia personale da parte di un terzo. Uno dei soci dell’ente finanziato, pertanto, concludeva due distinte fideiussioni, corroborando in tal modo la pretesa creditoria del soggetto attivo del rapporto di finanziamento. A distanza di qualche anno, l’impresa bancaria, dopo aver informato il fideiussore circa l’intervenuta risoluzione del contratto di mutuo, chiedeva la restituzione del relativo scoperto. Il rapporto giuridico rivelava ancipite il proprio volto litigioso, registrandosi l’attivazione di un procedimento monitorio innanzi al Tribunale di Torino da parte dell’istituto bancario e una citazione innanzi alla Corte di Appello di Roma da parte del fideiussore. Nello specifico, quest’ultimo evocava in giudizio l’istituto di credito innanzi alla Corte capitolina, stante la competenza in unico grado prevista dalla normativa applicabile ratione temporis (art. 33, legge n. 287 del 1990). In particolare, le doglianze dell’attore s’imperniavano sulla presunta nullità dei contratti di fideiussione siglati con l’istituto di credito: la banca, nel fissare il contenuto delle fideiussioni, avrebbe trasposto nelle medesime alcune clausole (nn. 2, 6 e 8) appartenenti ad uno schema di fideiussione omnibus predisposto anni prima da parte dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI). Tali clausole dello schema negoziale tipo, tuttavia, erano state colpite dalla scure della Banca d’Italia, che ne aveva dichiarato la nullità (con provvedimento n. 55/2005), ravvisandone la contrarietà rispetto alla normativa italiana in materia di tutela della concorrenza (c.d. normativa antitrust). Con maggior sforzo ricostruttivo, alcune clausole dello schema si presentavano – a tutti gli effetti – come idonee a restringere il meccanismo di fisiologica concorrenza che costituisce il motore primo della logica di mercato, contrastando con il disposto dell’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287/1990, ai sensi del quale “Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; […]”. La Corte di Appello, constatando l’effettiva corrispondenza tra le clausole inserite nelle fideiussioni stipulate dalla banca e quelle predisposte dall’ABI nel predetto schema tipo, dichiarava la nullità delle clausole contenute negli artt. 2, 6 e 8 dei contratti di garanzia personale, statuendo altresì in punto di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
- Le clausole dello schema ABI di fideiussione omnibus dichiarate nulle dalla Banca d’Italia[1]
L’indagine della Banca d’Italia conduceva alla declaratoria di nullità di determinate clausole che accedevano allo schema negoziale tipo redatto dall’ABI:
- la c.d. “clausola di reviviscenza”, in forza della quale il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che quest’ultima incassi, in pagamento di obbligazioni garantite, e successivamente restituisca per motivi diversi, quali annullamento, inefficacia, revoca dei pagamenti stessi o per qualsiasi altro motivo ( 2);
- la “clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 cod. civ.”, secondo cui i diritti che la banca vanta sulla scorta della fideiussione restano integri finché non sia estinto ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore, il fideiussore o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti dall’art. 1957 c.c. ( 6);
- la c.d. “clausola di sopravvivenza”, alla cui stregua il debitore è tenuto a rimborsare alla banca gli importi percepiti anche nel caso in cui l’obbligazione garantita dovesse risultare invalida ( 8).
- La possibilità di ricondurre uno schema unilaterale nel concetto di “intesa”
La Prima Sezione Civile della Suprema Corte, investita del ricorso avanzato dall’istituto di credito, ha rilevato sul punto la presenza di orientamenti difformi circa la validità/invalidità di un contratto stipulato in attuazione di una intesa restrittiva della concorrenza, con particolare riguardo alla sorte del contratto di fideiussione concluso tra garante e banca in attuazione dello schema negoziale tipo predisposto unilateralmente dall’ABI e dichiarato nullo dalla Banca d’Italia.
Di preliminare importanza, nel contesto dell’iter logico-giuridico tracciato dal Supremo Consesso, appare il chiarimento della natura da attribuire allo schema negoziale strutturato dall’ABI. Invero, la circostanza della predisposizione unilaterale del medesimo, per mano della menzionata Associazione, ne esclude la natura bilaterale, così impedendo di qualificarlo ictu oculi in termini di vero e proprio accordo. Nondimeno, il tenore letterale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 287/1990 – ai fini dell’applicazione della disciplina antitrust – consente di classificare detto schema unilaterale in termini di “intesa”, in tal modo recuperando il medesimo entro il rispetto dei crismi di legge. La citata disposizione prescrive che “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”. Come rilevato anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), interpellata in via consultiva dalla Banca d’Italia, le condizioni generali di contratto comunicate dall’ABI relativamente alla “fideiussione a garanzia di operazioni bancarie” rientrano nel campo di applicazione dell’art. 2 della l. antitrust in quanto deliberazioni di un’associazione di imprese.
Oltretutto, la stessa Corte di legittimità ha già avuto modo di precisare che nel concetto di “intesa” non rientrano soltanto i contratti in senso tecnico ma anche le fattispecie in cui l’intesa rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente unilaterali (come accaduto nel caso di specie) e, infine, i comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali” che producano effetti distorsivi della concorrenza (Cass., 1° febbraio 1999, n. 827)[2].
Alla luce di quanto esposto, pertanto, anche lo schema deliberato in via unilaterale dall’ABI rientra nella nozione di “intesa”, il cui carattere distorsivo della concorrenza è stato individuato dall’AGCM e sancito dalla Banca d’Italia, nel rispetto della norma per cui “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto” (art. 2, comma 3, legge n. 287/1990).
- Gli orientamenti della giurisprudenza
Dopo un perimetrato excursus – delineante il quadro normativo di riferimento in materia di concorrenza nonché di intese vietate (nulle) giacché restrittive del gioco concorrenziale (art. 41 Cost., art. 101 TFUE, art. 2 della legge n. 287/1990) – i Giudici di Piazza Cavour hanno scandagliato i diversi orientamenti giurisprudenziali in materia, valutando due aspetti interconnessi della vicenda.
4.1. La legittimazione ad agire del consumatore
Il primo aspetto riguarda la concreta possibilità per il c.d. consumatore finale (nel caso di specie il cliente dell’istituto bancario) di agire in giudizio in presenza di un’intesa intervenuta non direttamente nei suoi confronti, bensì, ad un livello più alto, tra imprese operanti nel mercato (nel caso di specie tra imprese bancarie). Ebbene, i Giudici di legittimità – in un primo momento storico – hanno escluso che questi potesse agire in via risarcitoria a fronte di un contratto attuativo di una intesa restrittiva della concorrenza: lo strumento risarcitorio, alla luce della caratterizzazione tecnica degli istituti delineati nella l. antitrust, non è stato considerato aperto alla legittimazione attiva dei consumatori finali (Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475). In una decisione di poco successiva, tuttavia, la Cassazione ha abbracciato la tesi opposta, riconoscendo legittimazione attiva in capo ai consumatori, sebbene con una precisazione importante: costoro potevano agire al fine di incamerare il risarcimento del danno (tutela risarcitoria) ma non al fine di ottenere la dichiarazione di nullità del contratto stipulato (tutela demolitoria o reale). Secondo il ragionamento prospettato, infatti, la nullità di un’intesa raggiunta a monte non comportava automaticamente la nullità dei contratti stipulati a valle in attuazione della predetta intesa, i quali conservavano la loro validità, potendo dar luogo soltanto ad azioni risarcitorie (Cass., 11 giugno 2003, n. 9384). La svolta si è avuta con un pronunciamento delle Sezioni Unite (4 febbraio 2005, n. 2207), in virtù del quale il Giudice nomofilattico ha ampliato la sfera di tutela dei privati, chiarendo come la legge n. 287/1990 abbia, tra i suoi destinatari, non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato ovvero chiunque abbia un interesse alla conservazione del carattere competitivo del mercato stesso. Invero “il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello dell’intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile”[3].
Le Sezioni Unite hanno chiarito il senso di tali parole nei termini che seguono: “Stante il collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte, ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto conseguenziale”.
4.2 La invalidità del contratto di fideiussione “a valle”
Il secondo aspetto vagliato dalle Sezioni Unite concerne, a mo’ di precipitato, la sorte del contratto che sia stato stipulato tra imprenditore e consumatore e che abbia dato attuazione ad una intesa anticoncorrenziale.
Un primo filone giurisprudenziale predica la tesi della nullità totale del contratto a valle, facendo discendere tale forma di invalidità dalla nullità che colpisce l’intesa a monte, come testé riportato. Si afferma, in particolare, che lo stesso art. 2 della legge n. 287/1990 – nella parte in cui stabilisce la nullità delle intese – non faccia riferimento soltanto al negozio giuridico originario che si colloca al vertice della vicenda, bensì anche a tutta la situazione complessiva successiva a detto negozio, in quanto essa comunque costituisce un ostacolo alla concorrenza. Siffatta tesi risulta ribadita anche in tempi recenti dal Supremo Collegio, intervenuto al fine di chiarire come la competenza della sezione specializzata per le imprese attragga anche le controversie relative ai contratti di fideiussione riproduttivi dello schema negoziale redatto dall’ABI (Cass., 10 marzo 2021, n. 6523).
Un secondo filone pretorio, invece, pur concordando sulla qualifica di invalidità, afferma che il contratto a valle debba considerarsi affetto da nullità parziale, in quanto risulterebbero invalide (sub specie di nullità) soltanto le singole clausole che traspongono il contenuto di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3556).
- Le tesi della dottrina
Anche in dottrina si registrano posizioni affasciate intorno ai due rami principali della nullità integrale e della nullità parziale del contratto, pur non mancando chi, in senso antitetico, ne predica la validità.
All’interno dell’ala propugnante la tesi della nullità integrale, invero, si ravvisano posizioni eterogenee: alcuni Autori sostengono che i contratti conclusi a valle sarebbero integralmente nulli in termini di “nullità derivata”, stante un collegamento funzionale tra intese e contratti, che assumerebbe i connotati di un vero e proprio “collegamento negoziale”, tale da comportare l’esigenza di una considerazione unitaria della fattispecie e l’applicazione del principio simul stabunt simul cadent. I due accordi sarebbero parte di una pratica complessivamente illecita, sicché la nullità prevista per l’intesa si trasmetterebbe tout court anche ai contratti che all’intesa danno attuazione. Secondo altri, la nullità integrale della fideiussione a valle non potrebbe essere qualificata nel modo poc’anzi indicato, dal momento che lo stesso contratto di fideiussione presenterebbe una causa illecita, in quanto realizzerebbe una funzione illecita siccome contrario alle norme imperative sulle intese anticoncorrenziali (art. 1418, comma 2, c.c.). Per altri ancora, la nullità integrale del contratto a valle discenderebbe dalla illiceità del suo oggetto, funzionale a perseguire il risultato vietato, al raggiungimento del quale è finalizzata anche l’intesa (artt. 1418, comma 2 e 1346 c.c.)[4].
Infine, v’è anche chi afferma che il contratto a valle sarebbe, sì, nullo, ma per violazione diretta di norme imperative, precisamente delle norme imperative relative alla concorrenza (art. 1418 c.c.).
Sul versante opposto, invece, si collocano quanti sostengono che il contratto a valle – pur essendo invalido – non sarebbe integralmente nullo, in quanto ci si troverebbe di fronte ad una nullità di tipo “parziale”. Difatti, le singole clausole, facenti parte dell’intesa siglata a monte (nel caso di specie, clausole nn. 2, 6 e 8) e dichiarate nulle dalla Banca d’Italia, sarebbero trasposte in altrettante singole clausole strutturanti il contratto a valle (nel caso di specie, la fideiussione). Si tratterebbe di una nullità derivata, conseguente alla trasposizione, nella contrattazione standardizzata, di quelle clausole illecite contenute nel modello ABI.
Si osserva che la nullità del contratto di fideiussione a valle non deriva semplicemente dalla predisposizione di dette clausole, bensì dal fatto che le stesse siano state inserite in modo ripetuto: “è intuitivo, infatti, che proprio la costante reiterazione della deroga al modello codicistico, con l’inserimento di clausole pregiudizievoli per il fideiussore, determina un abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato”. Si aggiunge, ancora, che nel sistema del cod. civ. esiste una regola ben precisa, ossia quella della conservazione del negozio giuridico. È possibile derogare a tale regola soltanto nell’ipotesi eccezionale in cui risulti – secondo un giudizio di volontà ipotetica – che le parti non avrebbero avuto interesse a concludere il contratto senza quelle clausole nulle.
Stando ad un terzo orientamento del tutto contrario, le fideiussioni a valle non sarebbero inficiate da alcun elemento idoneo a comprometterne la validità, ma si presenterebbero come contratti validamente conclusi. Nondimeno, a fronte della sofferta limitazione della libertà di scelta del cliente-contraente, cagionata dall’intesa anticoncorrenziale, egli vanterebbe un diritto al risarcimento del danno. Il modello di tutela sarebbe quello rinvenibile nella disciplina del c.d. dolo incidente (art. 1440 c.c.), che non consente al contraente raggirato (deceptus) di ottenere la declaratoria d’invalidità del contratto ma soltanto di avanzare domanda di risarcimento dei danni nei confronti del soggetto in mala fede (decipiens). Affine a tale argomento è anche quello relativo alla summa divisio e al principio di non interferenza tra regole di comportamento e regole di validità degli atti, sulla cui scorta parte della dottrina ragiona nel senso dell’impossibilità di far discendere l’invalidità di un negozio giuridico dalla mera violazione di una regola di comportamento: violazione che, piuttosto, darebbe luogo soltanto a conseguenze di carattere risarcitorio[5].
- La posizione delle Sezioni Unite e il principio di diritto
Con sentenza n. 41994/2021, le Sezioni Unite della Cassazione[6], conclusa l’illustrazione del panorama giurisprudenziale e dottrinale di riferimento, hanno risolto la questione della sorte dei contratti che si collocano a valle di un’intesa anticoncorrenziale, qualificandoli come affetti da nullità parziale. Le ragioni di siffatta scelta sono diverse e bisognose di delucidazioni.
Anzitutto, il Collegio non ha condiviso gli argomenti prospettati dal Procuratore Generale, secondo il quale i contratti di fideiussione a valle dello schema ABI dovrebbero essere considerati validi in quanto frutto dell’esplicazione della libera autonomia negoziale delle parti (art. 1322 c.c.). Invero, per quanto la disciplina codicistica consenta ai privati di determinare liberamente il contenuto del contratto (art. 1322, comma 1, c.c.), sussiste comunque l’ostacolo insormontabile dei limiti imposti dalla legge. Nello specifico, l’art. 41 Cost. prevede espressamente che l’iniziativa economica privata non debba svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”[7] e che essa debba essere sottoposta a “programmi e controlli opportuni” che la indirizzino e la coordinino a “fini sociali”.
Non è possibile, poi, affermare che – stante la nullità comminata dalla legge rispetto all’intesa anticoncorrenziale – i contratti attuativi della medesima intesa possano presentarsi come validi. Infatti, la nullità dell’intesa raggiunta a monte si riverbera inevitabilmente sul contratto stipulato a valle, dal momento che il programma negoziale, delineato con detto contratto, recepisce le clausole nulle contenute nell’intesa e ne costituisce un effetto conseguenziale. Siffatto meccanismo invalidante è descritto dalle Sezioni Unite nei seguenti termini: “[…] il tenore letterale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 287 del 1990, poi, è a sua volta inequivoco nello stabilire che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto». È del tutto evidente, infatti, che siffatta previsione – ed in particolare la locuzione «ad ogni effetto», riproduttiva, nella specifica materia, del principio generale secondo cui quod nullum est nullum producit effectum – legittima, come affermato da molti interpreti, la conclusione dell’invalidità anche dei contratti che realizzano l’intesa vietata […]”.
Sviluppando il ragionamento, le Sezioni Unite affermano che al consumatore deve essere riconosciuta non solo tutela risarcitoria (risarcimento del danno) ma anche tutela reale (dichiarazione di nullità parziale del contratto). All’interno della categoria della invalidità e della specie della nullità, la sanzione maggiormente adeguata è quella della nullità parziale, in quanto ritenere che il contratto – concluso recependo le clausole di un’intesa distorsiva della concorrenza – sia colpito da siffatta nullità consente di raggiungere risultati più in linea con le finalità e con gli obiettivi della normativa antitrust. A tal riguardo, la tutela risarcitoria permette di difendere soltanto l’interesse individuale del singolo contraente, non consentendo di raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore della legge n. 287/1990, ossia quello di apprestare adeguate forme di tutela non soltanto a presidio dei consumatori[8], ma anche e soprattutto come baluardo dei meccanismi di funzionamento concorrenziale del mercato: l’interesse principale è quello del mercato in senso oggettivo[9]. In base a detta premessa, v’è da rilevare che la sola tutela risarcitoria addossata in capo all’imprenditore non riuscirebbe a dissuadere le imprese che hanno tenuto condotte anticoncorrenziali, in quanto non è detto che tutti i consumatori agiscano per ottenere il risarcimento del danno e non è detto che, comunque, riescano nel loro intento. “Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust”.
Chiudendo la Ringkomposition del percorso logico tracciato, le Sezioni Unite precisano, dunque, che esclusivamente la nullità relativa del contratto stipulato a valle consente di attuare la volontà del legislatore, così come positivizzata nella normativa antitrust, anche perché, in tal modo, si assicura il rispetto degli interessi coinvolti nella vicenda, maxime quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, pur priva delle clausole illecite: “Una volta esclusa la idoneità della sola tutela risarcitoria, disgiunta dalla tutela reale, a garantire la realizzazione delle finalità perseguite dalla normativa antitrust, deve ritenersi che la forma di tutela più adeguata allo scopo, ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, sia la nullità parziale, limitata – appunto – a tali clausole. Né va tralasciato il rilievo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il menzionato principio generale di «conservazione» del negozio”.
A proposito dello statuto della nullità parziale, l’art. 1419, comma 1, c.c. prescrive che “La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”. Ebbene, tale regola – ignota al code civil, così come al codice civile del 1865 e recepita dall’esperienza tedesca – esprime un favore generale dell’ordinamento per la conservazione degli atti di autonomia negoziale. Ne deriva, pertanto, il carattere eccezionale dei casi di estensione all’intero contratto della nullità che colpisce una parte o una clausola. La parte che ha interesse a far accertare tale estensione della nullità – dalla clausola all’intero contratto – deve dimostrare l’interdipendenza sussistente tra la prima e il secondo, ossia che la clausola non ha un’esistenza autonoma ma è in “correlazione inscindibile con il resto” (valendo altrimenti il principio utile per inutile non vitiatur). Proprio in relazione alla vicenda d’interesse, è ben difficile che il fideiussore riesca a provare tale inscindibilità tra le clausole colpite da nullità e il resto del contratto; in altri termini, è arduo che egli possa dimostrare l’essenzialità di quelle clausole, e cioè che, in difetto delle medesime, il contratto non sarebbe stato concluso. Per converso, atteso che tali clausole (nn. 2, 6 e 8) prevedono benefici per la banca, è verosimile ritenere che il fideiussore avrebbe a fortiori stipulato un contratto privo di tali clausole (giacché per lui meno gravoso). Allo stesso modo, anche l’imprenditore bancario ha interesse a conservare un contratto di fideiussione nullo in parte qua rispetto all’alternativa costituita dalla invalidità totale del medesimo contratto.
Il Supremo Collegio chiarisce ulteriormente il rapporto sussistente tra intesa a monte e contratto a valle, richiamando la definizione secondo cui il contratto costituisce “lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti” (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207). Ragionando funditus, l’intesa e il contratto sono legati da un “collegamento funzionale”: siffatta connessione è infatti funzionale a produrre un effetto anticoncorrenziale. In particolare, il contratto a valle produce un effetto distorsivo della concorrenza sia nel caso in cui riproduca (in tutto o in parte) il contenuto dell’intesa dichiarata nulla, sia nel caso in cui riproduca una parte dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, sia quando violi di per sé la normativa antitrust. Le Sezioni Unite non condividono la tesi dottrinale che predica l’esistenza di un “collegamento negoziale” tra intesa e contratto attuativo, in quanto è ben possibile che l’atto anticoncorrenziale a monte non abbia natura di negozio giuridico, ut supra chiarito.
Né va dimenticato che ci troviamo di fronte ad un tipo di nullità speciale[10] – siccome non contemplata nella trama del codice civile ma risultante da un tessuto normativo diverso, costituito dagli artt. 101 TFUE e 2, lett. a) della legge n. 287/1990 – posta a presidio dell’interesse pubblico individuabile nell’ordine pubblico economico. È pur vero che l’istituto dell’ordine pubblico economico non è stato positivizzato dal legislatore italiano ma, ciò nonostante, ha trovato espresso riconoscimento nel diritto eurounitario. Invero, in caso di impugnazione di un atto perché ritenuto contrario all’ordine pubblico economico, il giudice nazionale è tenuto ad accogliere il gravame laddove ritenga detto atto contrastante con le norme europee relative a siffatto istituto (art. 101 TFUE).
In conclusione, è doveroso tener presente che accedere alla tesi della nullità (soltanto) parziale del contratto a valle comporta un corollario di non poco momento:
- i contratti di fideiussione siglati tra banca e garante, depurati dalle clausole nulle (perché anticoncorrenziali), restano validi ed efficaci;
- la nullità parziale può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Inoltre, anche nel caso in cui la parte formuli domanda di nullità integrale del contratto, il giudice è tenuto a rilevare comunque la nullità parziale del medesimo. Ciò nonostante, pur in presenza della indicazione officiosa della nullità parziale del contratto, le parti potrebbero non chiedere al giudice di compiere un accertamento sulla medesima; in tal caso, il giudice non potrà dichiarare detta nullità parziale e dovrà rigettare la domanda originaria di nullità integrale, determinandosi altrimenti una violazione del principio processuale della domanda (art. 99 e 112 c.p.c.);
- l’azione di nullità (parziale) è imprescrittibile e può essere avanzata anche domanda di ripetizione dell’indebito e domanda di risarcimento danni.
Il principio di diritto è enunciato nei seguenti termini dalla composizione più autorevole del Supremo Consesso: «i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti».
[1] Per ulteriori delucidazioni sul tema si consideri, altresì, il contributo apparso su Ius in Itinere e consultabile al seguente link: https://www.iusinitinere.it/lo-schema-abi-e-la-nullita-della-fideiussione-omnibus-35442#_ftnref1 (Dott.ssa F. Sorrentino).
[2] Cfr. R. GALLI, Appendice di aggiornamento al “Nuovo corso di diritto civile” e al “Nuovo corso di diritto penale”, CEDAM, Milano 2018, pp. 111 ss., secondo cui la nozione di intesa anticoncorrenziale (vietata) è più ampia rispetto al concetto civilistico di “accordo”, in quanto non è richiesto il carattere della giuridicità: “Ne consegue che, se da una parte è sufficiente che le imprese abbiano espresso la volontà concordata di assumere un certo comportamento sul mercato, allora, dall’altra, è del pari sufficiente che le parti abbiano espresso la volontà di porre l’obbligo anche su un piano extra-giuridico, meramente sociale (gentlemen’s agreements)”.
[3] Cfr. R. GALLI, op. cit., p. 114, in cui l’Autore afferma: “Trattasi, infatti, di condotte plurioffensive che lederebbero tanto gli operatori di mercato appartenenti alla categoria macro-economica, cioè, gli imprenditori lesi dalla violazione di norme sulla concorrenza da parte di altro concorrente, quanto quelli appartenenti alla categoria micro-economica, cioè, i consumatori che chiudono la filiera della produzione commerciale […]”.
[4] Con intento chiarificatore, tuttavia, si sostiene che questi casi non sarebbero problematici, in quanto – in presenza di un contratto con causa od oggetto anticoncorrenziale – si rientrerebbe de plano nella previsione della nullità testuale prevista dall’art. 1418, comma 2, c.c. Per converso, “il problema si pone quando il contratto ‘a valle’ abbia una causa propria lecita ed un oggetto altrettanto lecito […] e sia viziato semplicemente dalla circostanza che il contenuto del contratto è stato, in tutto o in parte, programmato ‘a monte’ nell’ambito del cartello” (R. GIOVAGNOLI, I contrasti nel diritto civile, Itaedizioni, Torino 2020, p. 178).
[5] L’orientamento è passato in rassegna da R. GALLI, op. cit., p. 115. In tale ultimo luogo è dato leggere che “La violazione delle regole di comportamento incide negativamente sulla libertà di autodeterminazione contrattuale della controparte, comportando la mancata libera e consapevole determinazione nella definizione del contenuto dell’accordo, con conseguente responsabilità precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c. Sostanzialmente, con riferimento ai contratti a valle di intese anticoncorrenziali vietate a monte è stata applicata la teoria dei c.d. vizi incompleti del contratto, con possibilità per il contraente leso di ottenere il solo risarcimento del danno (interesse positivo) consistente nel maggior aggravio o minor vantaggio rispetto alle condizioni a cui sarebbe stato stipulato il contratto senza l’interferenza del comportamento scorretto. Trattasi di fattispecie analoga all’art. 1440 c.c. […]”. Alla tesi della validità del contratto a valle pare invece aderire R. GIOVAGNOLI, op. cit., pp. 182 e ss., che adduce diversi argomenti a sostegno, si allinea al pensiero di chi afferma che la comminatoria della nullità di tutti i contratti a valle realizzerebbe un effetto di overdeterrence della norma antitrust, ammettendo, però, in ultima analisi, che “anche il rimedio della nullità parziale porterebbe a risultati accettabili”.
[6] Link di consultazione della sentenza: http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20211230/snciv@sU0@a2021@n41994@tS.clean.pdf.
[7] Recente è la novella dell’art. 41, comma 2, Cost., il cui disposto prevede attualmente che “Non può svolgersi (l’iniziativa economica privata, ndr) in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
[8] Pertinente è il concetto di c.d. private enforcement, ovverosia l’insieme degli strumenti di tutela e promozione della concorrenza che si collocano su un livello privatistico, a valle: sono presidiate le posizioni giuridiche soggettive tanto degli imprenditori quanto dei consumatori, che dovessero subire lesioni (cfr. R. GALLI, op. cit., pp. 108 ss.).
[9] Di rilievo è la nozione di c.d. public enforcement, vale a dire l’insieme degli strumenti di tutela e promozione della concorrenza che si collocano su un livello pubblicistico, a monte: è presidiato il mercato concorrenziale, attraverso misure volte a garantire la “tutela ‘nel’ mercato” e la “tutela ‘per’ il mercato” (ibidem).
[10] Le Sez. Un. aggiungono, per evidenziare la diversità di tale specie di nullità rispetto a quelle previste dal nostro ordinamento, che “[…] siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 cod. civ.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la «nullità di protezione» nei contratti del consumatore (cd. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (cd. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un «nesso funzionale», non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale”.
Dottore magistrale in Giurisprudenza, nato nel 1993.
Dopo il conseguimento della maturità classica presso l’Istituto “F. De Sanctis” di Sant’Angelo dei Lombardi, decide di proseguire gli studi presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli “Federico II”.
Nel mese di ottobre del 2018 consegue il diploma di laurea con votazione finale di 110 e lode (media ponderata del 29/30), discutendo una tesi in Filosofia del diritto, intitolata “Una rilettura filosofico-giuridica dell’Antigone di Sofocle“, sotto la guida del Prof. Fabio Ciaramelli. L’argomento prescelto per l’elaborato conclusivo gli permette di portare a sintesi (nel limitato orizzonte redazionale della tesi stessa) i percorsi formativi seguiti e la passione per il diritto e la letteratura.
Nel mese di settembre 2020 conclude il periodo di tirocinio formativo e di pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, conseguendo i relativi titoli necessari per l’accesso all’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e per la partecipazione al concorso in magistratura.
Ha seguito corsi di formazione in vista del concorso pubblico da ultimo menzionato.
Ѐ iscritto nel registro dei praticanti avvocati dell’Ordine degli Avvocati di Avellino.
Collabora con l’area di Diritto Civile della rivista giuridica Ius in itinere dal mese di aprile 2021.
E-mail: francesco.zoppi12@gmail.com
Profilo LinkedIn: https://www.linkedin.com/in/francesco-zoppi-67a067180/