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Obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali per i piccoli Comuni: si pronuncia la Consulta

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità delle norme che hanno imposto, per i Comuni di piccole dimensioni, la gestione associata delle funzioni fondamentali.

La sentenza del 4 marzo 2019, n. 33 ha accolto parzialmente le questioni di legittimità sollevate, con ordinanza n. 1027/2017, dalla sezione I-ter del T.A.R. Lazio, relativamente all’obbligo di esercizio delle funzioni fondamentali per i Comuni di piccole dimensioni (aventi, cioè, popolazione inferiore a 5.000 abitanti ovvero, in caso di Comuni montani, inferiore a 3.000 abitanti) previsto dall’art. 14, commi 26 ss., del d.l. 78/2010[1].

In particolare, le questioni rimesse alla Corte Costituzionale riguardavano:

  • l’esercizio obbligatorio per l’ente locale, prevista dal comma 26, delle “funzioni fondamentali” individuate specificamente dal successivo comma 27;
  • l’esercizio obbligatorio in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, delle funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l), per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d’Italia;
  • le successive norme di contorno, di cui ai commi successivi, che fissano il divieto di svolgere le funzioni singolarmente o mediante più di una forma associativa (comma 29), demandano alle Regioni l’individuazione della dimensione territoriale ottimale per il predetto esercizio associato (comma 30) e definiscono il limite demografico minimo che le forme associate devono raggiungere (comma 31).

La chiamata in causa della Consulta faceva seguito ad un giudizio dinnanzi al T.A.R. Lazio promosso da alcuni comuni della Regione Campania (tra cui il Comune di Liveri) aventi popolazione inferiore ai 5.000 abitanti per l’annullamento della Circolare del Ministero dell’Interno[2] recante “Esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unioni o convenzioni da parte dei comuni”, con cui si imponeva alle Prefetture di procedere alla ricognizione dello stato di attuazione della normativa e di diffidare i Comuni inadempimenti, secondo specifiche tempistiche e modalità.

La Corte costituzionale ha, in primo luogo, differenziato le norme oggetto del suo scrutinio in due gruppi:

  • da un lato, quello formato dai commi 26 e 27 (fissazione dell’obbligo di esercizio delle funzioni fondamentali ed elenco di queste ultime);
  • dall’altro, quello di cui ai commi 28 ss. (imposizione dell’obbligo di gestione associata).

1. Per quanto concerne il primo gruppo, la Consulta ha dichiarato le questioni sollevate inammissibili per difetto di rilevanza, dal momento che “l’interesse alla tutela azionata dai ricorrenti è scaturito non in relazione alla individuazione, in quanto tale, delle funzioni fondamentali, quanto piuttosto dalla preclusione a gestirle da parte di ciascun Comune autonomamente, effetto questo riconducibile solo alle disposizioni contenute nei commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, nonché nell’art. 1,commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014”.

2.1. Per quanto concerne, invece, il secondo gruppo, la Consulta ha innanzitutto respinto la questione incentrata sul parametro della carenza dei presupposti di necessità e di urgenza per l’adozione del decreto-legge censurato, ex art. 77, comma 2, Cost., precisando che l’oggetto del giudizio riguardava non solo il d.l. 78/2010 (cui l’ordinanza di rimessione esplicitamente si riferiva nel dispositivo), ma anche il successivo d.l 95/2012, modificativo di alcune delle norme dal primo introdotte. La Corte ha richiamato la propria pregressa giurisprudenza sul sindacato riguardante i presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost., circoscritto alla “evidente mancanza di tali presupposti”[3] o alla “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione”[4], sulla base di una pluralità di indici intrinseci ed estrinseci. Nel caso di specie, non sussisterebbe tale “evidente mancanza”, “alla luce del titolo dei provvedimenti, dei rispettivi preamboli e del contenuto complessivo delle disposizioni introdotte”, trattandosi di norme “dirette ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni”[5] e dal legislatore introdotte per favorire “un contenimento della spesa pubblica, creando un sistema tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni, che mira ad un risparmio di spesa”[6], avuto specialmente riguardo al numerosi enti potenzialmente coinvolti[7]. La Corte Costituzionale ha ricordato, da un lato, che “è un dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada in primo luogo intesa quale potere di indirizzo politico-amministrativo”[8], ma ha ribadito, dall’altro lato, che “già da tempo sono previsti gli istituti della unione e della convenzione, che stabiliscono modalità di attuazione delle scelte di indirizzo politico di ciascun ente tramite la mediazione di specifiche strutture comuni”. Alla luce di quanto esposto, sul punto è giunta alle seguenti conclusioni:

  • un ipotetico vincolo costituzionale che imponesse la coincidenza, in un unico soggetto istituzionale, della funzione di indirizzo politico con quella di indirizzo amministrativo risulterebbe già violato dalla previsione della forma associativa in sé stessa, “a prescindere dal fatto che questa risulti obbligatoriamente imposta”, in quanto sarebbe “la stessa forma associativa, costituendo […] un ‘sistema di governo locale acefalo’, a risultare lesiva, nel contesto dell’autonomia comunale, dell’archetipo del principio rappresentativo e delle sue necessarie implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla comunità locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo in scelte di politica amministrativa”; ma tale conclusione “appare palesemente insostenibile, posto che le forme associative risultano pur sempre una proiezione degli enti stessi, come affermato da questa Corte in più occasioni”[9];

  • anche nella più stringente forma di associazione, ossia l’unione di Comuni (la quale è provvista di propri organi), il meccanismo della rappresentanza di secondo grado “appare compatibile con la garanzia del principio autonomistico, dal momento che, anche in questo caso, non può essere negato che venga ‘preservato uno specifico ruolo agli enti locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato ottimale’”[10].

2.2. Muovendo da tale ragionamento, la Corte ha chiarito che il punto centrale delle questioni sollevate  non era, quindi, la previsione della forma associativa tra i Comuni, quanto piuttosto il fatto che venga imposto l’obbligo della forma associativa per l’esercizio delle funzioni fondamentali. Qui la Corte, a difesa della norma, ha chiarito che:

  • la legge impugnata (in particolare, il comma 28 dell’art. 14 cit.) lascia all’autonomia degli enti locali interessati l’alternativa tra due istituti (convenzione e unione), i cui caratteri costitutivi e funzionali consentono agli enti stessi di modulare il rispetto della norma con valutazioni proprie dell’indirizzo politico;
  • il (pur ravvisabile) sacrificio dell’autonomia comunale si giustifica alla luce della “finalità della disciplina, che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di efficienza – e in particolare a quello della mancanza di economie di scala – dei piccoli Comuni” ed il relativo intervento dello Stato rientra – come già detto – nella potestà statale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica.

2.3. Quest’ultimo riferimento conduce, però, alla prima declaratoria di incostituzionalità, in quanto – ricorda la Corte – “gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato”[11]; da questo punto di vista, nel caso di specie accade che:

  • la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione di quella indicata dalla lettera l) del comma 27, in materia di tenuta dei registri di stato civile e di servizi anagrafici ed elettorali) sconta “un’eccessiva rigidità, al punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina”;

  • possono darsi situazioni di fatto che male si attagliano alla previsione generale e astratta della norma (si pensi ai casi in cui: “a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari ‘fattori antropici’, ‘dispersione territoriale’ e ‘isolamento’, di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta”); insomma, possono darsi casi “in cui l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale”, ed allora “il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità”;

  • pertanto, per evitare che la rigidità della disciplina possa condurre, irragionevolmente, ad effetti contrari alle finalità che la giustificano, la Corte emette qui una pronuncia additiva, dichiarando l’incostituzionalità del comma 28 “nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento”; con l’ulteriore avvertenza che “Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, dall’altro, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che richiedono apposita regolamentazione” [12];

  • sul punto, peraltro, la Corte non manca di evidenziare i “gravi limiti che, rispetto al disegno costituzionale, segnano l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale italiana, dove le funzioni fondamentali risultano ancora oggi contingentemente definite con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali” (come era già accaduto con la legge n. 42 del 2009, allorquando l’individuazione, allora solo provvisoria, delle funzioni fondamentali era stata meramente funzionale a permettere la disciplina del c.d. federalismo fiscale) e di bacchettare, conseguentemente, il legislatore (“il problema della dotazione funzionale tipica, caratterizzante e indefettibile, dell’autonomia comunale non è, quindi, stato mai stato risolto ex professo dal legislatore statale, come invece avrebbe richiesto l’impianto costituzionale risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione”);

  • la Corte quindi si appella ad una “fisiologica dialettica”, improntata a una “doverosa cooperazione da parte del sistema degli attori istituzionali, nelle varie sedi direttamente o indirettamente coinvolti”, al fine di raggiungere l’obiettivo di “una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia locale”, in cui trovino adeguata considerazione anche “i limiti – da tempo rilevati – dell’ordinamento base dell’autonomia locale, per cui le stesse funzioni fondamentali – nonostante i principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui all’art. 118, Cost. – risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una popolazione di poche decine di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi”; e ricorda qui la Corte l’esperienza di altri Paesi europei, dove il problema della “polverizzazione dei Comuni” è stato affrontato “attuando la differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale”, come avvenuto, ad esempio, nell’ordinamento francese, “dove il problema è stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni” (si compie un accenno, altresì, anche alle esperienze della Germania, del Regno Unito, della Svezia, della Danimarca, del Belgio e dell’Olanda).

3. La Corte ha invece giudicato non fondato, sempre con riguardo all’imposto obbligo di associazione tra piccoli Comuni, il profilo di costituzionalità incentrato sul parametro dell’autonomia organizzativa e finanziaria degli Enti locali, dal rimettente argomentato nel senso che l’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali finirebbe con il comportare “l’estinzione dell’ente locale per fusione o incorporazione” (con aggiramento del procedimento imposto dall’art. 133 Cost.): la Corte in proposito rileva che l’introduzione del menzionato obbligo “non presenta alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni” e “non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente modifica delle circoscrizioni territoriali”.

4. Quanto, infine, alla questione di legittimità concernente la norma regionale campana che, in attuazione della legge statale, ha individuato la dimensione territoriale ottimale ed omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, la Corte emette anche qui una decisione di accoglimento per “mancata previa concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali” (concertazione che è richiesta dal comma 30 dell’art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010), con violazione degli artt. 5, 114 e 97 Cost.: risulta, infatti, infranto il principio, affermato già nella sentenza n. 229 del 2001, cit., del necessario coinvolgimento,“per le conseguenze concrete che ne derivano sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi dell’autonomia comunale”, degli enti locali infra regionali nelle determinazioni regionali che investono l’allocazione di funzioni tra i diversi livelli di governo, “anche di natura associativa”.


[1] Successivamente convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dal decreto legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012 (c.d. decreto Spending Review).
[2] Circolare del Ministero dell’Interno, 12 gennaio 2015
[3] cfr., da ultimo, la sentenza 18 gennaio 2018, n. 5, in Foro it., 2018, I, 710, con nota di PASCUZZI, in Nuova giur. civ., 2018, 881, con nota di TOMASI, ed in Giur. cost., 2018, 38, con nota di PINELLI
[4] cfr. sentenza 12 luglio 2017, n. 170, in Giur. cost., 2017, 1555, con nota di PINELLI
[5] così il comma 25 dell’art. 14 cit.
[6] cfr. sentenza 11 febbraio 2014, n. 22, in Le Regioni, 2014, 791, con nota di CORTESE
[7] la Corte qui precisa che “alla fine del 2010 i Comuni fino a 5.000 abitanti erano, infatti, 5.683 su 8.092, pari a circa il 70 per cento del totale dei Comuni italiani
[8] con richiamo alla sentenza 27 marzo 1987, n. 77, in Cons. Stato, 1987, II, 727, con nota di STADERINI, in Riv. giur. polizia locale, 1987, 595, con nota di VICICONTE, in Riv. amm., 1987, 728, con nota di FELICETTI, ed in Le Regioni, 1987, 1033, con nota di COLUCCI
[9] si citano, qui:la sentenza 23 dicembre 2005, n. 456, in Giust. amm., 2005, 1266, con nota di GIORDANO, ed in Le Regioni, 2006, 542, con nota di GIUPPONI; la sentenza 24 giugno 2005, n. 244, in Giorn. dir. amm., 2005, 1033, con nota di SCIULLO; la sentenza 6 luglio 2001, n. 229, in Dir. e giustizia, 2001, 29, 26, con nota di POGGI
[10] così la sentenza n. 160 del 2016, cit.), posto che, a norma dell’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, il previsto modo di elezione e di composizione del Consiglio dell’unione è tale da assicurare la rappresentanza di ogni Comune e di garantire la rappresentanza delle minoranze
[11]ex plurimis, cfr. sentenza n. 22 del 2014, cit.
[12] cfr. la sentenza 26 aprile 2018, n. 88, in Giur. it., 2018, 2123, con nota di PARISI, e la sentenza 7 aprile 2011, n. 113, inForo it., 2013, I, 802, con nota di CALÒ

Andrea Amiranda

Andrea Amiranda è un Avvocato d'impresa specializzato in Risk & Compliance, con esperienza maturata in società strategiche ai sensi della normativa Golden Power. Dal 2020 è Responsabile dell'area Compliance di Ius in itinere. Contatti: andrea.amiranda@iusinitinere.it

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