martedì, Aprile 23, 2024
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Pass vaccinale o impasse giuridico?

Nel nostro Paese l’emergenza sanitaria da nuovo Coronavirus ha insinuato, e continua ad insinuare, dubbi ed incertezze di vario genere non soltanto in ambito medico-scientifico. Difatti, i nodi giuridici che si sono originati dall’attuale contesto epidemico e, in particolar modo, dalle varie scelte strategiche relative alle misure di contenimento del contagio, non sono né pochi, né di scarso rilievo, anzi. Basti pensare alla disputa sulla presunta illegittimità del coprifuoco o dell’obbligo di munirsi di apposita autocertificazione per giustificare l’uscita di casa. Insomma, a ben vedere, protagonisti indiscussi di questi mesi, aprendo la strada ad interrogativi spesso di non facile risoluzione, sono stati i pericoli di distorsione dei diritti e delle libertà fondamentali garantite dalla nostra Carta Costituzionale.

Nel corso delle ultime settimane, però, ad aver rubato le scene provocando accesi dibattiti è stato il nuovo strumento del pass vaccinale, menzionato ed illustrato dal premier Mario Draghi in occasione della presentazione del cd. “decreto riaperture” varato dal governo lo scorso aprile, approfittando dell’occasione per far presente alla nazione che “a partire dalla seconda metà di giugno sarà pronto il Green pass europeo. Nell’attesa, il governo italiano ha introdotto un pass verde nazionale, che entrerà in vigore già a partire dalla seconda metà di maggio[1] e consentirà gli spostamenti anche tra le Regioni e le Province autonome in zona arancione o zona rossa”.

Ma, in concreto, in cosa consiste il pass vaccinale e, soprattutto, in che modo funzionerà?

Il Parlamento europeo, su proposta della Commissione e dopo il placet del Consiglio, ha approvato il Digital Green Certificate, uno strumento creato ad hoc con lo scopo di attestare vaccinazioni, eventuali negatività e guarigioni dal Covid19 in modo uniforme ed omogeneo nell’Unione Europea, il quale, come dichiarato dal commissario europeo al Mercato Interno a capo delle task force sui vaccini Thierry Breton, dovrebbe essere “pronto all’uso” già a partire dal prossimo giugno.

La sua utilità è chiara: permettere la circolazione all’interno dell’Unione Europea e consentire viaggi e spostamenti tra gli Stati Membri. Attenzione, è bene sottolineare che il passaporto verde della Commissione avrà ad oggetto solo e soltanto gli spostamenti in Europa, e non anche quelli all’interno dei singoli Stati Membri. Una puntualizzazione, questa, dovuta, lasciando inteso che sarà premura di ciascuno Stato dotarsi, a livello nazionale, di uno strumento adeguato a tal fine, proprio come sta facendo in questi giorni l’Italia.

Tutto questo, com’è evidente, in deroga al principio di libertà di circolazione così come previsto e garantito dai Trattati istitutivi e così come recepito dalla nostra Costituzione. Ma siamo sicuri sia questo l’unico principio (rectius: diritto) che si vedrebbe violato?

L’articolo 32 della Costituzione definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, chiarendo al secondo comma che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Così facendo, il legislatore ha definito i confini dell’obbligatorietà dei trattamenti sanitari (tra i quali si devono annoverare anche i vaccini), prevedendo all’uopo una riserva di legge a garanzia dell’eventualità che, in materie particolarmente delicate, come nel caso dei diritti fondamentali, le decisioni vengano prese dal Parlamento, il più alto organo rappresentativo del potere sovrano.

Ciò posto, e ribadito il carattere facoltativo dell’adesione alla campagna vaccinale, viene da sé che la previsione di un certificato recante informazioni sulla sottoposizione del cittadino al vaccino – al fine di poter avere accesso a determinati luoghi (come ad esempio aeroporti, stazioni, cinema, ecc.) e la fruizione di tutta una serie di servizi (di svago, di libera esplicazione della propria personalità, di circolazione) – non avrebbe altra conseguenza se non quella di produrre un effetto-paradosso. Invero, si aprirebbe la strada ad un trattamento palesemente discriminatorio nei confronti di coloro i quali dovessero decidere di non ricevere la dose di vaccino, andando a minare la sua natura facoltativa, con la conseguenza di trasformarlo, di fatto, in obbligatorio. E’ quanto sostenuto anche dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, la cui vice Presidente ribadendo che “non sono ammissibili forme alcune di discriminazione, nel senso di limitazione e compressione di diritti […] ciò anche alla luce del dettato dell’art.32 della Costituzione che vieta ogni forma di trattamento sanitario obbligatorio, in assenza di una espressa, e perciò eccezionale, previsione di legge, e fatto salvo in ogni caso il rispetto della persona umana”, sottolinea, allo stesso tempo, la necessità per lo Stato di dotarsi di una norma di legge tale da garantire su tutto il territorio nazionale la chiarezza e l’uniformità del precetto legislativo. Il “no” secco del Garante, infatti, era giunto già con comunicato del 1° marzo 2021, non lasciando, in merito all’opportunità del pass vaccinale, così congegnato, alcun dubbio di sorta.

Dati personali: quando (e quanto) sacrificarli?

La preoccupazione principale in merito all’introduzione della certificazione verde, ad ogni modo, si è proiettata sull’obbligo relativo all’osservanza della disciplina in materia dei dati personali. Verrebbe, dunque, da chiedersi: perché tanta apprensione?

Ebbene, il Regolamento generale per la protezione dei dati personali 2016/679 (di seguito GDPR) effettuando una puntuale classificazione dei dati personali attribuibili all’individuo, ha operato varie specificazioni, tra cui figurano le “categorie particolari di dati personali”, per loro natura particolarmente sensibili e bisognosi di un più elevato livello di tutela. In questa tipologia, rientrano proprio i dati relativi alla salute, i quali sono definiti dallo stesso GDPR come “i dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute”. Com’è evidente, sono da ricomprendere in questa categoria anche i dati relativi allo stato vaccinale, accomunati da un alto grado di sensibilità e per questo da trattare con assoluta cautela, in modo tale da evitare eventuali degenerazioni e conseguenze oltremodo dannose, come discriminazioni, violazioni e possibili rischi su larga scala per i diritti e le libertà costituzionalmente tutelati.

Ciò che desta particolare preoccupazione è, specialmente, l’utilizzo eccessivo che si farebbe, in sede di controllo, dei suddetti dati inseriti all’interno del certificato vaccinale, in violazione del principio di minimizzazione[2], il quale impone che, per essere dichiarato lecito, il trattamento dei dati deve essere rivolto soltanto a quelli definiti indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per le quali quei dati specifici sono stati raccolti e, di conseguenza, trattati[3].

A rendere, poi, ulteriormente ambiguo il predetto utilizzo, contribuirebbe la mancanza di precisione con riguardo proprio alle finalità del trattamento dei dati sulla salute degli italiani, aprendo il varco ad indefiniti ed imprevedibili impieghi futuri di detti dati. Ancora, ad essere incompleta è anche l’indicazione relativa al titolare del trattamento, in violazione del principio di trasparenza[4], rendendo così non poco ostico l’esercizio dei diritti da parte degli interessati, in caso in cui, ad esempio, le informazioni contenute nelle certificazioni risultino errate. Quelle stesse informazioni per cui non è stato previsto nemmeno un lasso di tempo massimo di conservazione[5].

Di fronte a tali criticità, non resta che chiedersi se è davvero questa l’unica strada percorribile o se non fosse il caso, questo, di effettuare valutazioni ad ampio raggio e costituzionalmente orientate in modo da realizzare un equo bilanciamento tra l’interesse pubblico che si intende perseguire e l’interesse individuale alla riservatezza[6].

Come ha dichiarato il Presidente del Garante privacy, Pasquale Stanzione, in un suo recente intervento nel quale espone quelle che sono le rimostranze dell’Autorità riguardo la scarsa attenzione e poca lungimiranza verso i temi della privacy, “di fronte alla pandemia, non c’è bisogno di deroghe, ma di dialogo istituzionale per realizzare il miglior equilibrio tra gli interessi in gioco, ricordando- con Ahron Barak- che la democrazia lotta sempre con una mano dietro la schiena”.

 

[1] I requisiti per ottenere il pass, che potrà essere rilasciato anche dal medico di famiglia, spetteranno a:

  • chi ha completato il ciclo di vaccinazione (dura sei mesi dal termine del ciclo prescritto);
  • chi si è ammalato di covid ed è guarito (dura sei mesi dal certificato di guarigione);
  • chi ha effettuato test molecolare o test rapido con esito negativo (dura 48 ore dalla data del test).

[2] Il principio di minimizzazione dei dati è sancito dal combinato disposto degli articoli 5 e 6 del GDPR. In particolare, all’art. 5 rubricato “Principi applicabili al trattamento di dati personali”, alla lettera c si specifica che i dati personali devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”.

[3] Per un approfondimento più analitico sulle regole cui rifarsi per un corretto trattamento dei dati personali: S. Marcelli, “Dati personali, dati anonimi e ‘accountability’” (https://www.iusinitinere.it/dati-personali-dati-anonimi-e-accountability-36721)

[4] Il principio della trasparenza all’interno del GDPR viene enunciato dall’articolo 5, paragrafo 1, lettera a) il quale, indicando i principi applicabili al trattamento, sottolinea che “i dati personali devono essere trattati in modo lecito, corretto e trasparente”. Il successivo articolo 12, poi, rubricato “Informazioni, comunicazioni e modalità trasparenti per l’esercizio dei diritti dell’interessato”, specifica quelle che devono essere misure appropriate che il titolare del trattamento deve adottare per fornire all’interessato tutte le informazioni relative ai suoi diritti.

Per chiarezza, in realtà già il Considerando 39 poneva una solida base al principio considerato, rendendo noto che da un lato la trasparenza è un principio generale che deve informare di sé ogni trattamento, mentre dall’altro esso “riguarda, in particolare, l’informazione degli interessati sull’identità del titolare, le finalità del trattamento e ulteriori informazioni per assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo alle persone fisiche interessate e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che la riguardano”.

[5] All’art. 5, comma 1, lettera e), del GDPR è previsto che i dati personali devono essere “conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati”. A tal riguardo, è da evidenziare l’ipotesi, prevista dal Regolamento, di trattenere i dati per periodi più lunghi a condizione, però, che questi siano trattati esclusivamente a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, previa attuazione di adeguate misure tecniche e organizzative a tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato (cd. principio di “limitazione della conservazione”).

[6] Per un’indagine più dettagliata sull’importanza di accordare protezione ai dati personali: F. Carlino, “L’origine della privacy e l’esigenza di tutelare i dati personali” (https://www.iusinitinere.it/lorigine-della-privacy-e-lesigenza-di-tutelare-i-dati-personali-29245).

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