venerdì, Marzo 29, 2024
Labourdì

Patto di prova: dall’art. 2096 c.c. all’ammissibilità della prova apposta in contratti successivi (Cassazione, ord. n. 28252/2018)

Al contratto di lavoro subordinato può essere apposta una clausola con cui le parti subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di prova.
L’apposizione del cosiddetto Patto di Prova comporta che nel corso della sua pendenza, le parti possono recedere liberamente dal contratto senza obbligo di preavviso.
Questo è quanto disposto dall’art. 2096 c.c., recante per l’appunto “assunzione in prova”, che sancisce questo importante elemento del contratto di lavoro subordinato.

In riferimento a tale specifico argomento, si può affermare che si è molto discusso sulla natura giuridica del patto di prova [ 1] : se si può considerare ormai assodata la natura di elemento accidentale del contratto di lavoro, al contrario vi sono molteplici e variegate ricostruzioni giuridiche proposte in tal senso.
I principali orientamenti qualificano il patto di prova come una condizione sospensiva[ 2 ] e cioè che il contratto di lavoro “in prova” implicherebbe in capo a datore di lavoro e lavoratore solo un’aspettativa reciproca collegata “ad una fase temporale in cui entrambi i contraenti hanno accertato la reciproca convenienza a stipulare il contratto”; in tal senso, se durante il periodo di prova le parti non trovano convenienza a proseguire nel rapporto, esse possono recedere liberamente dallo stesso senza fornire motivazioni particolari a riguardo.
Decisamente diverso è l’orientamento che qualifica il patto di prova nell’ambito della condizione risolutiva: esso afferma che il contratto (la fattispecie contrattuale) risulterebbe completo, anche se condizionato agli esiti negativi della prova.
Risulta evidente come la migliore configurazione giuridica della “prova” sia quest’ultima della condizione risolutiva, anche se è opportuno tenere sempre conto delle problematicità insite nell’interpretazione del 2096 c.c. e dell’ampia disciplina generatasi proprio dallo stesso articolo che di conseguenza comporta vari punti di vista.

E’ utile, in tal senso, andare a concentrare l’attenzione sulla funzione originaria e fondamentale del patto di prova: come accennato in precedenza, esso rappresenta un determinate strumento a tutela di entrambe le parti del rapporto lavorativo, con la finalità di consentire ad esse di sperimentare la convenienza dello stesso, per esempio con riferimento alle mansioni assegnate o al contesto aziendale (rapporti con gli altri dipendenti, luogo ed orario di lavoro).
Secondo quanto disposto dall’art. 2096, co. 1 c.c., il patto di prova deve risultare da atto scritto; naturalmente, è ormai attestato che il requisito formale richiesto vada inteso ab substantiam, quindi a pena di nullità della clausola (qualora non vi sia apposto il patto di prova in forma scritta, esso inficia la clausola medesima). Si tratta, però, di nullità parziale ex art. 1419, co. 2[ 3 ] c.c., e di conseguenza l’inosservanza della forma scritta “rende l’assunzione definitiva sin dal momento della stipulazione del contratto e non, invece, dal momento in cui il periodo di prova è compiuto con successo”[ 4 ].

Vi sono ulteriori precisazioni anche in riferimento al contenuto del patto di prova che dev’essere apposto nel contratto: secondo la giurisprudenza prevalente, il patto di prova apposto deve contenere anche le mansioni che il lavoratore deve espletare; l’omessa indicazione di tale precisazione comporta la nullità della clausola. La ratio che sta alla base di tale disposizione riguarda la necessità che i compiti e le mansioni debbano essere, fin dal principio del rapporto di lavoro, ben chiare, dando così la possibilità al lavoratore di impegnarsi secondo un programma definito, dal quale poi dimostrare le sue capacità e il suo valore in relazione all’attività dell’impresa.
Viene, inoltre, definita la possibilità anche di definire le mansioni da esperire tramite il rinvio al contratto collettivo (per relationem).

L’art. 2096 c.c. non prevede specifiche riguardanti la durata del patto di prova; essa viene stabilita dalla contrattazione collettiva, e risulta normalmente in 6 (sei) mensilità[ 5 ]. Compiuto positivamente il periodo di prova, qualora nessuna delle due parti receda, il rapporto di lavoro diviene definitivo e il servizio prestato (durante il periodo di prova) si computa nell’anzianità aziendale del lavoratore.

Nonostante la disposizione altamente “paritaria” che si evince da un’interpretazione tradizionale dell’art. 2096 c.c., e cioè l’impostazione di tutela che viene fornita ad entrambe le parti nel valutare la convenienza del rapporto di lavoro (e la successiva libera recedibilità), il patto di prova si configura, nell’atto pratico, come un possibile strumento a disposizione dell’imprenditore che lo utilizza, non di rado, per selezionare e valutare il personale da assumere.
La clausola di prova deve essere apposta anche ai contratti a termine, di formazione e lavoro, nonché di apprendistato e di lavoro in somministrazione.
La giurisprudenza prevalente favorisce la diffusione del patto di prova, sostenendo la legittimità dello stesso, apposto a contratti di lavoro successivi (uno dietro l’altro); tale tendenza risulta ancor più veritiera se si riflette sulla propensione dei datori di lavoro di far precedere il contratto di lavoro a tempo indeterminato da molteplici tipi contrattuali “flessibili” quali il lavoro a tempo determinato o la somministrazione (anche se il decreto dignità sta cercando di ridurre tale orientamento per favorire la stipulazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato).

In quest’ottica si inserisce una recentissima importante sentenza della Corte di Cassazione, ordinanza n. 28252[ 6 ], nella quale la Corte interviene (nonché ritorna) sul tema della legittimità della ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro.
Nel caso di specie, la lavoratrice (“ricorrente”), assunta dalla società (“controricorrente”) con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivo ad un altro a tempo determinato (la distanza temporale tra i due contratti era di un anno e mezzo), impugnava giudizialmente il licenziamento che le era stato irrogato con la motivazione di mancato superamento del periodo di prova. La ricorrente, a fondamento della sua domanda, deduceva la nullità del patto di prova e la conseguente inefficacia del licenziamento, in quanto essa affermava di aver già superato il periodo di prova nello svolgimento del precedente contratto a tempo determinato, per lo svolgimento delle medesime mansioni.
La Cassazione, rigettando il ricorso della ricorrente, riprende una sentenza passata, nella quale ha affermato che “la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto. E’, peraltro, ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati tra le stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute”[ 7 ].

I principi appena esposti evidenziano, in primo luogo, la legittimità dell’apposizione del patto di prova anche nel caso di più contratti di lavoro successivi aventi ad oggetto le medesime mansione, in quanto ciò risulta funzionale al datore di lavoro al fine di verificare non solo le qualità professionali del soggetto, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore, quali aspetti suscettibili di modificazioni e variazioni nel tempo, per l’intervento di molteplici fattori riferenti alla vita personale del soggetto stesso.
Conformemente a quanto affermato, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, valutando dunque ammissibile il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova.

Viene, dunque, sancito il principio dell’ammissibilità dell’apposizione del patto di prova anche in due contratti di lavoro successivi l’uno all’altro, purché tale clausola apposta sia finalizzata alla controllo e alla verifica del comportamento del lavoratore, quale elemento modificabile nel tempo, e quindi oggetto “plausibile” di valutazione da parte del datore di lavoro.
L’ordinanza in questione, di cui si è trattato, è liberamente consultabile sul portale online della Corte Suprema di Cassazione[ 8 ].

 

[ 1 ] Esposito M., Gaeta L., Santucci R., Viscomi A., Zoppoli A., Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, Mercato, Contratto e Rapporti di lavoro, edizione 2016.
[ 2 ] Brevemente si dirà che la condizione si configura come un elemento accidentale del contratto, disciplinato dall’art. 1353 c.c., e si identifica come un avvenimento futuro ed oggettivamente incerto dal quale le parti fanno dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto. La condizione può essere sospensiva, ed in tal senso il contratto produrrà effetti solo se essa si avvererà, oppure può essere risolutiva, cioè gli effetti del contratto verranno automaticamente meno qualora la condizione stessa si avveri. In ogni caso, gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al momento in cui è stato concluso il contratto.
[ 3 ] L’art. 1419 co. 2 dispone che in caso di nullità di singole clausole, essa non comporta la nullità del contratto qualora le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.
[ 4 ] Esposito M., Gaeta L., Santucci R., Viscomi A., Zoppoli A., Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, Mercato, Contratto e Rapporti di lavoro, edizione 2016, e Cassazione, Sez. Un. Civili, sentenza n. 1756, 9 Marzo 1981.
[ 5 ] Il contratto collettivo nazionale di riferimento stabilisce durate variabili del periodo di prova, per l’appunto diversificate in riferimento alla qualifica e al livello contrattuale del lavoratore assunto.
[ 6 ] Cassazione, Sez. Lav., ordinanza n. 28252, 6 Novembre 2018.
[ 7 ] Cassazione, Sez. Lav., sentenza n. 15960, 29 Luglio 2005.
[ 8 ] http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

Andrea Polizzese

Praticante Consulente del Lavoro in attesa di abilitazione professionale, appassionato studioso di Diritto del Lavoro e Diritto della Sicurezza Sociale. Laureato Magistrale presso l'Università degli Studi Magna Grecia di Catanzaro, corso di Laurea "Analisi e Gestione dei Sistemi Organizzativi" (Organizzazione e Mutamento Sociale, LM-63).

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