Per i tempi determinati non basta più l’indennità di legge
A cura di Federico Fornaroli
Se con il Jobs Act si era pensato di riscrivere, in un unico testo normativo, le varie discipline per regolare le molteplici fattispecie contrattuali in essere in Italia al fine di semplificare le stesse, ad oggi, invece, si assiste ad un costante ridimensionamento significativo di dette disposizioni.
Infatti, il Decreto-Legge concernente le misure per rimediare a quanto individuato dalle procedure di infrazione UE nei confronti dell’Italia e approvato dal Governo il 4 settembre u.s. ripropone uno strumento a tutela del lavoratore di cui ormai il nostro ordinamento si era piacevolmente dimenticato.
In particolare, viene ripristinato il diritto per il dipendente a tempo determinato che ottenga una pronuncia giudiziale di conversione di tale rapporto in tempo indeterminato a percepire, oltre all’indennità di legge correntemente già prevista dalle norme vigenti, un risarcimento del danno, qualora ne dimostri la sussistenza dinanzi al giudice competente.
Dunque, si può parlare di c.d. “maggior danno” sentenziato dal tribunale adito, in aggiunta alla somma attualmente applicata che, ai sensi dell’art. 28, commi 2 e 3, D. lgs. n. 81/2015 e s.m.i. oggetto di decisione comunitaria di infrazione della normativa europea, consta, per la suindicata ipotesi, di un’indennità onnicomprensiva tra un 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento riconosciuta al lavoratore interessato.
La ratio di siffatto approccio sta nel principio (senz’altro condivisibile) della necessità di ristorare adeguatamente il dipendente per il danno patito e necessario a coprire i mancati guadagni intervenuti tra la fine del rapporto dichiarato nullo e la sentenza che ricostituisce il medesimo con durata indeterminata.
Tuttavia, a quanto pare, per l’Unione Europea il tetto stabilito dal legislatore nostrano non è più idoneo ad osservare la disciplina comunitaria che mira a creare un effetto dissuasivo rispetto a comportamenti datoriali illegittimi, malgrado la nostra Corte Costituzionale ne avesse già definito la legittimità, mediante la pronuncia n. 303/2011.
Ad ogni modo, il Decreto in parola può ancora essere oggetto di modifiche in sede di conversione, sì da calmierare eventuali impatti eccessivi per l’operatività del mercato italiano, ma resta la circostanza che quanto precede potrebbe complicare in maniera non indifferente la gestione dei rapporti di lavoro a termine, soprattutto tenuto conto del sussistente regime delle c.d. causali per quei contratti di durata superiore ai n. 12 mesi, che – salvo novità legislative – a partire dall’1/1/2025 non permetterà più alle parti coinvolte di identificare dette causali liberamente.
Pertanto, i giudici potrebbero tornare a giocare un ruolo non banale nella determinazione degli importi complessivamente dovuti ai lavoratori a termine che conseguissero la conversione giudiziale dei propri contratti in tempo indeterminato.