venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Perquisizioni e ispezioni: l’autorizzazione orale del P.M. è illegittima?

La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 103 co. 3, T.U. stupefacenti

Con sentenza n. 252 del 21 ottobre 2020, depositata in data 27 novembre, la Corte Costituzionale, in tema di inutilizzabilità delle prove, ha dichiarato il comma terzo dell’art. 103, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, (Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) “costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate”, limitando la pronuncia ai casi in cui “l’autorizzazione abbia ad oggetto una perquisizione personale o domiciliare, perché è solo a queste che risultano riferite le garanzie previste dagli artt. 13, secondo comma, e 14, secondo comma, Cost.”[1].
Nel medesimo pronunciamento la Corte ha, invece, dichiarato manifestatamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale legate all’art. 191 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’inutilizzabilità delle prove acquisite a seguito di perquisizione e ispezione compiute fuori dai casi previsti dalla legge o non convalidate.
In particolare, il giudizio di legittimità costituzionale in parola è stato sollevato dal Tribunale ordinario di Lecce, con sei ordinanze, di contenuto assai similare, con cui si lamentava, in relazione agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (recte: secondo) comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, l’illegittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, rectius diritto vivente – non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori – compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato – degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge, ovvero non convalidati dal pubblico ministero con provvedimento motivato[2].
In alcune delle ridette ordinanze, inoltre, il rimettente enfatizzava svariati profili specifici,  dolendosi  della circostanza per cui l’inutilizzabilità non colpisca anche le perquisizioni e le ispezioni operate dalla polizia giudiziaria sulla scorta di elementi non utilizzabili, quali fonti confidenziali o in assenza della flagranza di reato ovvero autorizzate verbalmente dal pubblico ministero, senza specifico atto motivato; quelle effettuate ai sensi dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309  del t.u. stupefacenti, senza previa autorizzazione del pubblico ministero, nonché in mancanza di impossibilità materiale di chiedere tale autorizzazione; ovvero, ancora, lamentava il fatto che l’inutilizzabilità non riguardasse anche la deposizione testimoniale sulle attività prese in considerazione.
Con precipuo riguardo all’ ordinanza n. 22 del r.o. 2020 il rimettente sollevava, ancora, in ordine agli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte in cui prevede che il [pubblico ministero] possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata».
Il giudice a quo era stato più volte investito, in sede dibattimentale, di processi per reati in tema di stupefacenti o contro il patrimonio in cui la prova esclusiva o principale del reato era costituita dal sequestro del corpo del reato – a seconda delle circostanze, di sostanze stupefacenti, piante di cannabis ovvero beni di provenienza furtiva – reperiti presso l’abitazione degli imputati, a seguito di perquisizioni operate dalla P.G.
Spesso le perquisizioni erano state effettuate sulla scorta di notizie provenienti da fonti confidenziali o acquisite tramite una non meglio specificata «attività info-investigativa» ovvero ancora sulla base di una segnalazione della persona offesa, pur anche in assenza di flagranza di reato.
In altri casi segnalati dal rimettente, le perquisizioni non erano state autorizzate preventivamente, né tantomeno successivamente convalidate dal pubblico ministero sede.
I limitati casi di convalida evidenziati erano, inoltre, frequentamene corredati da un provvedimento privo di motivazione, ovvero, quando oralmente autorizzate ed indi convalidate, non fornivano contezza delle ragioni ad esse sottese.
Pertanto, ad avviso del giudice rimettente, siffatte perquisizioni avrebbero dovuto ritenersi abusive, in quanto compiute fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge.
Sotto questo profilo vengono in rilievo gli artt. 13 e 14 della nostra Costituzione, a mente dei quali ogni forma di limitazione della libertà personale e domiciliare – ivi compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – può essere disposta soltanto con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».
Tale stringente principio, può tuttavia, subire una deroga «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».
Sotto al genus dei “casi eccezionali di necessità e urgenza”, in cui legittimo risulta l’intervento degli operanti di P.G., il legislatore ha ricondotto le ipotesi di flagranza di reato ex artt. 352 e 354 c.p.p., nonché, in materia di legge speciale, le fattispecie previste dall’art. 103 t.u. stupefacenti.
Più specificamente, il disposto normativo di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 103, autorizza la polizia giudiziaria, impegnata in operazioni di prevenzione e repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, a svolgere ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, nonché ad effettuare perquisizioni, qualora vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – relativamente alle attività di perquisizione – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente».
Dette operazioni devono necessariamente essere notiziate, nel termine di quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale procede a convalidarle nelle successive quarantotto ore, sempre che ne sussistano i presupposti.
Dunque, a parere del Tribunale di Lecce, un’interpretazione conforme e rispettosa dei dettami costituzionali dovrebbe subordinare l’intervento della polizia giudiziaria, fuori dai casi di flagranza del reato, ad un “requisito minimo di comprovabilità e verificabilità”, al fine di evitare che il potere ex lege attribuito a tali organi, possa trascendere i confini posti in materia di libertà personale e domiciliare dell’individuo, svilendo il controllo giudiziario.
Di conseguenza, il fondato sospetto di detenzione dello stupefacente non potrebbe fondarsi su informazioni anonime o confidenziali, non passibili di previa verifica giurisdizionale e per le quali, tra l’altro, gli artt. 195, comma 7, 203, comma 1, e 240 c.p.p. prevedono l’inutilizzabilità generale.
Poste tali considerazioni, secondo il giudice a quo, in virtù di quanto previsto dallo stesso art. 13 Cost., gli atti di ispezione e perquisizione eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria o non convalidati dall’autorità giudiziaria con atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio e per l’effetto qualificati come inutilizzabili ai sensi dell’art. 191 c.p.p., in quanto assunti in violazione di un divieto di legge.
La censura colpisce l’art. 191 c.p.p., con particolare riguardo all’interpretazione offerta dal diritto vivente secondo cui sarebbe valido il sequestro conseguente ad una perquisizione operata fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge, allorché la stessa abbia ad oggetto il corpo del reato o le cose pertinenti al reato, costituendo, in tal caso, il sequestro un atto dovuto[3].
Un così formulato criterio ermeneutico violerebbe, altresì, l’art. 3 della Costituzione, con riguardo all’ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le quali la sanzione dell’inutilizzabilità viene espressamente prevista dalla legge o dalla giurisprudenza, quali quelle delle intercettazioni e dell’acquisizione di tabulati del traffico telefonico, compiute dalla polizia giudiziaria in difetto di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.
In ordine a tali profili, limitatamente riguardanti l’art. 191 c.p.p., la Consulta ha rigettato le formulate questioni di illegittimità costituzionale, richiamando un proprio precedente orientamento – sentenza n. 219 del 2019 – con cui aveva già rigettato similari e sovrapponibili questioni, sollevate, peraltro, dal medesimo giudice in veste di Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Lecce[4].
In particolare, la Corte ha ribadito le identiche considerazioni, espresse al tempo, al fine di pronunciare giudizio di inammissibilità delle questioni, rilevando una lieve variazione del petitum decidendi, il cui impianto argomentativo ricalca, tuttavia, in sostanza, quanto in precedenza rilevato: “Nell’occasione, si è rilevato come con la disposizione censurata – secondo la quale [l]e prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate – il legislatore abbia inteso introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto”.
Anche tale vizio resta, peraltro, soggetto – come le nullità – ai paradigmi della tassatività e della legalità. Essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, in quanto componente del giusto processo, è solo la legge a stabilire – con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale – quali siano e come si atteggino i divieti probatori, «in funzione di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare».
Di qui l’impossibilità – ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità – di riferire all’inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, che l’art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità (stabilendo, in specie, che «[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo»).
In sostanza, la Corte si è soffermata sulla ratio della disposizione censurata, osservando, correttamente, come lo stesso legislatore abbia voluto introdurre un meccanismo preclusivo, in tema di idoneità probatoria, che nel rispetto dei paradigmi di tassatività e legalità, rimettesse alla legge, in virtù di scelte di politica processuale che solo alla stessa competono, la genesi di nuovi divieti probatori.
Per tali ragioni la censura dell’art. 191 c.p.p. è stata dichiarata manifestatamente inammissibile.
Con riguardo, invece, alle questioni di legittimità costituzionale sollevate in ordine all’art. 103 t.u. stupefacenti, la Corte le ha ritenute fondate in riferimento agli artt. 13 e 14 della Carta Costituzionale.
Nello specifico, come infra evidenziato, la disposizione in parola ha voluto potenziare l’operatività della polizia giudiziaria al fine di garantire una più efficace attività di prevenzione e repressione contro determinate forme di criminalità involvente traffici illeciti di stupefacente, permettendo alla stessa P.G. di effettuare accertamenti penetranti ed incisivi, come la perquisizione, anche al di fuori dei casi previsti dagli artt. 352 e 354 c.p.p.
Sebbene il giudice a quo, in via generale, abbia evidenziato indistintamente l’illegittimità costituzionale dell’intera norma, la Consulta ha operato un puntuale focus sul comma terzo dell’art 103, il quale statuisce che gli ufficiali di polizia giudiziaria «quando ricorrono motivi di particolare necessità e urgenza che non consentono di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono altresì procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le successive quarantotto ore».
Chiaro è, che la norma in parola involve diversi profili di libertà personale soggetti alla tutela costituzionale, permettendo, in presenza dei presupposti di legge – quali operazioni anti- droga e fondato motivo di reperimento di sostanze stupefacenti- perquisizioni ora personali, ora domiciliari.
Il dubbio di legittimità costituzionale riguarda la circostanza per cui la norma consente al pubblico ministero diautorizzare oralmente l’esecuzione di perquisizione, “senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni” per le quali l’autorizzazione è stata rilasciata.
La disposizione, invero, sottopone a convalida dell’autorità giudiziaria le sole perquisizioni per cui non sia stato possibile richiede e, dunque, ottenere, “l’autorizzazione telefonica del magistrato competente”, la quale a sua volta, anche se presente, non proverebbe per tabulas le ragioni sottese al provvedimento, risultando scevra di atti documentali.
In questi termini, dunque, la Corte ha ritenuto la censurata disposizione incompatibile con gli artt. 13 comma secondo e 14 comma secondo della Costituzione.
Orbene, secondo il disposto normativo dell’art. 13 co. 2 Cost., le perquisizioni personali – così come le ispezioni personali ed ogni altra restrizione della libertà personale – possono essere disposte solo «per atto motivato» dell’autorità giudiziaria.
Il Costituente pone la libertà personale come il primo dei diritti fondamentali dell’individuo, in quanto presupposto indispensabile affinché ognuno possa accedere, con indipendenza ed autonomia, alle ulteriori libertà fondamentali riconosciute.
L’articolo in commento individua tre principali garanzie: la riserva di legge assoluta, insita nella competenza esclusiva della legislazione ordinaria a disciplinare l’inviolabilità della libertà personale; la riserva di giurisdizione, poiché soltanto l’autorità giudiziaria può emanare provvedimenti restrittivi (habeas corpus) ed infine, l’obbligo di motivazione, il quale deve necessariamente corredare ogni provvedimento restrittivo della libertà personale.
Proclamando l’inviolabilità della libertà personale ne viene, dunque, permessa la limitazione per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Stesse garanzie sono riconosciute dall’art. 14 co. 2 della Costituzione alla libertà domiciliare.
Il legislatore, infatti, sancendo l’inviolabilità e l’intangibilità del domicilio ha voluto elevare la nozione stessa di domicilio ad espressione più prossima di libertà personale, che lega la persona al luogo in cui svolge una parte consistente della sua vita, concretandosi nella proiezione spaziale dell’individuo e delle sue libertà personali, tutelandola da indebite ingerenze.
Tali ragioni spiegano perché le garanzie in ordine alle perquisizioni, ispezioni e sequestri, previsti dalla norma precedente, sono estese anche all’art. 14 in tema di violazione del privato domicilio.
Seguendo il tracciato procedimento argomentativo, si potranno fare lumi sulle ragioni per cui i giudici della Corte Costituzionale rapprendono il loro vaglio sulla motivazione del provvedimento autorizzativo. 
La motivazione dell’atto è evidentemente funzionale alla tutela della persona che subisce la perquisizione, la quale deve essere posta in grado di conoscere – così da poterle, all’occorrenza, anche contestare – le ragioni per quali è stata disposta una limitazione dei suoi diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare“.
È evidente, dunque, che l’autorizzazione telefonica del magistrato, prevista dall’art. 103 co. 3 t.u., risultando relegata all’arginato colloquio telefonico tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, svilisce la tratteggiata tutela costituzionale, non lasciando alcuna traccia accessibile delle sue ragioni, né per l’interessato, né per il giudice, sì da vanificare, inevitabilmente, ogni qualsivoglia garanzia costituzionale.
La pronuncia in esame, inoltre, ha precisato che non può assumere rilievo alcuno la circostanza, rispondente ad un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la perquisizione prevista dall’art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti risulti differente da quella ordinaria regolata dal codice di rito, “potendo avere una finalità non solo repressiva, ma anche preventiva”.
 La finalità preventiva o repressiva della perquisizione, difatti, rappresenta “una variabile indifferente ai fini dell’operatività delle garanzie stabilite dagli artt. 13 e 14 Cost. a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo”.
Al fine precipuo di colmare il ridetto gap normativo il rimettente chiedeva all’adita Corte di imporre al pubblico ministero l’obbligo di una “successiva documentazione formale” che desse atto delle ragioni che lo hanno indotto ad autorizzare verbalmente la perquisizione.
Sotto tale profilo, la Corte, se prima facie parrebbe rimettere la questione all’intervento chiarificatore del legislatore, concretamente fornisce una soluzione inedita e dirimente, precisando:
Nella specie, la soluzione con il più immediato aggancio nella disciplina vigente – essendo questo offerto, in pratica, dalla stessa norma censurata – è quella di richiedere che anche la perquisizione autorizzata telefonicamente debba essere convalidata, entro il doppio termine delle quarantotto ore“.
Una simile determinazione parrebbe, al principio, problematica, essendo la convalida successiva necessaria in mancanza di assenso preventivo dell’autorità giudiziaria, assenso che nell’ipotesi considerata sarebbe già stato dato, anche se in forma orale.
Ciò nondimeno, come evidenziato, si tratterebbe di un assenso non rispondente ai parametri costituzionali fissati dall’art. 13 co. 2 Cost., ragion per cui la convalida si renderebbe necessaria.
Il più esteso e stringente termine doppio delle quarantotto ore, necessario ai fini della convalida di una perquisizione autorizzata telefonicamente, trova giustificazione, secondo il dictum della Corte, nell’ampliamento di poteri della P.G. che l’art. 103 t.u. stupefacenti opera, rispetto a quanto previsto dall’art. 352 cod. proc. pen., consentendole di eseguire perquisizioni anche in assenza di una situazione di flagranza di reato apprezzabile ex ante.
Tale circostanza legittimerebbe “un plus di garanzie – non pregiudizievole, peraltro, rispetto alle esigenze di celerità dell’operazione – imponendo alla polizia giudiziaria di munirsi di un assenso preventivo informale del pubblico ministero, salvo che sussistano motivi di necessità e urgenza che non consentano nemmeno quest’ultimo: assenso che non esclude, peraltro, una successiva convalida formale dell’operazione, in occasione della quale il pubblico ministero può avere anche modo di verificare quanto riferitogli dalla polizia giudiziaria per telefono, magari in modo frammentario, e comunque sia posto nella condizione di verificare le modalità con le quali la perquisizione è stata eseguita“.
Formulate tali considerazioni e rilevato che il riferimento all’atto motivato risulta specificamente inserito al solo comma secondo dell’art. 13 della Carta Costituzionale, con riferimento alla perquisizione disposta ab originem dall’autorità giudiziaria, e non già al successivo terzo comma, a proposito dei provvedimenti provvisori adottati dall’autorità di sicurezza nei casi di necessità e urgenza;  ed ancora, considerata l’assenza d’ogni riferimento alla ridetta motivazione dell’atto nell’art. 354 c.p.p., la Corte ha elevato l’esigenza della motivazione  dell’atto di convalida, a baluardo costituzionale dei diritti di libertà personale e domiciliare, ritenendola implicita nel dettato costituzionale.
Una differente operazione ermeneutica, peraltro, implicherebbe un’ingiustificabile differenza di disciplina, anche con riguardo all’analoga ipotesi della convalida del sequestro, per la quale la motivazione è richiesta.
Siffatta declaratoria di incostituzionalità del comma terzo dell’art. 103 t.u. stupefacenti, ancorché assai dirimente ed orientata verso un ordinamento giuridico sempre più aperto ed aderente alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, appare, tuttavia, a parere di scrive, soltanto ed ancora una piccola apertura verso il cristallizzato sistema costituzionale.
Le questioni formulate risultano, infatti, estremamente significative, poiché connesse alle più intime libertà fondamentali dell’individuo, quella personale e quella domiciliare e, pertanto, imprescindibile sarebbe un puntuale intervento legislativo volto a circoscrivere i poteri d’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza, imponendo, in tutte le considerate ipotesi, un’attenta esposizione dei motivi per cui l’esercitato potere coercitivo risulterebbe prevalente rispetto alle evidenziate libertà.

[1] Testo sentenza disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=252
[2] Con riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 17, 18, 20, 21 e 22 del r.o. 2020;
[3] Cfr. Cass. Pen. S.U. 27 marzo – 6 maggio 1996, n. 502;
[4] Testo sentenza consultabile qui: http://www.cortecostituzionale.it ;

Fonte immagine: www.pixabay.com

Ilaria Marchì

La dott.ssa Ilaria Marchì nasce a Enna il 29 ottobre del 1993. Dopo aver conseguito diploma di maturità scientifica nell'anno 2012 presso l'I.S.I.S.S. "G. Falcone" di Barrafranca (EN), si iscrive presso l'Università degli Studi Kore di Enna, conseguendo nell'ottobre 2017 laurea magistrale in Giurisprudenza. Il suo percorso post-universitario risulta ricco di esperienze formativo-professionali. Dal novembre 2017 fino al novembre 2019, ha svolto la pratica forense presso lo studio legale "Piazza & Associati", occupandosi della redazione di atti giudiziari di varia natura, penale e civile, nonché  di attività di udienza. A far data dal maggio 2018 fino all'ottobre 2019, ha svolto tirocinio giudiziario ex art. 73 d.l. n. 79/2013, presso la Corte d'Appello di Caltanissetta.

Durante i primi sei mesi di tale periodo formativo ha coadiuvato il Presidente della Seconda Sezione Penale della Corte D'Appello di Caltanissetta, partecipando alle attività di udienza, alle successive camere di consiglio, predisponendo relazioni di inizio processo, stralci di sentenze, provvedimenti giudiziali di vario genere, nonché partecipando a procedimenti di applicazione di misure di prevenzione.
E' stata impegnata anche presso l'Ufficio del Processo, svolgendo adempimenti di vario genere. I successivi 12 mesi di formazione li ha eseguiti presso la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, coadiuvando strettamente il Presidente, ed il Giudice a latere, partecipando a diversi processi di estremo rilievo, quali, tra gli altri, Borsellino quater e Capaci bis. La sua specifica attività è stata quella di redigere le relazioni di inizio processo- crono-storia del primo grado di giudizio- nonché sintesi di atti d'appello e redazione bozze motivazionali di sentenza.
Nel luglio 2019 ha conseguito un master di II livello presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali,  Università degli Studi Kore di Enna. Ad oggi lavora presso un noto studio legale in Sicilia, "Studio Legale Sinatra & Partners", occupandosi di attività giudiziale e stragiudiziale e, più specificamente, della redazione di atti giudiziari di vario tipo, di natura penale (come redazione di esposti, querele, atti di gravame, istanze, etc...) e civile. Con precipuo riguardo al diritto penale, branca specializzante del ridetto studio, si occupa di fornire consulenza ed assistenza legale personalizzata al cliente, trattando reati contro la persona (omicidio, lesioni personali), contro il patrimonio (rapina, estorsione, furto, ricettazione, riciclaggio), reati in materia di sostanze stupefacenti (detenzione a fini di spaccio, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga), reati associativi e di criminalità organizzata (associazione a delinquere, associazione di stampo mafioso, associazione sovversiva), reati sessuali e prostituzione (violenza sessuale, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione), reati contro la famiglia (stalking) e reati contro la Pubblica Amministrazione. contatto: marchi.ilaria29@gmail.com

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