venerdì, Marzo 29, 2024
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Previdenza complementare: una necessità per il futuro?

Il sistema pensionistico italiano ha subito nel tempo molteplici cambiamenti, frutto delle necessità intercorse nelle diverse epoche storiche di riferimento. In particolare, a partire dal 1992 ad oggi, il sistema previdenziale è stato modificato da importanti provvedimenti legislativi che saranno pienamente efficaci solo dopo un lungo periodo di transizione. Il graduale aumento della speranza di vita, che determina un aumento del periodo di pagamento delle pensioni, e il rallentamento della crescita economica, dovuta anche alle crisi intercorse, hanno portato a una rivisitazione delle regole di determinazione delle pensioni, anche e soprattutto in funzione dell’esigenza di assicurare la sostenibilità dei conti pubblici. Il risultato di questi interventi saranno importi degli assegni pensionistici più bassi. Una soluzione è rappresentata dalla previdenza complementare.

Principali interventi di riforma e contesto attuale del sistema pensionistico italiano

Prima del 1992 era pienamente in vigore un sistema di gestione finanziaria a ripartizione con metodo di calcolo retributivo della pensione. La metodologia di calcolo utilizzata implicava che la retribuzione pensionabile era pari alla media degli stipendi percepiti nei 5 anni antecedenti la cessazione lavorativa e rivalutati sulla base del costo della vita.

Con il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (“Riforma Amato”), il periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile fu esteso dagli ultimi 5 anni all’intera vita lavorativa. Ciò ha portato a un significativo decremento dell’importo pensionistico rispetto alle regole in vigore antecedentemente il 1992.

Nel 1995, la Legge dell’8 agosto 1995, n. 335 (“Riforma Dini”), avvenne il principale intervento strutturale di riforma del sistema pensionistico italiano. Mantenendo un sistema di gestione finanziaria a ripartizione, la riforma per la prima volta tenne in considerazione l’importanza degli aspetti demografici nell’ambito di un sistema a ripartizione e cambiò completamente il metodo di calcolo: si passò da un metodo retributivo, basato sulla retribuzione percepita, a quello contributivo, basato sui contributi effettivamente versati. In questo modo, quindi, l’importo della pensione venne calcolata sulla base del montante contributivo, vale a dire la somma di tutti i contributi previdenziali versati durante l’arco dell’intera vita lavorativa e fino alla data del pensionamento, rivalutati ogni anno sulla base di una media mobile quinquennale del tasso di variazione del PIL nominale. Il montante è infine diviso per un coefficiente di trasformazione, necessario a convertire il capitale accumulato in una rendita vitalizia sulla base di parametri demografici, finanziari e normativi.

Questo metodo di calcolo è applicato integralmente a tutti i lavoratori che abbiano iniziato a lavorare (e quindi a versare i contributi) dopo il 1° gennaio 1996; chi ha iniziato a lavorare prima del 1996 e ha meno di 18 anni di contributi subirà un calcolo della pensione con un sistema misto (retributivo per gli anni lavorativi fino al 31 dicembre 1995, contributivo per il periodo successivo al 1° gennaio 1996); chi alla data del 31 dicembre 1995 poteva far valere più di 18 anni di contributi versati ha potuto continuare a usufruire del metodo retributivo fino alla data del 31 dicembre 2011 (i periodi successivi saranno quindi calcolati con il metodo contributivo), quando la legge del 22 dicembre 2011, n. 214 (“Decreto Salva Italia”) ha stabilito l’applicazione integrale del sistema di calcolo contributivo, contestualmente all’innalzamento dei requisiti per l’accesso al pensionamento, tenuto conto della precedente (legge 30 luglio 2010, n. 122) introduzione di un meccanismo di adeguamento automatico di tutti i requisiti anagrafici e contributivi di accesso al pensionamento sulla base della variazione della speranza di vita all’età di 65 anni.

Tutte queste misure sono state necessarie per contrastare le dinamiche demografiche verificatesi a partire dagli anni sessanta, quando in Italia si registrò una riduzione del tasso di fecondità, un progressivo innalzamento della speranza di vita e una contestuale riduzione del tasso di mortalità, fenomeni che stanno portando a un inesorabile invecchiamento demografico.

La funzione previdenziale e il tasso di sostituzione[1]

Il sistema pensionistico svolge sia una funzione assicurativa (trasferisce il reddito nell’arco di vita individuale, assicurando un certo tasso di rendimento implicito), sia una funzione previdenziale. Concentrandoci su quest’ultima funzione, essa vuol dire che il sistema deve garantire un tendenziale mantenimento del tenore di vita nel periodo successivo al pensionamento. Le modifiche normative intervenute possono quindi essere valutate in termini di impatto sulle funzioni svolte dal sistema. Per farlo è possibile utilizzare quello che è chiamato tasso di sostituzione: è così definito il rapporto fra la pensione iniziale e l’ultima retribuzione.

Il sistema pre-Amato garantiva tassi di sostituzione molto simili, qualunque fosse la dinamica del PIL, la velocità di carriera a parità di anzianità contributiva e indipendentemente dall’età di pensionamento, quindi era possibile avere una pensione intorno al 70-80% dell’ultima retribuzione.

La situazione cambia con la riforma Amato: il riferimento all’intera vita lavorativa e la rivalutazione dei redditi all’inflazione, incrementata di un punto percentuale, comporta un tasso di sostituzione che è inversamente proporzionale al tasso di crescita medio dei salari. Ciò significa che con crescite salariali moderate il tasso di sostituzione non varia in modo significativo rispetto alla situazione pre-riforma (70%), mentre continua a essere rilevante il tasso di crescita del PIL. Di contro, tassi di crescita salariali elevati comportano un abbassamento significativo del tasso di sostituzione (50-60%). L’età di pensionamento è ancora irrilevante ai fini del calcolo della pensione.

Con la dipendenza dall’età di pensionamento del coefficiente di conversione del montante in rendita introdotto dalla riforma Dini, il livello del tasso di sostituzione viene a dipendere in modo particolarmente significativo dall’età di cessazione dell’attività lavorativa. Il tasso di sostituzione cade significativamente quando il tasso di crescita dei salari è superiore a quello del PIL (50%). Inoltre, è importante osservare come i coefficienti di trasformazione riflettono la speranza di vita al momento dell’introduzione della riforma. Oggi la speranza di vita si è allungata molto rispetto al 1995 e, per effetto del meccanismo di adeguamento dei coefficienti di trasformazione a cadenza triennale e non più decennale (a seguito delle disposizioni del DecretoLegge 6 dicembre 2011, n. 201 ”Riforma Fornero”), più si allunga la vita media, più bassi saranno i coefficienti di trasformazione e più bassi saranno i tassi di sostituzione e di conseguenza l’importo delle pensioni.

L’Italia (ma è un discorso che vale anche per tutti i paesi industrializzati), si trova a dover affrontare un’onda demografica[2] senza precedenti che porterà ad un aumento importante della quota di popolazione in età pensionabile. I dati parlano chiaro: se oggi sono presenti la popolazione in età pensionabile è pari al 20% (1 pensionato ogni 5 lavoratori), le previsioni per il 2065 parlano di un aumento continuo che porterà tale percentuale al 33%, ossia 1 pensionato ogni 3 lavoratori. Per garantire una pensione con l’attuale gestione finanziaria a ripartizione (i contributi correnti sono utilizzati per pagare la spesa pensionistica corrente), l’importo degli assegni sarà necessariamente destinato a calare nel tempo.

Le forme pensionistiche complementari[3]

 Le forme pensionistiche complementari, istituite con D. Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, “disciplina delle forme pensionistiche complementari”) hanno l’obiettivo di consentire al lavoratore di usufruire di un importo pensionistico più alto di quello che gli spetterebbe normalmente, con gli attuali criteri di calcolo, quando avrà smesso di lavorare. La partecipazione ad una forma qualsiasi di previdenza complementare permette di accantonare regolarmente una parte dei risparmi nell’arco dell’intera durata della vita lavorativa, con lo scopo di ottenere una pensione integrativa a quella corrisposta dalla previdenza obbligatoria.

Indipendentemente dalla forma scelta, le opportunità di risparmio a seguito dell’adesione a una forma di previdenza complementare sono notevoli. Lo Stato, al fine di incentivare tale forma di risparmio, riconosce agevolazioni fiscali di cui altre forme di risparmio non beneficiano:

  • È possibile dedurre i contributi versati dal reddito complessivo, anche per quelli versati a favore dei famigliari a carico, fino al limite di € 5.164,57 all’anno;
  • I rendimenti realizzati dalle forme pensionistiche complementari sono tassati fino ad un massimo del 20%;
  • Il pagamento della pensione integrativa o del capitale riscattato a scadenza è assoggettato a una ritenuta agevolata del 15%, che si riduce in funzione dell’anzianità di partecipazione al sistema di previdenza complementare di 0,30 punti percentuali per ogni anno successivo al quindicesimo, fino ad un massimo di 6 punti percentuali. Questo vuol dire che con almeno 35 anni di contribuzione l’imposta scende al 9%. È tassata solo la parte relativa ai contributi dedotti durante il periodo di partecipazione al fondo pensione e alle quote di TFR versato.

Esistono diversi tipi di fondi che possono essere utilizzati per conseguire questo obiettivo: fondi pensione chiusi, fondi pensione aperti e piani individuali pensionistici (PIP).

Ai fondi pensione chiusi (o fondi cosiddetti “di categoria”) sono forme pensionistiche complementari a cui possono accedervi solo alcune categorie di lavoratori. Sono regolati dai contratti di lavoro, non hanno scopo di lucro e quindi non devono remunerare azionisti. I lavoratori sono soci di questi fondi, non clienti, questo è il motivo per il quale questi tipi di fondi sono i più convenienti di tutti. Per questo motivo, prima di aderire a un fondo, è importante verificare che il proprio contratto di lavoro preveda la possibilità di aderire a un fondo pensione già esistente in virtù di un accordo collettivo o di un regolamento aziendale. Il grande vantaggio dei fondi di categoria è rappresentato dalla possibilità di ottenere, in aggiunta al proprio contributo, anche quello del proprio datore di lavoro in maniera del tutto automatica e questo, a parità di condizioni, permette di ottenere una pensione più alta rispetto alle altre forme di previdenza complementare. Il livello di contribuzione del datore di lavoro è stabilito dall’accordo collettivo ed è previsto solo se il lavoratore effettua il proprio versamento.

Accanto ai fondi chiusi troviamo i fondi pensione aperti. Sono destinati a chiunque ne faccia richiesta e sono necessari quindi a raccogliere tutti quei soggetti il cui rapporto lavorativo non prevede la presenza di un fondo pensione di categoria. Possono essere istituite da banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (SIM). Le adesioni possono essere su base individuale e collettiva.

I Piani Individuali Pensionistici (PIP) sono forme pensionistiche complementari istituite esclusivamente dalle imprese di assicurazione. A differenza delle forme precedenti, possono raccogliere adesioni solo su base individuale. Sono rivolte a chiunque intenda costruirsi una rendita integrativa da aggiungersi alla previdenza obbligatoria, indipendentemente dallo status lavorativo del beneficiario, quindi possono sottoscriverla studenti, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e chiunque abbia compiuto la maggiore età. Così come nei fondi pensione aperti, i PIP confluiscono in una gestione patrimoniale separata dall’attività principale della compagnia che li gestiscono; per questo motivo il contratto sottoscritto è coperto da una forma di tutela particolare, in quanto non può essere aggredito da eventuali diritti vantati dai creditori della società assicurativa in caso di fallimento di quest’ultima.

È un prodotto analogo ad un contratto di assicurazione sulla vita, ma i vantaggi fiscali e le prestazioni sono quelli di un fondo pensione. Essendo nella sostanza un contratto assicurativo istituito da imprese di assicurazione, possono essere realizzati mediante prodotti di ramo I (assicurazioni sulla vita, la rivalutazione della posizione è collegata a una o più gestioni interne separate) o prodotti di ramo III (contratti rivalutabili di tipo unit linked, la rivalutazione della posizione individuale è collegata al valore di uno o più fondi interni o esterni all’impresa di assicurazione).

I lavoratori dipendenti, inoltre, hanno la possibilità di scegliere se destinare in via definitiva ad una forma pensionistica complementare il TFR da maturare, oppure lasciarlo in azienda. Il vantaggio è rappresentato dalla minore tassazione applicata, il regime fiscale agevolato come spiegato sopra e i maggiori rendimenti conseguiti storicamente dalla previdenza complementare rispetto a quelli conseguiti in azienda.

La differenza sostanziale tra i PIP e i fondi pensione aperti sta nei costi che, in ogni caso, devono essere valutati molto attentamente al momento della sottoscrizione, consultando l’Indicatore Sintetico dei Costi (ISC) per conoscere in termini percentuali quanto incidono i costi sostenuti dall’aderente annualmente.

In linea generale, i costi si riducono notevolmente con il passare del tempo, quindi maggiore sarà la permanenza all’interno di una forma di previdenza complementare e minore sarà l’incidenza annuale dei costi sui premi versati. Tendenzialmente[4], tuttavia, è possibile osservare come, mediamente, prendendo in considerazione un periodo di permanenza di 10 anni, i fondi pensione chiusi abbiano un ISC inferiore allo 0,50%, i fondi pensione aperti dell’1,35% circa e i PIP del 2,20%. Considerando un arco temporale di contribuzione molto più lungo (35 anni), è possibile abbattere ulteriormente tali percentuali, poiché i costi si ripartiscono su una posizione individuale che nel tempo tende a crescere.

È possibile richiedere il trasferimento della posizione maturata da una forma pensionistica complementare all’altra senza sostenere alcun costo aggiuntivo di trasferimento, se non quelli previsti per l’accesso. Ciò nonostante, è bene riflettere attentamente prima di procedere, confrontando la scheda dei costi dei fondi di appartenenza e di destinazione, tenendo presente che l’anzianità nel sistema di previdenza complementare inizia dalla prima adesione.

Ogni posizione individuale è gestita in base alla scelta della linea di investimento caratterizzata dalla combinazione di più strumenti finanziari che tengono conto dell’orizzonte temporale previsto di contribuzione e del profilo di rischio dei soggetti aderenti. Le principali linee di investimento sono riconducibili alle seguenti categorie, in base al rischio:

  • Garantite (garanzia di rendimento minimo, capitale garantito);
  • Obbligazionarie (investono solo o prevalentemente in obbligazioni);
  • Bilanciate (metà obbligazioni e metà azioni);
  • Azionarie (principalmente azioni).

In ogni caso, nell’investire i contributi, le forme pensionistiche complementari devono tenere conto delle regole di prudenza stabilite dalla legge, tenendo conto della finalità previdenziale e non speculativa dell’investimento. La vigilanza è affidata alla COVIP (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione).

Durante la fase di contribuzione è possibile prelevare una somma a titolo di anticipazione o riscatto in base al verificarsi di determinati eventi e a determinate condizioni stabilite dal contratto.

Al momento del pensionamento, a condizione di una permanenza minima di 5 anni nella previdenza obbligatoria, è possibile scegliere cosa fare della posizione maturata:

  • Rendita vitalizia;
  • Rendita vitalizia con reversibilità;
  • Liquidazione parziale capitale della posizione maturata fino ad un massimo del 50% e per la parte restante in rendita vitalizia;
  • Liquidazione in capitale della posizione maturata per il 100%, nel caso in cui la conversione in rendita del 70% del montante accumulato risulti inferiore alla metà dell’importo annuo dell’assegno sociale.

In conclusione, considerate le attuali dinamiche demografiche, finanziarie e di sistema di calcolo della pensione, che hanno portato e porteranno gli importi degli assegni ad essere sempre più bassi rispetto all’ultima retribuzione, è concreta la possibilità che in futuro, sarà molto difficile poter mantenere in pensione lo stesso tenore di vita avuto durante la vita lavorativa.

Per questo motivo, specie per i più giovani, è bene ricordarsi dell’importanza di contribuire alla previdenza complementare fin dall’inizio della propria carriera lavorativa. Il tempo gioca un ruolo fondamentale in questi casi e rimandare, anche di pochi anni, l’inizio dei versamenti significa ridurre sensibilmente l’ammontare finale dell’importo della pensione complementare.

[1]R. Artoni, Elementi di scienza delle finanze.

[2]R. Caramino, “Il contesto previdenziale italiano: uno sguardo al passato per dedurre il futuro”, dicembre 2018, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/il-contesto-previdenziale-italiano-uno-sguardo-al-passato-per-dedurre-il-futuro-13715/amp

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Matteo Capasso

Matteo Capasso nasce a Roma nel 1995. Consegue la maturità tecnica industriale in elettronica e telecomunicazioni nel 2014. Si laurea in Scienze Economiche nel 2017 presso la facoltà di economia dell’Università "La Sapienza" di Roma. Nello stesso anno inizia il corso di laurea magistrale in FINASS (Finanza e Assicurazioni), specializzandosi nel comparto assicurativo. Da settembre 2020 lavora presso Mediocredito Centrale, occupandosi dell'istruttoria delle domande di garanzia pervenute presso il Fondo di Garanzia per le PMI.

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