giovedì, Marzo 28, 2024
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Il principio di sovranità e la necessaria tutela dei diritti umani: la teoria della responsabilità di proteggere

Uno dei maggiori interrogativi che attanaglia il diritto internazionale contemporaneo è relativo alla possibilità, da parte della Comunità Internazionale, di intervenire con la forza nei confronti di governi che violino in modo grave i diritti umani. Si tratta di un interrogativo che gli studiosi si pongono da tempo, che consiste nel chiedersi se il diritto internazionale consenta ad una pluralità di Stati di poter intraprendere azioni militari a sostegno di un popolo assoggettato ad un governo sanguinario, irrispettoso dei diritti umani e della democrazia.
La materia ovviamente assume particolare rilevanza soprattutto perché essa va a toccare temi particolarmente sensibili nell’ambito del diritto internazionale, come il principio di sovranità e la tutela dei diritti umani.
La risposta a tali interrogativi non può prescindere da un esame dello stato del diritto internazionale attuale, che essendo soggetto ad una graduale trasformazione da diritto di una comunità intestatale, a diritto di una comunità globale, presuppone una naturale erosione del principio di sovranità, onde poter assicurare una tutela universale dei diritti umani. In tale ottica si osserva l’affermarsi di una interpretazione estensiva del concetto di democrazia, che slegatosi dalla sua tradizionale connotazione meramente statuale, può essere inteso in un’accezione globale. Sia in atti dell’ONU che di altre Organizzazioni internazionali, infatti si enuncia una nozione di democrazia che sia in grado di calarsi nel contesto di una Comunità Internazionale basata sulla dimensione globale dei diritti umani. Proprio in virtù della dimensione globale dei diritti umani e della nozione di democrazia poi, appare con evidenza come ciò non possa che tradursi in un ampliamento degli obblighi posti in capo alla Comunità Internazionale, che deve dunque, soprattutto alla luce dell’impossibilità di funzionamento effettivo del Consiglio di Sicurezza, farsi essa stessa portatrice della tutela di tali valori globali.
La delicata questione del rapporto tra il rispetto del principio di sovranità e la tutela dei diritti umani, fu oggetto dell’analisi della International Commission on Intervention and State Sovereignty, meglio nota come ICISS, istituita nel 2000 su iniziativa del governo canadese, alla quale si deve, nel dicembre 2001, l’elaborazione del rapporto “ The Responsibility to Protect”.
Al di là dell’impatto avuto in dottrina dalle tematiche emergenti dal rapporto, l’analisi dello stesso appare particolarmente interessante anche alla luce della lucida ricostruzione della realtà politica internazionale operata dalla Commissione. Essa infatti delinea una realtà internazionale in cui non solo agiscono nuovi attori, ma soprattutto si pongono problemi diversi dal passato. In particolare dal punto di vista giuridico questa situazione sembra aver acuito la necessità di garantire la tutela del diritto di sicurezza umana anche in relazione al principio di sovranità statuale. Difatti si sostiene che la teoria della responsabilità di proteggere sia nata proprio per tentare di dare un impulso, giustificato da motivi umanitari, alla generale riluttanza degli Stati a limitare la propria sovranità.
In quest’ottica, il rapporto del 2001 è volto alla ricerca di possibili rimedi astrattamente idonei ad evitare violazioni dei diritti umani in situazioni di guerra civile o di crisi democratica di uno Stato. Da questo punto di vista, l’idea centrale del rapporto è che la nozione di sovranità intesa come “controllo” debba cedere il passo ad una nozione in termini di responsabilità verso la propria popolazione, a cui andrebbe garantita, sempre ed in ogni caso, il rispetto dei diritti umani fondamentali .
Il concetto di sovranità in termini di responsabilità, darebbe poi luogo, nei termini utilizzati dalla Commissione, ad una serie di obblighi posti sia in capo agli Stati singolarmente, sia in capo alla Comunità Internazionale nel suo complesso, si tratta del dovere di prevenire (responsibility to prevent) del dovere di reagire (responsibility to react) e del dovere di ricostruire (responsibility to rebuild).
La responsabilità di prevenire spetterebbe in primo luogo allo Stato sul cui territorio avvengono le violazioni dei diritti umani. In ossequio al principio di sovranità infatti, soltanto qualora detto Stato non intenda, oppure non si trovi nelle condizioni di poter garantire il pieno rispetto degli stessi, si configurerebbe la responsabilità in capo alla Comunità Internazionale.
Per quanto riguarda la responsabilità di reagire invece, essa viene per ovvi motivi configurata soltanto come extrema ratio, da porre in essere nel caso in cui le misure pacifiche non si siano rivelate sufficienti a risolvere la questione. Inoltre essa viene ulteriormente limitata da ulteriori condizioni quali: la giusta causa, la retta intenzione, l’autorità legittima, la proporzionalità e le prospettive ragionevoli di successo. Quanto all’individuazione dell’autorità legittimata ad autorizzare l’intervento, il rapporto, nonostante riconduca ancora una volta il tutto nell’ambito dell’ONU, individua una possibile soluzione per superare la stasi del Consiglio di Sicurezza, costituita dal possibile, e quanto mai auspicato, accordo tra i membri permanenti sul mancato utilizzo del potere di veto. Nel caso in cui tale auspicio rimanga inascoltato, la commissione indica come possibile fonte d’autorizzazione l’Assemblea Generale, secondo la procedura prevista dalla risoluzione United for Peace del 3 novembre 1950. Tuttavia il ricorso alla valorizzazione del ruolo dell’Assemblea oltre a sembrare altamente improbabile appare anche decisamente difforme rispetto a quanto previsto dalla Carta.
Successivamente, la dottrina della responsabilità di proteggere fu oggetto di specifica trattazione all’interno del World Summit Outcome del 2005. Questa inclusione, sebbene abbia costituito un risultato importante in quanto trattasi del primo riconoscimento in ambito ONU della teoria, causò un netto ridimensionamento della stessa dovuto soprattutto alla mancanza di una ricostruzione unitaria tra gli Stati in ordine al concetto stesso di responsabilità di proteggere .
Un vero e proprio punto di svolta nella storia della dottrina della responsabilità di proteggere è rappresentato dalla crisi libica del 2011, quasi unanimemente considerata dagli Stati come la prima occasione di applicazione pratica di tale teoria . Il punto centrale della vicenda è senz’altro costituito dall’espresso richiamo alla responsabilità di proteggere operato dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione numero 1973 del 2011. Tuttavia tale risoluzione non accoglie in pieno la nozione di responsabilità di proteggere così come delineata dalla Commissione. In particolare dopo aver affermato che posto l’obbligo di protezione della popolazione in capo alle autorità libiche, prendendo atto del fatto che il governo libico non vi ha adempiuto, il Consiglio autorizza l’uso della forza per la protezione delle vittime delle azioni repressive del governo di Gheddafi. Ad acuire dubbi sulla reale portata umanitaria di tale intervento tuttavia, vi è il fatto che nella risoluzione non è fatta menzione delle responsibility to rebuild. In realtà, soprattutto alla luce delle macerie lasciate negli Stati che sono stati teatro di intervento negli ultimi anni, proprio la responsabilità di ricostruire sembra essere non soltanto un elemento centrale per la ricostruzione dell’intervento umanitario, ma, anche e soprattutto, l’elemento che può legare l’adempimento del fine umanitario con un più generale fine di prevenzione. Infatti per eliminare la minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale costituita dalla presenza di governi instabili, non basta rovesciare tale governo, ma si rende assolutamente necessario dover procedere ad un ristabilimento delle condizioni che possano portare uno Stato ad avere un governo democratico. Difatti si può constatare che a distanza di sei anni dall’intervento, e nonostante il rovesciamento del governo di Gheddafi, la situazione in Libia è tutt’altro che pacifica, anzi il clima di forte instabilità non fa altro che rendere il Paese terreno fertile per l’avanzata di movimenti estremisti. Ma la situazione libica non è l’unico esempio che può deporre in tal senso, si noti infatti come lo stesso regime dei talebani sia riconducibile alle macerie lasciate dall’invasione russa, essendo stato composto da ragazzi cresciuti nelle tendopoli di Peshawar, e dunque in un ambiente che ha di certo facilitato l’attecchire di ideologie estremiste .
L’accoglimento solo parziale da parte del Consiglio della dottrina della responsabilità di proteggere, fa sorgere inoltre diversi dubbi sulla possibilità di applicazione futura di tale teoria, che essendo stata spogliata di alcuni dei suoi presupposti essenziali, non si presta a poter costituire in tali termini una reale garanzia per la tutela dei diritti umani. Inoltre la risoluzione 1973 non offre garanzia in merito alla ricostruzione futura di tale nozione da parte del Consiglio, anzi nella realtà attuale sembra assai più facile ritenere che essa venga configurata caso per caso anche in relazione alle maggioranze del momento. Nonostante i suoi limiti applicativi è fuori dubbio che il progetto dell’ ICISS abbia affrontato tematiche di assoluto rilievo in un contesto dove la possibile degenerazione della violenza in ambiti rappresentati da Stati falliti o da governi dittatoriali, oltre a stridere con le condizioni di vita garantite all’interno degli Stati Occidentali, si presenta come la maggior causa del disastro rappresentato dalle crisi umanitarie.

Dott. Salvatore Viglione

Nato a napoli nel 1991, vive a Melito di Napoli. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso la Federico II di Napoli nel luglio 2016 con tesi in diritto internazionale. Attualmente oltre a frequentare la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, svolge il tirocinio forense presso lo Studio Legale Mancini, specializzato in diritto penale. Ha collaborato con diverse testate editoriali, principalmente con articoli di cronaca locale e politica. Ama il calcio, anche dilettantistico e la scrittura.

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