venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Processo penale in assenza dell’imputato: il caso Regeni

L’entrata in vigore della legge delega 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili», è stato un tentativo di temperamento dei principi fondamentali sanciti dall’ordinamento giuridico italiano volti a garantire la presenza dell’imputato nel processo. In virtù del diritto di difesa (art. 24 Cost.), invero, l’imputato veniva messo in condizione, prima ancora di partecipare al processo, di essere a conoscenza dello stesso a suo carico. Un diritto, quest’ultimo, che trova origine nella forma dell’istituto giuridico della contumacia. Con tale termine, si intende la situazione dell’imputato il quale, benché sia stato ritualmente citato in giudizio, si astiene dal comparire all’udienza dibattimentale in assenza di un legittimo impedimento.1 Ebbene, a norma del vecchio art. 420 quater c.p.p., il Giudice, una volta verificata la mera regolarità delle notifiche, dichiarava la contumacia dell’imputato non presente in udienza, senza la necessità di un’espressa rinuncia a comparire. 

A seguito delle numerose condanne riportate dall’Italia per violazione di fonti sovranazionali in tema di giusto processo, la comunità giuridica internazionale aveva frequentemente censurato le modalità di svolgimento del processo contumaciale, ritenendosi inconcepibile che potesse celebrarsi un processo penale in assenza dell’imputato. 2

Da questa esigenza, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha preso le mosse per inserire, nel modello del giusto processo, i canoni imprescindibili del nuovo processo in absentia. Risulta fondamentale, in tal senso, quello che prevede che la conoscenza del procedimento penale a carico dell’imputato deve essere dimostrata e non più presunta con il mero accertamento della regolarità della notifica.

Appare dunque necessario muovere dalla disamina dell’art. 420 bis c.p.p. per poter comprendere meglio la recente ordinanza della Corte d’Assise di Roma (del 14 ottobre 2021) in merito al caso Regeni. L’articolo in esame costituisce una delle norme cardine (insieme agli artt. 420-ter, 420-quater e 420-quinquies c.p.p.) della disciplina relativa all’assenza dell’imputato. Al comma primo viene enunciato il principio secondo il quale l’imputato può liberamente scegliere se partecipare o meno al procedimento a suo carico. Ne consegue la facoltà del giudice, qualora decida consapevolmente di non prendervi parte, di procedere in sua assenza. Il comma secondo, invece, si occupa di definire in presenza di quali fatti possa presumersi che l’imputato sia a conoscenza del processo. Dunque, una volta verificata la regolare costituzione delle parti processuali, si procede all’individuazione di particolari elementi sintomatici i quali, fungendo da prova di consapevolezza dell’esistenza del processo,  consentono l’avanzamento dello stesso. Salvo il caso di assenza dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o per altro legittimo impedimento (art. 420-ter c.p.p.), il giudice procede in absentia anche quando l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia (nonché nella ipotesi in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la comunicazione dell’avviso della udienza ovvero risulti in qualsiasi altro modo, ma con certezza, che lo stesso è a conoscenza del procedimento) o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti dello stesso. Quando non ricorrono le condizioni anzidette e l’imputato, comunque, non si presenta all’udienza, il giudice dispone che l’avviso sia notificato personalmente ad opera della polizia giudiziaria (art. 420-quater, comma 1, c.p.p.). Tuttavia, circa la conoscenza del procedimento, occorre adesso un’ulteriore verifica e, solo qualora quest’ultima non risulti possibile, può derivarne la sospensione del processo per irreperibilità. 

Nonostante l’intervento regolatorio del 2014, la giurisprudenza italiana ha continuato ad applicare ancora per diversi anni la disciplina ante-riforma. A seguito degli ammonimenti provenienti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, nonché sulla base di alcuni orientamenti della Cassazione penale, soltanto recentemente i giudici hanno iniziato a considerare in maniera fedele e ad litteram le norme poc’anzi esaminate.

In considerazione del notevole interesse mediatico, ne è un esempio la vicenda relativa alla morte di Giulio Regeni, avvenuta al Cairo nel 2016.Con l’ordinanza in esame, risalente al 14 ottobre 2021,5 la Corte d’Assise di Roma ha dichiarato la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che dispone il giudizio, emesso nel maggio 2021 dal GUP del Tribunale di Roma nei confronti dei 4 imputati egiziani. Come ampiamente riportato anche dalla stampa, l’ordinanza concerne il tema della conoscenza, da parte degli imputati, del procedimento pendente presso la Corte di Assise di Roma. Un tema controverso, quello appena riportato,  che il GUP del Tribunale di Roma aveva risolto sulla base di una serie di indici attraverso i quali vi era la possibilità di ricavare la conoscenza del procedimento da parte degli imputati. In particolare, essendo stato oggetto di una «copertura mediatica oggettivamente “straordinaria e capillare”», era inevitabile, per soggetti che rivestono ruoli apicali negli apparati investigativi non esserne a conoscenza. 

Premesso che — si legge nell’ordinanza della Corte d’Assise — sugli imputati cittadini egiziani non risultano acquisite informazioni relative alla residenza, al domicilio o alla dimora se non quelle relative alla data di nascita, il problema dell’acclarata inerzia dello stato egiziano a fronte delle continue richieste e dei numerosi solleciti (sia per via giudiziaria sia per via diplomatica) da parte del Ministero della Giustizia italiano, aveva determinato l’impossibilità di notificare agli imputati, presso uno specifico indirizzo, tutti gli atti del procedimento a partire dall’avviso di conclusione delle indagini. Pertanto agli stessi  non è mai stato recapitato alcun atto ufficiale. 

Quanto, poi, alla questione del clamore mediatico del procedimento, la Corte ha osservato come si evidenzi dalle letture informative dei ROS una «indubbia risonanza mediatica della vicenda Regeni sui media internazionali con richiamo, anche nominativamente, alle persone degli imputati» evidenziandosi un’assenza di pubblicazione dei nomi degli appartenenti alle forze di sicurezza. Inoltre si nota, dai verbali resi dagli stessi alla Procura del Cairo, come avevano in quel momento potuto acquisire conoscenza soltanto dello stato delle indagini e non anche delle successive determinazioni del PM (con relativa iscrizione nel registro delle notizie di reato e conseguente vocatio in iudicium davanti al GUP). 

Pertanto, ha concluso la Corte, in presenza di meri dati presuntivi, i suddetti elementi — indispensabili ai fini della prosecuzione in absentianon possono assurgere al rango di prova certa della conoscenza. In primis, poiché insufficienti a garantire una “ragionevole certezza” non potendo affermarsi, in assenza di una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse a loro carico, che gli imputati «abbiano tentato di sottrarsi al giudizio». In secundis, essendo emersa la partecipazione di uno solo degli imputati al team investigativo nei primi mesi delle investigazioni, un presunto coinvolgimento anche degli altri soggetti violerebbe il principio di colpevolezza, oltreché il diritto di difesa degli imputati e il diritto ad un equo processo ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 6 CEDU. 

La pronuncia in esame, dunque, non corrobora quell’indirizzo giurisprudenziale, che ha voluto porre fine (perlomeno a livello comunitario) ad un fenomeno patologico, quello dei c.d. “processi ai fantasmi”. Il fenomeno era radicato in maniera incisiva all’interno del nostro ordinamento, e lo dimostra in particolare il “clamore” con cui la pronuncia della Corte d’Assise di Roma (e prima ancora altre pronunce, pure della Corte di Cassazione) è stata accolta. Ciò detto, partecipare al processo è un diritto inviolabile per l’imputato, certamente in una posizione — per così dire — non proprio invidiabile. Anche a fronte di reati che scuotono l’opinione pubblica internazionale (come il caso di Giulio Regeni), quindi, se non è possibile affermare con un elevato grado di certezza che l’imputato ha avuto conoscenza (sufficiente) dell’azione penale e dell’accusa a suo carico, il Giudice non può procedere nei confronti di tale soggetto. A maggior ragione poi, se non vi è alcuna prova che dimostri – sempre con un elevato grado di certezza — che l’imputato abbia cercato di sottrarsi alla giustizia o abbia scelto inequivocabilmente di non essere presente in giudizio. 

Rispettare il nuovo assetto delle norme presenti nel codice di procedura penale (artt. 420-bis e seguenti) è fondamentale per garantire realmente il diritto di difesa e, perché no, dimostrare una buona collaborazione tra chi giudica e chi si deve difendere da un’accusa. 

[1] v. http://www.treccani.it.

[2] v. i casi Sejdovic c. Italia del 10/11/2004 ed i casi Kollcaku c. Italia e Pititto c. Italia 08/02/2007.

[3] Gli altri canoni prevedono la presenza al processo come diritto irrinunciabile; la rinuncia come libera scelta dell’imputato e la conoscibilità del procedimento deducibile attraverso alcuni fatti. 

[4] La nota vicenda giudiziaria ha ad oggetto la morte di Giulio Regeni, il 28enne dottorando friulano all’Università di Cambridge sparito il 25 gennaio 2016 al Cairo e trovato senza vita il successivo 3 febbraio lungo il margine di una strada periferica della città. Il 4 dicembre 2018 la Procura di Roma iscrive cinque persone nel registro degli indagati. Sono ufficiali della National Security egiziana. Nel dicembre 2020, i magistrati romani chiudono le indagini nei confronti dei quattro 007 egiziani (tutti per sequestro di persona e uno anche per omicidio), e per un quinto viene chiesta l’archiviazione. 

[5] Testo dell’ordinanza: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2021/10/ordinanza-regeni.pdf. 

Federica Lidia Marchitto

Federica Lidia Marchitto nasce a Benevento il 10 dicembre 1997. Dopo aver conseguito la maturità scientifica presso il Liceo Rummo, si iscrive nel 2016 alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Bologna "Alma Mater Studiorum". Nel novembre 2021 consegue il titolo di dottore magistrale in giurisprudenza discutendo una tesi in Diritto Amministrativo intitolata “La tutela degli interessi sovraindividuali nel procedimento e nel processo amministrativo” (relatori il Prof. Nicola Aicardi e la Prof.ssa Elena Ferioli).  Durante il percorso universitario sviluppa un particolare interesse per il Diritto Penale e prende parte a diverse attività extracurriculari promosse dall’ateneo come processi simulati e seminari. Nel corso dell'ultimo anno universitario ha svolto positivamente un tirocinio di 175 ore presso la Procura della Repubblica di Bologna partecipando attivamente alle udienze penali a fianco del Pubblico Ministero.  Attualmente svolge il Tirocinio Formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso la Seconda Sezione Penale del Tribunale di Milano (diritto penale dell'economia), con Magistrato affidatario la Presidente Dr.ssa Flores Tanga. Frequenta il corso di magistratura ordinario presso la Scuola Greco-Pittella  e collabora con l'Area Penale della rivista “Ius in itinere".  Indirizzo mail : marchittofedericalidia@gmail.com

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