venerdì, Aprile 19, 2024
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Product placement ai limiti della pubblicità occulta: Baby K e Chiara Ferragni per Pantene

Product placement, quali sono i limiti della pubblicità occulta del video clip di Baby K e Chiara Ferragni per Pantene? La vicenda trae origine il 25 giugno 2020 dalla pubblicazione del videoclip “Non mi basta più” della cantante italiana Baby K con la partecipazione della nota influencer Chiara Ferragni. Il brano, sponsorizzato attraverso una collaborazione con Amazon Alexa, è stato altresì scelto come colonna sonora dello spot televisivo estivo di Pantene.

Il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, comunemente conosciuto come Codacons, ha denunciato sia il videoclip che la canzone come pubblicità occulta chiedendo di censurare il brano nella parte di sponsorizzazione del marchio. Il videoclip infatti, non soltanto mostra più volte i prodotti della linea Pantene, ma menziona anche il nome dell’azienda nel testo della canzone, trasformando la hit estiva in “una vera e propria pubblicità in musica“. La fattispecie vede in gioco le nuove regole per il product placement vagliate dall’ AGCOM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – che adesso prevedono la necessità di comunicare agli utenti, in modo evidente e trasparente, la presenza di marchi e prodotti a scopo commerciale. Regole che, secondo l’Associazione, sarebbero state già violate solo qualche settimana prima da Chiara Ferragni con la messa in onda del docufilm sulla vita dell’influencer.

1. Il product placement

Il product placement è una pratica pubblicitaria che consiste nell’inserimento di un prodotto o di un marchio all’interno di un’opera cinematografica (oppure di un canale televisivo, di un videoclip musicale o di un videogioco), a fronte di un accordo intercorso tra il produttore del video e il produttore e/o offerente del il servizio. Fondamentale, in questo strumento di advertising,  è  l’inserimento del marchio/prodotto sovvenzionato a scopo pubblicitario1.

L’esordio del product placement è da ascriversi alle prime opere cinematografiche, divenendo nel tempo una vera propria prassi istituzionalizzata. Il fenomeno è senz’altro in ascesa soprattutto per due principali motivi: in primo luogo per i benefici che ne derivano alle imprese di fronte ad un diverso ed ulteriore strumento di comunicazione più efficace agli occhi del consumatore; in secondo luogo il product placement costituisce, altresì, un metodo di finanziamento  per svariate opere cinematografiche e non solo.

Le modalità più consuete consistono nello screen placement, script placement e nel plot placement2. Lo screen placement consiste nella la presentazione visiva del prodotto in assenza di qualunque riferimento verbale, diversamente da quanto accade nello script placement in cui il marchio diviene oggetto di attenzione da parte dello spettatore poiché richiamato più volte dai protagonisti del prodotto audiovisivo e associato alla loro immagine. Nel plot placement, invece, il marchio è inserito in modo palese ed evidente. 

2. Il quadro normativo tra pubblicità indiretta e pubblicità occulta

Sullo sfondo si colloca il difficile rapporto tra diritto di manifestazione del pensiero e il principio di trasparenza nella comunicazione commerciale. Enunciato dall’art. 5 d.lgs. 145/07 e dall’art. 7 del Codice di Autodisciplina, il principio richiede che qualunque messaggio promozionale o pubblicitario, in qualunque forma espresso, sia sempre riconoscibile come tale e distinto da qualsiasi altra forma di comunicazione. Solo in questo modo il destinatario può essere in grado di riconoscere la finalità promozionale e calibrare le sue scelte in maniera consapevole.

Il principio di trasparenza tutela dunque, da un lato, gli utenti dell’advertising communication e dall’altro tutela anche la correttezza dei rapporti concorrenziali tra imprese, evitando che una pubblicità occulta da parte di un concorrente possa offrirgli un ingiusto vantaggio nella competizione di mercato.

Nei limiti in cui è ammesso dall’odierna legislazione, il product placement viene inquadrato come una mera forma di pubblicità indiretta. Se effettuato lecitamente, infatti, non può essere considerato pubblicità occulta: tale ultima fattispecie, invero, si verifica: laddove informazioni importanti siano nascoste ai consumatori; quando viene celata la finalità promozionale; infine quando il consumatore è indotto a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato3.

In Italia, la disciplina normativa del product placement è stata introdotta per la prima volta dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche), poi abrogato dalla legge 14 novembre 2016, n. 220 (Disciplina del cinema e dell’audiovisivo).
Dalla lettura a contrario dell’art. 1 del Codice IAP si ricava dunque la definizione di pubblicità ingannevole, secondo cui è tutto ciò che è suscettibile di ledere la ‘lealtà’ della comunicazione pubblicitaria).
Successivamente sono state disciplinate le regole di collocamento di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica.
In questo modo viene per la prima volta disciplinato il product placement con le modalità previste dall’art. 1 Codice IAP, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione tra le parti (art. 1, co.2); in particolare, quanto al product placement in veste cinematografica, si sottolinea che esso deve essere esplicitato attraverso un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all’interno del film, con la specifica indicazione delle ditte inserzioniste (art. 2, co.2).

Tale indicazione ha rappresentato difatti la premessa, da parte dell’Italia, della ricezione della direttiva europea sui servizi audiovisivi “Audiovisual Media Services” 2007/65/CE, come approvata il 19 dicembre 2007 dall’Unione Europea.
La nuova direttiva, avviata nel 1997 ad opera della Commissione europea per attualizzare la direttiva 89/552/CEE “Televisione senza frontiere”, aveva l’obiettivo di creare un mercato uniforme dei servizi televisivi, promuovendo nel contempo l’industria europea4.

3. Un contratto atipico. 

Non essendo espressamente previsto dal legislatore, il product placement può essere definito come un contratto atipico. Volendo riassumere i suoi tratti principali, può affermarsi che si tratta di un contratto consensuale, (perfezionandosi lo stesso con l’incontro delle volontà delle parti), ad effetti obbligatori (sebbene talvolta possa comportare anche il trasferimento della proprietà dei prodotti oggetto di promozione), a titolo oneroso e con prestazioni corrispettive (da un lato la prestazione di servizi che consiste nel collocamento di uno determinato prodotto o marchio nel contesto dell’opera cinematografica o televisiva; dall’altra parte, il corrispettivo – cd. costo pubblicitario –  oppure la fornitura di beni o servizi).
Infine, è senz’altro un contratto pubblicitario in quanto posto in essere da operatori della pubblicità e volto a regolare rapporti inerenti alla pubblicità5

Ciò che caratterizza tale tipologia di contratto è il suo oggetto, ossia il fatto che sia volto a regolare la sua relazione con la rapporti inerenti alla pubblicità e dunque una funzione socio-economica. In quanto tale, il product placement deve rispettare le norme della comunicazione pubblicitaria a tutela dei consumatori. 

Clausole essenziali, oltre alla durata ed alla tipologia dell’inserimento, cui commisurare il costo del product placement, sono quelle circa i limiti e divieti e i rimedi per le parti in  ipotesi di nullità6.  Trattandosi di un contratto atipico la tipologia è la più varia.

4. Branded contents e influencer marketing

Già da qualche tempo la dottrina discute circa la possibilità di includere il branded content nella fattispecie di product placement. Pur trattandosi di fenonemi diversi, gli stessi presentano alcuni tratti in comune. 

Il Branded content (tradotto: “contenuto con marchio”) è un contenuto privo di un messaggio pubblicitario esplicito, prodotto ad hoc su commissione del brand con lo scopo di trasmettere i valori connessi al Brand e aumentare così la sua Awareness, ossia  il grado di conoscenza di un marchio da parte dei consumatori nonchè la capacità di ricordarlo e collegarlo ai suoi prodotti o servizi.

In altre parole il branded content diviene product placement quando il contenuto editoriale è realizzato, dal fornitore di servizi media o anche da terzi, dietro pagamento o altro compenso, per rappresentare un marchio o un prodotto. Il product placement si distingue, dunque, nella finalità che consiste nel rappresentare un marchio o un prodotto. Tra il primo e il secondo esiste infatti un rapporto di genere a specie; ne consegue che al product placement si applicano tutte le norme sulla comunicazione commerciale e quelle specifiche del product placement. Lo stesso accade per il branded content, nelle sue manifestazioni qualificabili come product placement e che possono consistere nell’acquisto, da parte dei fornitori, del prodotto da terzi; nell’acquisto, da parte di terzi della licenza per poi produrre il programma televisivo; e infine nella produzione per intero del contenuto editoriale7.

Come già evidenziato, il contratto di product placement è un contratto atipico che consiste, per il produttore/fornitore, nel tratte a proprio vantaggio la notorietà di personaggio pubblico tramite la sua attività professionale al fine di promuovere un brand, in cambio di un corrispettivo economico che varia a seconda dei followers e della popolarità del personaggio.

Quando la celebrity diviene sponsor di un prodotto i momenti di vita quotidiana si intrecciano con le rigide regole della disciplina pubblicitaria: l’immagine deve essere utilizzata secondo gli accordi presi con il contraente. All’influencer spetta dunque il dovere di scegliere il proprio outfit, rifiutandosi ad esempio di vestire capi diversi da quelli per i quali ha un’esclusiva. In ogni caso il contenuto pubblicitario deve essere esplicitato secondo le regole previste dal codice IAP e dalla Digital Chart: i contenuti commerciali devono essere contraddistinti dalla scritta “contenuto pubblicitario”, “contenuto sponsorizzato”, “adv” e simili. I personaggi che creano contenuti video su YouTube e altre piattaforme (c.d. youtubers e vloggers) spesso ricorrono a scritte in sovraimpressione (AD), oppure è lo stesso soggetto a specificare nel video la collaborazione o sponsorizzazione. Il fenomeno è contraddistinto dal termine “endorsement” con cui si indica l’accreditamento di un prodotto o di un marchio da parte di un personaggio famoso o di una celebrità.
Molti di questi soggetti sono in grado di influenzare i consumatori nella scelta di un prodotto o nel giudizio su un brand indossato o testato. È il caso di famosi food-bloggers, travel-vloggers e fashion-vloggers con un largo seguito che hanno saputo trasformare i loro blogs in attività remunerative. Alcuni You Tubers raggiungono una notorietà tale da passare dalla rete alla TV e al cinema.

La Digital Chart, pubblicata nel giugno 2016, indica regole di condotta più chiare per bloggers, youtubers, e influencers che diffondano messaggi a scopo promozionale. Si tratta di un documento che racchiude linee guida e criteri di trasparenza della comunicazione commerciale indirizzati agli operatori commerciali nonché agli utenti dell’ e-commerce al fine di distinguere i contenuti a scopo pubblicitario, primi fra tutti quelli realizzati dai c.d. influencers, da quelli a uso comune. Obiettivo della Digital Chart è quello di svolgere una ricognizione sulle più diffuse forme di comunicazione commerciale nella Rete e nel mondo digitale in genere e di fissare criteri per la riconoscibilità della comunicazione commerciale8.

Tuttavia, nella realtà le regole di condotta spesso si rivelano aggirabili perché sui social media e nei siti web le inserzioni pubblicitarie vengono confuse abilmente con i contenuti, utilizzando grafiche o widgets che li mimetizzano all’interno della pagina web.

5. Conclusioni

La previsione di una specifica disciplina del fenomeno, anche sui social media, non potrà che rafforzare lo sviluppo del product placement, essendo più efficace e semplice per le aziende investire su tale strumento di pubblicità. Tuttavia, come a volte accade ed è avvenuto nel caso di specie, la diffusione del fenomeno, se incontrollata, potrebbe pregiudicare la qualità degli stessi contenuti d’intrattenimento e compromettere il principio di trasparenza che sempre più costituisce oggetto di tutela da parte delle disposizioni normative.

Allo stesso tempo deve evidenziarsi che un argine a tale rischio è insito nella natura stessa del product placement che si caratterizza proprio nel saper plasmare l’inserimento di un marchio nel contesto narrativo e nell’intrattenimento del pubblico. Sovvertire questa impostazione, potrebbe suscitare l’avversione degli spettatori come nei confronti della pubblicità classica, vanificando gli investimenti effettuati.

L’esposto da parte di Codacons potrebbe rappresentare un punto di partenza nel mondo del product placement e del branded contents, sebbene lo stesso sia tardivo e il videoclip abbia già realizzato milioni e milioni di ascolti.

1 Così art. 1 d.lgs. 28/2004 che, in presenza di determinati requisiti, ammette il «product placement» definendolo come il “collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica“, effettuato con le modalità tecniche previste dallo stesso decreto. L’art. 2 individua i requisiti e i limiti di applicazione del product placement, stabilendo che “la presenza di marchi e prodotti deve essere palese, veritiera e corretta; deve inoltre integrarsi nello sviluppo dell’azione, senza costituire interruzione del contesto narrativo“.

2 Per ulteriori approfondimenti si veda,  V. D’Antonio e D. Tarantino,  Il product placement nell’ordinamento italiano: breve fenomenologia di uno strumento pubblicitario, in  Comparazione e Diritto Civile, 2011.

3 Sul punto si veda l’art. 22 del Codice di Autodisciplina IAP. Il codice disciplina, altresì, la c.d. pubblicità occulta,  vietata in ogni sua forma. Perchè sia lecita, la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale (art. 23); costituisce dunque pubblicità occulta l’ ostentazione di marchi o prodotti in film e spettacoli televisivi che non rispetti il principio di trasparenza. Contro la pubblicità ingannevole ed occulta è possibile rivolgersi alla Autorità garante della concorrenza e del mercato ( art. 26 ) mentre il giudice ordinario risulta essere competente in materia di atti di concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598 del codice civile, nonché in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d’autore protetto dalla legge 22 aprile 1941, n. 633. 

4 Si veda P. F. Carballo-Calero, “Pubblicità occulta e product placement”, Cedam, 2004. 

5 Ex multis, M. Fusi, “I contratti della pubblicità commerciale”, Giappichelli, Torino.

6 Si veda, tra gli altri, S. Dell’Arte, “Il contratto di product placement”, in I Contratti, Ipsoa, 7/2007.

7 Le Nuove Regole della Comunicazione Pubblicitaria nell’Audiovisivo. La regolazione delle nuove forme della comunicazione commerciale televisiva: Product Placement e Branded Content, F. Bassan, 2014. http://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/lare-bass.pdf

8 La Digital Chart: una prima regolamentazione dell’influencer marketing, M. Raco, in questa rivista.

Marlene Raco

Marlene Raco Si laurea alla Facoltà di Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Diritto processuale penale. Cultrice della materia e abilitata all’esercizio della professione forense completa la sua formazione con il corso di perfezionamento in "Fashion Law. Diritto e cultura nella filiera della moda"  tenuto presso l'Università degli Studi di Firenze. Ha svolto con esito positivo il tirocinio giudiziario di cui all'art. 73 del D.L. 69/2013 e attualmente lavora come funzionario ad elevata qualificazione (ex cat. D) in materia di contratti e appalti pubblici.

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