venerdì, Aprile 19, 2024
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Profili critici della legislazione in materia di perquisizioni: la censura della CEDU nella sentenza Brazzi

Nella recente pronuncia sul caso Brazzi c. Italia[1], la Corte ha censurato la legislazione italiana sulle perquisizioni, riconoscendo come non vi siano garanzie sufficienti per tutelare gli individui da abusi dell’autorità.

La Corte si è pronunciata sul ricorso presentato da un imprenditore che, sottoposto ad indagini perché sospettato di evasione fiscale, si è rivolto ai giudici di Strasburgo lamentando come la perquisizione subita abbia rappresentato una violazione dell’articolo 8, che tutela la vita privata e familiare.

L’analisi della Corte si è in primo luogo focalizzata sui requisiti previsti dagli artt. 247 e 257 del codice di procedura penale: ai sensi dell’art. 247, le perquisizioni possono essere ordinate con decreto da parte del P.M. nel corso delle indagini qualora vi siano sufficienti motivi per sospettare che il corpo del reato o altri elementi pertinenti si trovino in un determinato luogo. Gli articoli successivi elencano le garanzie concrete relative alla perquisizione domiciliare: l’imputato deve ricevere il mandato, ha facoltà di farsi assistere dal suo legale e la perquisizione deve avvenire in specifiche fasce orarie; gli oggetti sequestrati a seguito di perquisizione possono essere  restituiti a seguito di riesame.

Oltre alla (scarna) previsione normativa, le uniche altre garanzie erano quelle previste dalla legge 117/98; in particolare, all’art. 2, la legge prevede la possibilità che gli individui possano richiedere risarcimenti per danni, patrimoniali e non, che derivino dall’esecuzione della perquisizione, sia essa domiciliare o personale.

Possiamo dunque considerare le garanzie legislative sufficienti per aderire alla previsione dell’art. 8 CEDU? Per rispondere, occorre analizzare analiticamente le valutazioni dei giudici.

In primo luogo, non vi è dubbio che la perquisizione, per se, rappresenti “una ingerenza delle autorità pubbliche nel diritto alla vita privata dell’interessato”, ma la giurisprudenza della Corte ammette interferenze nella sfera personale degli individui qualora queste siano previste alla legge e siano altresì “necessarie in una società democratica”; si richiede, proprio in questo senso, che le leggi siano accessibili e prevedibili, in modo da non rendere queste intrusioni contrarie allo stato di diritto[2].

Il bilanciamento è quindi effettuato tra due opposti interessi: da una parte, quello dell’autorità di poter svolgere indagini accurate ed effettive; dall’altro, il diritto degli individui a veder tutelata la propria sfera privata. Conseguentemente, la Corte richiede che eventuali interferenze e i poteri dell’autorità giudiziaria ed inquirente “siano rigorosamente inquadrati dal punto di vista giuridico e limitati”[3].

Nell’opinione della Corte, la legislazione nazionale in tema di perquisizioni garantisce tanto l’accessibilità quanto la prevedibilità della normativa, tutelando gli individui da abusi dell’autorità. Ci si potrebbe chiedere se la possibilità di “impugnare” il provvedimento solo tramite riesame sia sufficiente per garantire quel “controllo effettivo” su misure potenzialmente contrarie ai diritti convenzionale[4]. Su questo punto, la Corte ha più volte affermato come questa effettività debba essere valutata in relazione alle “circostanze particolari del caso di specie”, valutando “se il quadro giuridico e i limiti applicati ai poteri esercitati” costituiscono “una protezione adeguata contro il rischio di ingerenze arbitrarie delle autorità”[5]. Certamente, però, queste garanzie devono sussistere in qualsiasi fase del procedimento[6]. In questo senso, nell’opinione della Corte, non si può prescindere dal fatto che la mancanza di una procedura di controllo ex ante factum sia, dall’altra parte, bilanciata da un controllo ex post, che permetta di censurare e correggere eventuali errori.

Nel caso di specie, i giudici rilevano come “la legislazione nazionale italiana non prevede un simile controllo ex ante nel quadro delle perquisizioni ordinate nella fase delle indagini preliminari”, con il P.M. che può ordinarle senza chiedere alcuna autorizzazione ad un giudice. Come abbiamo visto, però, sarebbe possibile compensare a questa mancanza con un controllo ex post che sia efficace[7] e permetta di valutare legittimità e necessità della misura[8]. La Corte stessa suggerisce come un controllo effettuato dal giudice penale sia, in questo senso, perfettamente adeguato sia sul punto formale che sostanziale[9].

Alla luce di questi principi, i giudici rilevano come siano numerosi gli elementi che depongono contro le autorità italiane: la perquisizione, rivelatasi un fallimento e conclusasi con l’archiviazione, non è stata minimamente vagliata dal g.i.p., il quale non ha esaminato “né la legittimità né la necessità del mandato di perquisizione, essendosi limitato ad accogliere la domanda del procuratore di chiudere il procedimento nel merito”[10]. La mancanza di una procedura per contestare il provvedimento non ha inoltre permesso di accertare eventuali irregolarità, posto che, ai sensi dell’art. 257 del codice di procedura penale, il riesame è concesso solo nel caso in cui alle perquisizioni segua un sequestro dei beni. Allo stesso modo, anche il rimedio di cui alla legge 177/88 risulta essere non effettivo, in quanto il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare – cosa tutt’altro che fattibile – il dolo o la colpa grave degli agenti e delle autorità coinvolte ai sensi dell’art. 2 §3 lett. d)[11].

La Corte ha pertanto concluso che “anche se la misura controversa aveva una base giuridica nel diritto interno, il diritto nazionale non ha offerto al ricorrente sufficienti garanzie contro gli abusi o l’arbitrarietà prima o dopo la perquisizione”[12], rilevando violazione dell’art. 8 CEDU.

Spetterà ora al legislatore italiano provvedere a modificare la legge o la prassi interna in modo da garantire maggiore sicurezza agli individui sottoposti a perquisizioni.

[1] Corte EDU, Brazzi c. Italia, ricorso n. 57278/11, sentenza 27 settembre 2018

[2] Ibid., §§38 – 39; si vedano anche Corte EDU, Rotaru c. Romania, ricorso n. 28341/95, sentenza 4 maggio 2000, §52 e Corte EDU, Heino c. Finlandia, ricorso n. 56720/09, sentenza 15 febbraio 2011, §36.

[3] Corte EDU, Camenzind c. Svizzera, ricorso n. 21353/93, sentenza 12 dicembre 1997, §45.

[4] In particolare, in tema di art. 8, si vedano Corte EDU, Heino c. Finlandia, cit., §40.

[5] Corte EDU, Brazzi c. Italia, cit., §41; Corte EDU, K.S. e M.S. c. Germania, ricorso n. 33696/11, sentenza 6 ottobre 2016, §45.

[6] Comprese le fasi iniziali, Corte EDU, Modestou c. Grecia, ricorso n. 51693/13, sentenza16 marzo 2017, §44.

[7] Corte EDU, Smirnov c. Russia, ricorso n. 71362/01, sentenza 7 giugno 2007, §45

[8] Corte EDU, Heino c. Finlandia, cit., §45; Corte EDU, Gutsanovi c. Bulgaria, ricorso n. 34529/10, sentenza 15 ottobre 2003, §22.

[9] Corte EDU, Trabajo Rueda c. Spagna, ricorso n. 32600/12, sentenza 30 maggio 2017, § 37.

[10] Corte EDU, Brazzi c. Italia, cit., §46.

[11] Ibid., §49.

[12] Ibid., §51.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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