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Provvedimenti amministrativi a contenuto interdittivo

Consiglio di Stato 9 settembre 2020 n. 5416

Andrea Nicosia

Premessa.

La pronuncia oggetto del presente commento torna a soffermarsi su questioni di diritto oggetto di una copiosa produzione giurisprudenziale che, tuttavia, non sembra aver posto fine alle divergenze interpretative tra giudici amministrativi.

La pronuncia, infatti, ribalta la decisione adottata in primo grado dal T.A.R. Umbria ridefinendo l’ambito di applicazione dell’istituto disciplinato dagli artt. 84 co. 3 del d.lgs. 159/2011.

In fatto

Con ricorso esperito innanzi al T.A.R. Umbria, la ricorrente impugnava il provvedimento a contenuto interdittivo, emesso dall’Ufficio Territoriale del Governo di Perugia, con il quale era stata rilasciata l’informazione interdittiva antimafia nei confronti della ricorrente e, nel contempo, era stata rigettata l’istanza di iscrizione della stessa negli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa ex art. 1, comma 53, l. 190/2012 (c.d. white list).

Contestualmente parte ricorrente impugnava la determinazione dirigenziale U.O. “Acquisti e Patrimonio” del Comune di Perugia con la quale, la stessa, era stata esclusa dalla procedura amministrativa di acquisto di unità abitative da destinare ad edilizia residenziale sociale, proprio in forza del provvedimento a contenuto interdittivo emesso dall’Ufficio Territoriale del Governo di Perugia.

L’amministrazione resistente, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda sostenendo la legittimità del provvedimento in forza dei plurimi elementi raccolti dalle forze di polizia e dalla D.I.A.: elementi idonei – a dire dell’Amministrazione – a far dedurre una contiguità della società ad ambienti della criminalità organizzata.

Il T.A.R. adito, preliminarmente dichiarava il difetto di legittimazione passiva dei Ministeri dell’Interno, della Difesa e dell’Economia, “trattandosi di amministrazioni diverse dalla prefettura che ha adottato il provvedimento interdittivo impugnato con il ricorso principale”.

Quanto al merito, annullava il provvedimento interdittivo impugnato, ritenendo che i fatti posti a fondamento della decisione della Prefettura fossero risalenti, poiché relativi a lavoratori non più alle dipendenze della società e dunque, carenti “dei requisiti di attualità e concretezza, necessari ai fini dell’azione del provvedimento prefettizio”. Per altro, il giudice perugino riscontrava l’indebita attribuzione di un reato ad un soggetto non ricompreso nella casistica di cui all’articolo 84, comma 4 del Codice Antimafia, sicchè “insuscettibile di assurgere ad elemento indiziario del pericolo di infiltrazione mafiosa”.

In conclusione, la sentenza dichiarava l’inammissibilità della domanda di parte ricorrente, concernente l’annullamento degli atti della procedura che avevano condotto alla esclusione della ricorrente, per mancanza della notifica del ricorso alla controinteressata, nonché l’irricevibilità del ricorso per motivi aggiunti poiché tardivo.

Avverso la pronuncia n. 589 emessa in data 20 novembre 2019 dalla I sezione del TAR Umbria, proponeva appello il Ministero dell’Interno sostenendo, preliminarmente, l’erroneità della statuizione nella parte in cui aveva estromesso il Ministero appellante; nel merito, contestava la statuizione del primo giudice per avere compiuto una “indebita parcellizzazione” del quadro indiziario posto a fondamento del provvedimento prefettizio che, piuttosto, doveva ritenersi complessivamente idoneo a provare “la sovra esposizione della società alla volontà criminale della ‘ndragheta”.

L’appellato (originario ricorrente) si costituiva in giudizio eccepend: in rito, la tardività dell’appello sull’assunto che, essendo stati impugnati in primo grado due provvedimenti soggetti a rito speciale (l’interdittiva al rito ordinario e l’esclusione della appellata dalla procedura di gara a rito speciale) occorreva, in ossequio all’articolo 32 c.p.a., ritenere anche in sede di appello applicabile il rito di cui all’articolo 120 c.p.a. con la conseguenza che, il mancato rispetto del termine ridotto, avrebbe dovuto provocare la tardività dell’appello proposto; nel merito, contestava tutto quanto dedotto e domandato dall’appellante concludendo per il rigetto dell’impugnazione e la conferma della sentenza impugnata.

In diritto

Con la sentenza in commento i giudici dell’appello, oltre che soffermarsi sulla questione principale avente ad oggetto i presupposti e la valutazione degli elementi legittimanti l’adozione del provvedimento interdittivo, affrontano alcune questioni preliminari di rito, aventi natura processuale, che meritano altresì di essere approfondite.

Di seguito verranno affrontati, nell’ordine: 1) la eccepita tardività dell’appello sulla scorta dell’applicazione dell’articolo 32 c.p.a.; 2) la quaestio circa la legittimazione attiva del Ministero degli Interni; 3) i presupposti, di merito, per la legittima adozione del provvedimento a contenuto interdittivo.

  1. L’ eccepita tardività dell’appello

Parte appellata – come anticipato – eccepiva, preliminarmente, la tardività dell’appello poiché esperito oltre il termine dei 30 giorni dalla notifica della sentenza, nonostante il rito applicabile fosse quello speciale di cui all’articolo 120 c.p.a.

L’eccezione non è apparsa fondata.

Infatti, nell’eccepire la tardività dell’appello per le ragioni sopra esposte, parte appellata aveva omesso, all’atto della propria costituzione in giudizio, di proporre appello incidentale avverso i capi della pronuncia che avevano statuito sull’inammissibilità e irricevibilità della domanda di annullamento degli atti di gara, provocando il passaggio in giudicato delle relative statuizioni.

È proprio in forza di questa scelta processuale – idonea ad esprimere quiescenza avverso detti capi di pronuncia – che il rito speciale non può – a parere dei giudici – ritenersi applicabile.

La III sezione del Consiglio di Stato pur confermando, in diritto, che “in caso di ricorso recante una pluralità di domande connesse fra di loro e soggette a riti diversi, per la sua definizione si applica, ai sensi dell’articolo 32 c.p.a. comma 1, il rito ordinario1 salvo che taluna delle domande connesse sia soggetta al rito previsto dagli articoli 119 e 120 c.p.a, che si estende anche alle altre domande, in astratto soggette ad altri riti2, esclude l’applicabilità della regola di cui all’articolo 32, comma 1 c.p.a. al caso di specie.

Il fondamento della statuizione s’incentra sul giudicato formatosi sui capi di sentenza che avrebbero, in caso contrario, giustificato l’applicabilità della disciplina.

L’omessa impugnazione – a mezzo di appello incidentale – dei capi di sentenza relativi alla procedura di gara ha cristallizzato il contenuto della sentenza sul punto, riducendo l’oggetto del contendere all’esame delle ragioni relative la fondatezza del provvedimento interdittivo antimafia.

A “corollario obbligato di tale premessa, l’inapplicabilità a questo giudizio del rito abbreviato di cui all’articolo 119 comma 1 lett. a) c.p.a. mancando la ratio per la quale il legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati”3.

È quindi l’omessa proposizione dell’impugnazione incidentale che ha indotto i giudici d’appello a non condividere la tesi della appellata “sicché il petitum è da considerarsi circoscritto al solo annullamento del provvedimento interdittivo e, per l’effetto, sottratto alle regole del rito abbreviato”.

A questo proposito giova rammentare che l’articolo 32, comma 1, c.p.a. disciplina la speciale ipotesi in cui “se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica il rito ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del libro IV”.

Ciò implica – in presenza di più domande soggette a riti differenti – l’applicazione delle regole sancite per il rito ordinario, salvo che nei casi in cui una delle domande abbia ad oggetto controversie indicate all’articolo 119 c.p.a.

Nel caso di specie, invero, parte ricorrente aveva proposto, in primo grado, plurime azioni (una delle quali riconducibile alle materie indicate all’articolo 119 c. 1 lett. a) c.p.a.) tanto da determinare il celebrarsi del primo giudizio con le regole del rito speciale previsto dal titolo IV del libro V del c.p.a.

Detta circostanza, tuttavia, non si era riproposta in appello ove, a fronte dell’impugnazione del capo di sentenza afferente la legittimità del provvedimento a contenuto interdittivo, alcuna impugnazione incidentale era stata proposta con riferimento alle quaestiones riferibili ad una delle materie di cui all’articolo 120 c.p.a., con ciò riducendo ad unum la domanda innanzi al Giudice dell’impugnazione, con naturale mutamento del rito in ordinario e conseguente rigetto della eccezione di parte appellata.

  1. Sul difetto di legittimazione passiva del Ministero

Sempre in via preliminare, i giudici del Consiglio di Stato dirimono la questione posta dall’appellante e relativa alla erronea dichiarazione operata dal giudice di prime cure circa il difetto di legittimazione passiva del Ministero degli Interni.

Chiariscono i giudici che “il Ministero dell’interno non è soggetto diverso dalla Prefettura che è una sua articolazione periferica ex articolo 1, comma 1, D.P.R. n. 180/2006. In altri termini, parte appellante (e in primo grado parte resistente) non possono che essere il Ministero dell’Interno e la Prefettura perché il provvedimento prefettizio è un atto dell’amministrazione dell’interno adottato da una sua articolazione territoriale e, quindi, è il vero contraddittore perché ogni pronuncia nel merito sul provvedimento prefettizio non può che riferirsi innanzitutto al Ministero, in quanto, secondo il codice antimafia, le misure interdittive sono adottate, appunto dalle sue articolazioni territorialmente competenti – le Prefetture – quali estrinsecazioni, dislocate sul territorio nazionale, dell’unico, unitario, potere valutativo attribuito al Ministero in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa a tutela dell’ordine pubblica”.

Si tratta, in verità, di una posizione pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza4.

  1. Sui presupposti per l’adozione del provvedimento interdittivo

Quanto al merito della questione, il Giudice di appello ribalta il contenuto della sentenza di primo grado contestando l’analisi dell’impianto probatorio poiché sommariamente valutato dal T.A.R. Umbria, “dando rilevanza ai singoli elementi che non solo non sempre corrispondono alla realtà fattuale ma che, se visti in un’ottica globale e complessiva – che necessariamente deve connotare lo scrutinio del provvedimento interdittivo – fanno certamente presumere, secondo la logica del più probabile che non, che l’attività della appellata sia contaminata dall ‘ndrangheta crotonese”.

Il Consiglio di Stato, ripercorrendo il consolidato orientamento giurisprudenziale della sezione, si sofferma sulla esigenza che la valutazione degli elementi – in forza dei quali il provvedimento interdittivo può dirsi legittimo – debba essere complessiva e non atomistica, confermando altresì che “ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo da un lato occorre provare non già l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; dall’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri5.

I Giudici di appello ribadiscono, quindi, due principi: da un lato, la non necessaria esigenza che sia provata l’avvenuta infiltrazione, bensì solo l’esistenza di indici da cui desumere la possibilità o probabilità che ciò avvenga6; dall’altro, l’esigenza che la valutazione di detti indici – concreti ed attuali – sia complessiva e non compiuta in modo atomistico.

Infatti, proseguono i Giudici, “ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare una argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale7.

Rinviando all’orientamento assestatosi nella III sezione del Consiglio di Stato, i giudici ricordano che “lo stesso legislatore – art. 84, comma 38d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori9.

Segue una descrizione del ruolo assegnato all’istituto dal legislatore – e confermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 marzo 2020 n. 5710 – secondo cui “ciò che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento11.

È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità12 che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, anche la sentenza in commento attribuisce natura “cautelare e preventiva13, comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa.

Ed è proprio in forza della natura “cautelare” e “preventiva”14 che deve essere riconosciuto alla Autorità amministrativa l’esercizio della discrezionalità nella valutazione di elementi “atipici”15 dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa.

A controbilanciare la potenziale eccessiva pervasività dell’istituto, tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni ribadito che “il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie” QUI MANCA nota.

Ad ulteriore contrappeso la giurisprudenza amministrativa è intervenuta a delineare i criteri di valutazione degli indici posti a supporto del provvedimento amministrativo. L’esigenza di assicurare attualità e concretezza a detti indici è tale da escludere, in alcuni casi, pur in presenza di “reati spia” l’adozione del provvedimento poiché riferibili a eventi datati nel tempo.16

Quest’ultima precisazione ci consente di rievocare un contrasto emerso in giurisprudenza. A coloro che hanno sostenuto l’automatismo tra “reato spia” e interdittiva, si è contrapposta, anche di recente, una parte della giurisprudenza volta a sostenere che “l’emissione di interdittiva antimafia non costituisce un atto vincolato ed il prefetto è comunque tenuto ad un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo17.

Quanto agli indici18 – come anticipato – la loro valutazione non deve essere atomistica ma occorre che, nell’esercizio del potere – che non va esercitato sulla base di meri sospetti bensì in presenza di specifici elementi di fatto – sia complessiva19.

Il decisum

Conclusivamente, i Giudici del Consiglio di Stato nel riformare la pronuncia del giudice di prime cure evidenziano che “la sentenza pecca nell’effettuare una valutazione degli elementi offerti dalla Prefettura non solo non approfondita ma soprattutto atomistica, in palese contrasto con i principi richiamati, sub 3, che regolano la misura di prevenzione antimafia.

Ed invero, contrariamente a quanto affermato dal Tar Umbria, gli elementi di fatto valorizzati dal provvedimento prefettizio, unitariamente valutati secondo il canone inferenziale quae singula non prosunt, collecta iuvant, dimostrano l’esistenza del pericolo di una permeabilità della struttura societaria a più che possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata (al contrario non esclusi dagli elementi addotti dalla difesa ricorrente, che non appaiono decisivi o comunque tali da superare il ridetto giudizio prognostico), secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione20.

1 Consiglio di Stato, sez. III, 11 luglio 2012 n. 4116; Consiglio di Stato, sez. IV, 16 febbraio 2011 n. 996.

2 Consiglio di Stato, sez. IV, 4 luglio 2011 n. 3999.

3 Consiglio di Stato, sez. III, 26 marzo 2018 n. 1882; Consiglio di Stato, sez. III, 22 gennaio 2014 n. 289

4 Cass. Civ., sez. I, 9 gennaio 2020, n. 269, nella quale si rileva che gli organi e le articolazioni delle Amministrazioni, quali la Prefettura, non hanno autonoma legittimazione processuale.

5 Sul punto, il Giudice di appello richiama la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, 18 aprile 2018 n. 2343.

6“E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi” – Consiglio di Stato sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.

7 Consiglio di Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483.

8L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4”.

9 Già il Consiglio di Stato ha chiarito che “il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo di tipo probabilistico che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa […]. Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice […] ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore mentre altri, a condotta libera, lasciati al prudente apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa ai sensi dell’articolo 91 comma 6 del d.lgs. 159/2011 da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata” Consiglio di Stato, sez. III, 6 settembre 2019, n. 6105.

10 Con questa pronuncia, il Giudice delle Leggi ha dichiarato che l’informazione antimafia non viola il principio costituzionale della liberta di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, è giustificata dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana.

11 La Giurisprudenza del Consiglio di Stato ha enucleato nel tempo, con uno sforzo tassativizzante, le situazioni indiziarie tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale che possono costituire altrettanti indici o spie dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli.

12 Istituto dell’informativa antimafia si basa su una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 22 giugno 2016 n. 2774; Consiglio di Stato, sez. III, 21 febbraio 2017.

13 Consiglio di Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3

14 Sulla natura cautelare e preventiva dell’istituto, si veda Adunanza Plenaria 6 aprile 2018 n. 3 che ha rintracciato le ragioni della natura preventiva e cautelare nell’articolo 97 Costituzione – rispetto ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento della P.A. – , nello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra imprese nel mercato e, infine, nel trasparente e giusto utilizzo delle risorse pubbliche statuendo, infine, che “il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona fatti penalmente rilevanti, né prime condotte illecite ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, ovvero l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale e la probabilità che l’evento criminale si realizzi”.

15 Valutazione che, per usare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 febbraio 2017, ric. n. 43395/09, De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale.

16 TAR Sicilia, Ordinanza 10 aprile 2020 n. 296.

17 Ex multis, Consilgio di Stato, III, nn. 758/2019; 1743/2016; 204/2013.

18 Assumono potenziale rilievo per il caso di specie alcune situazioni frequentemente poste a fondamento della misura. Rilevano i rapporti tra soggetti che, in senso ampio, governano l’impresa e i loro familiari che risultino organici, affiliati o semplicemente contigui alle associazioni mafiose. Anche se, a questo ultimo proposito, è stato chiarito che il mero rapporto di parentela non è sufficiente non essendo possibile affermare che il parente di un mafioso sia per ciò solo mafioso ma occorre che esso si atteggi in modo da far pensare, anche solo in termini di maggior probabilità, che l’impresa sia gestita dal soggetto criminale mediante il contatto con il proprio congiunto. Ciò che ha precisato la giurisprudenza è che occorre una “consapevolezza” anche non tradotta in condotte penalmente rilevanti dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità. Così Consiglio di Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743.

19 Così, per tutte, Consiglio di Stato, sez. III, 22 giugno 2016 n. 2774.

20 Di questo avviso anche Consiglio di Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 759.

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