venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Pusher scarcerato dopo tre giorni. Bufere mediatiche e motivazioni giuridiche sul caso

Ha scatenato i commentatori del web la notizia della decisione del Tribunale del riesame di Milano che ha ordinato la scarcerazione di un trentunenne originario del Gambia, finito in carcere per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. La motivazione del provvedimento, secondo le prime testate giornalistiche online, sarebbe stata la sopravvenuta carenza dei presupposti che precedentemente avevano determinato la carcerazione dello spacciatore avvenuta in seguito ad un giudizio direttissimo (artt. 449 ss. c.p.p.) ed in particolare le notizie riportavano che il gambiano fosse stato scarcerato perché “spaccia droga per necessità”. Per giunta, secondo alcuni reporter il Tribunale del riesame, pur accettando che il pusher fosse recidivo e che ci fosse un concreto e attuale pericolo di reiterazione di analoghi reati, ha deciso di applicare una misura tangibilmente goffa, quale il divieto di dimora nei luoghi della città di Milano dove il giovane ha esercitato la sua attività. A rigor di logica, dunque, se è vero tutto ciò, i giudici di Milano avrebbero scarcerato il gambiano perché lo spaccio di sostanze stupefacenti era la sua unica fonte di sostentamento ed ingenuamente sostenendo che il medesimo avrebbe osservato la legge, allontanandosi subito dai luoghi abitualmente frequentati. In fine, gravissima sembrerebbe la considerazione che il Tribunale avrebbe fatto in merito al “dato ponderale” del caso: al momento dell’arresto il gambiano aveva con sé 5 pastiglie di ecstasy, ma queste non basterebbero a consentire la custodia cautelare in carcere, visti i limiti di pena ex art. 73 c. 5 della L. 309/1990.

Gli antichi latini direbbero “Vox populi, vox Dei”, infatti come spesso accade, quando il popolo è concorde nell’affermare una cosa, quella cosa assurge a verità. E questo, nel millennio della tecnologia, vale anche nel mondo virtuale. Eppure, è proprio in certi ambiti, come quello giudiziario che l’analisi del caso dovrebbe essere lasciata ai tecnici della materia. Il punto di vista del giurista, non può che partire da una suddivisione degli elementi messi in gioco in questa vicenda per discernerli e capirne il funzionamento e poi in seguito trarre delle conclusioni sull’adeguatezza o meno del provvedimento:

Il perchè della scarcerazione. Le misure cautelari. 

“Le misure cautelari sono dei provvedimenti emessi nel periodo intercorrente tra l’inizio del procedimento penale e l’emanazione della sentenza. Vengono adottati dall’autorità giudiziaria per evitare che si verifichino alcuni pericoli; nello specifico i pericoli che l’adozione vuole scongiurare sono: 1) difficoltà nell’accertamento del reato; 2) difficoltà nell’esecuzione della sentenza; 3) possibilità che vengano compiuti altri reati o che si aggravino le conseguenze di un reato.”[1]

La loro finalità è quella di evitare che si verifichino alcuni pericoli ed infatti i presupposti delle stesse sono il fumus commissi delicti e il periculum libertatis: rispetto al primo profilo, (il pericolo della commissione di un delitto) “l’art. 273 c.1 individua quali condizioni generali di applicabilità delle misure in questione la sussistenza a carico del destinatario di gravi indizi di colpevolezza “; sul versante del periculum libertatis (cioè pericolo di fuga o di inquinamento delle prove), l’art. 274 “si preoccupa di predeterminare le esigenze cautelari” che sole, concorrendo con il presupposto rappresentato dai gravi indizi di colpevolezza, devono considerarsi di per sé idonee a giustificare l’adozione delle misure cautelari personali.”[2] È chiaro che, però, ciascuna delle esigenze debba essere autonomamente sufficiente a legittimare il suo utilizzo e che nessuna possa essere disposta se non in base al concreto accertamento della loro sussistenza. Infatti, “agli atti deve sussistere una prognosi di colpevolezza che però, in ossequio all’art. 27 Cost., comma II, deve essere ponderata alla luce del principio di presunzione di innocenza fino alla definitività della sentenza;”[3] Le misure cautelari possono essere personali e reali; in quelle personali vi rientrano le misure coercitive e quelle interdittive; tra le misure coercitive vi sono quelle custodiali e quelle obbligatorie. La custodia cautelare in carcere (insieme agli arresti domiciliari e alla custodia cautelare in luogo di cura) appartiene alla categoria delle misure cautelari custodiali ed in merito l’art. 275 c.p.p. specifica che la medesima “può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Essendo, dunque, riconosciuta come la più gravosa tra tutte le misure cautelari, il ricorso alla carcerazione dell’imputato è considerata una vera e propria extrema ratio, “tale, cioè, da utilizzarsi soltanto quando, in concreto, le esigenze cautelari del singolo caso non possano venire soddisfatte da nessuna diversa, o meno vessatoria, forma di limitazione della libertà”[4].

Pertanto, tornando al caso di specie, il Tribunale del riesame, nell’ordinare la scarcerazione dello spacciatore, non ha fatto altro che esaminare la possibilità o meno di applicare lo strumento cautelare previsto dalla legge e tipizzato dal Codice, in base ad un non casuale, bensì rigoroso e graduato ordine gerarchico[5]; Nondimeno, i giudici del riesame hanno utilizzato gli stessi principi proprio per giustificare la non sussistenza, secondo la legge, dei presupposti del periculum libertatis e del fumus commissi delicti, idonei a giustificare la misura detentiva. La decisione si è dunque basata sulla combinazione tra i già citati artt. 73 del DPR 309/1990[6] e 275 c.p.p. e il singolare aspetto della necessità del pusher di mantenersi grazie ai proventi dello spaccio, non può considerarsi altro che una precisazione di fatto, del tutto estranea alle motivazioni di diritto.

Il divieto di dimora e l’obbligo di allontanamento: misura troppo tenue?

Come anticipato nelle premesse, altro punto discusso è stato quello in cui i giudici del riesame hanno ammesso la presenza di un «un concreto e attuale pericolo di reiterazione di analoghi reati, tenuto conto dei precedenti specifici, l’ultimo dei quali risale a pochi giorni prima dell’arresto» e che abbiano concluso applicando “il divieto di dimora nei territori del Comune di Milano, oltre ad allontanare il ricorrente dal contesto territoriale in cui ha operato»[7].

Il web ha obiettato la decisione accusandola di “ingenuità”,  ma certamente la constatazione che l’imputato possa disattendere l’ordine datogli dall’autorità, per la legge si colloca soltanto in un momento successivo alla sua realizzazione e il nostro ordinamento di diritto non contempla alcuna anticipazione. Il codice, tuttavia, prevede che in attesa della sentenza definitiva, in caso di inottemperanza dell’ordine coercitivo, si debba applicare l’articolo 276 c.p.p., recante “Provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte”. In particolare, il comma 1 dispone che “In caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione”, quindi se l’imputato trasgredisce la prescrizione giudiziaria, lo stesso Tribunale del riesame potrà disporne un aggravio secondo i successivi commi dell’art. 276 c.p.p.

Dunque, anche in questo caso il Codice non lascia spiragli per introdurvi interpretazioni alternative: le misure del divieto di dimora e dell’obbligo di allontanamento dai luoghi in cui il pusher svolgeva la sua attività è legittima e potrà anche essere, in un secondo momento, rimodellata.

Cinque pastiglie di ecstasy bastano per la carcerazione?

L’ultimo profilo nebbioso riguarda il c.d. dato ponderale del quantitativo di sostanze stupefacenti che il giovane possedeva al momento dell’arresto. Se in un primo momento questo era stato ritenuto sufficiente a fondare la cattura e la carcerazione dell’imputato, i giudici del Tribunale del riesame hanno valutato questa circostanza come carente in relazione all’applicazione della misura detentiva. Anche questa decisione ha una sua fonte legale e quest’ultima risiede ancora una volta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 9 ottobre 1990, il quale prevede la possibilità che nei casi di lieve entità del fatto si possa evitare di irrogare sanzioni detentive. In altre parole, il fatto che i giudici abbiano giudicato il quantitativo delle 5 pastiglie come “contenuto” e non sufficiente a fondare la disposizione di una misura cautelare in carcere non è frutto di fantasia, bensì nasce dalla legge stessa. In conclusione, la polemica dei lettori sul fatto che “basta una sola pillola per morire”, da una prospettiva squisitamente giuridica è assolutamente discutibile.

 

[1] https://www.brocardi.it/dizionario/4465.html

[2] CONSO G., GREVI V., BARGIS M., “Compendio di procedura penale”, CEDAM, VII ed., 2014.

[3] Tratto da www.brocardi.it

[4] CONSO G., GREVI V., BARGIS M., “Compendio di procedura penale”, CEDAM, VII ed., 2014. Questa regola subisce un’eccezione quando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine ad uno dei delitti considerati più “gravi”, quali quelli di cui agli artt. 575, 600-bis c.1, 600-ter tranne il comma 4, 600-quinques, 609-bis, 609quater e 609octies c.p. In questi casi dovrà venire sempre disposta la custodia carceraria a meno che non siano acquisiti elementi di quali risulti che non sussistono esigenze cautelari (non mancano sentenze in cui tale principio sia stato censurato, es. Sent. n. 265 del 21/07/2010 Corte Cost.).

[5] A tal proposito si ricordi l’art. 275 c 2: “Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata”.

[6] Articolo 73 – “Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309, 9 ottobre 1990 «TESTO UNICO DELLE LEGGI IN MATERIA DI DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI E SOSTANZE PSICOTROPE, PREVENZIONE, CURA E RIABILITAZIONE DEI RELATIVI STATI DI TOSSICODIPENDENZA».

[7] Tratto da www.ilgiornale.it

Avv. Alessia Di Prisco

Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli. Iscritta all'Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano. Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo "Il dolo eventuale", con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello. In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici. Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere. Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell'organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.

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