giovedì, Marzo 28, 2024
Labourdì

Qualificazione giuridica del rapporto di lavoro: la Certificazione del contratto

E’ quanto mai evidente, soprattutto negli ultimi anni post- crisi economica, che il mercato del lavoro stia subendo importanti cambiamenti, valevoli di una concreta attenzione e valutazione, in ordine specialmente alla corretta qualificazione della fattispecie contrattuale da applicare ai rapporti di lavoro.
Le importanti novità introdotte dal recentissimo Decreto Dignità, nonché considerati anche i precedenti interventi legislativi, fanno emergere una tendenza ormai evidente del Legislatore negli ultimi anni: si sta cercando, nonostante le critiche che vengono e che verranno (anche per il futuro) mosse nei confronti dei governi in carica, di porre qualche risoluzione all’evidente ricorso, sempre più frequente, a tipologie contrattuali “flessibili” nella stipulazione di contratti di lavoro subordinato diverse dal tempo indeterminato (tempo determinato, lavoro accessorio, parasubordinazione nonché collaborazioni di vario genere).
D’altro canto, risulta altresì evidente come la fattispecie contrattuale intorno alla quale viene costruito, da sempre, il diritto del lavoro risulta generato da un delicato equilibrio tra la funzione collaborativa del prestatore di lavoro e un effetto di dipendenza generato dalla stipula del contratto di lavoro subordinato.
Nell’ordinamento giuslavoristico italiano, la “collaborazione” e la “subordinazione” rappresentano due variabili altamente apprezzate e considerate, diversamente dalla “dipendenza”, la quale non è una relazione “giuridicamente meritevole di sostegno legislativo”[ 1 ]; nonostante ciò, la variabile dipendenza ha originato, negli anni, un deciso intervento del legislatore, volto a porre risoluzioni alla eccessiva soggezione che molte volte affliggeva il lavoratore subordinato all’interno del rapporto di lavoro.

Tutto quanto appena esposto, in un’ottica di tutela del prestatore di lavoro, ha causato una restrizione ai poteri datoriali (per esempio, è stata ridimensionata la libera recedibilità del contratto) ed una contraria estensione di considerazione nei confronti del lavoratore.
Tale tendenza, caratteristica degli ultimi 30 anni, pur se portatrice di valori sani e riferenti al Welfare State, non ha fatto altro che peggiorare la situazione contrariamente a quello che ci si aspettava: di fatto il lavoratore dipendente, pur rimanendo all’interno della propria subordinazione e dipendenza all’interno del contesto lavorativo, ha potuto avvalersi unicamente di regole dirette a limitare i poteri del datore di lavoro, con il conseguente crescere di contenziosi riguardanti la reale valutazione della fattispecie contrattuale applicata, destinati quindi ad essere gestiti dai giudici del lavoro.

Dunque, emerge un modello sempre più bloccato, che ha generato di conseguenza un adattamento quasi “necessitato” della parte datoriale, la quale ricorre sempre maggiormente a fattispecie contrattuali caratterizzate da collaborazione tra le parti, sciolta dalle briglie e dalle limitazioni del lavoro subordinato, dal momento che la subordinazione genera vincoli legali e conflitti altamente problematici, che fanno evidentemente male all’azienda e alla sua dinamicità.

Collaborazione senza subordinazione, quindi, che ha ri-aperto però un dibattito, sempre molto fecondo negli ultimi anni, sul confine (sottilissimo) tra i due elementi sopra citati, in ordine alla valutazione della concreta fattispecie contrattuale applicata allo specifico rapporto di lavoro: lavoro subordinato celato dalla cd. “parasubordinazione”?

La parasubordinazione rappresenta, ad oggi, un’area intermedia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, una cosiddetta “area grigia”.Non solo, è sempre più evidente come molteplici lavorazioni possono essere oggetto indistintamente sia del rapporto di lavoro subordinato, sia di quello autonomo; risulta, dunque, priva di qualsiasi valenza qualificatoria l’antica bipartizione esistente tra la locatio operarum (lavoro subordinato) e la locatio operis (lavoro autonomo), e l’unica soluzione per la corretta valutazione del rapporto di lavoro può essere estratta nella concreta analisi dell’espletamento della prestazione lavorativa, nonché nella verifica dell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro (criteri emersi dalla giurisprudenza maggioritaria in materia).
Di conseguenza, al fine qualificare ottimamente la fattispecie contrattuale ed essere al riparo da qualsiasi dubbio, è quanto mai necessario l’utilizzo di una speciale procedura per dare certezza alla qualificazione giuridica allo specifico contratto di lavoro, riducendo naturalmente il contenzioso in materia: si parla, in tal senso, della Certificazione del Contratto di lavoro.
Tale importante procedimento è stato introdotto dagli artt. 75-84, D.Lgs. 10 Settembre 2003, n. 276 (cd. Legge Biagi); in particolare, all’art. 75, viene definito che “al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro secondo la procedura volontaria stabilita nel presente titolo.”

In seguito, la Legge 4 Novembre 2010, n. 183 ha esteso l’ambito di applicazione di tale istituto, consentendo l’utilizzo della Certificazione per qualsiasi contratto in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro.
L’evidente finalità cui si ispira la Certificazione riguarda la volontà di individuare la “coerenza formale tra la volontà espressa dalle parti stipulanti e le clausole contenute nel contratto da certificare”[ 2 ]: un valido strumento, dunque, per certificare il contratto di lavoro, ed evitare problematiche riferenti ad un’erronea qualificazione dello stesso, con una reale deflazione del contenzioso di lavoro.
Alla procedura di certificazione si può ricorrere non solo nella fase di formazione del contratto, ma anche quando il contratto sia già in corso di esecuzione, e da tale distinzione discende altrettanta differenza riguardante l’efficacia temporale della certificazione: nel primo caso, gli effetti della certificazione si producono unicamente qualora le parti provvedano a sottoscrivere il contratto; nel secondo caso invece, gli effetti della certificazione retroagiscono fino al momento di inizio del contratto medesimo.
Tale procedura può essere utilizzata, secondo quanto previsto dagli artt. 82-84 del D.Lgs. n. 276/2003, per certificare rinunzie e transazioni di cui all’articolo 2113 c.c., per depositare regolamenti interni delle cooperative di lavoro, nonché per la stipulazione di un contratto di appalto (art. 1655 c.c.).

La funzione della Certificazione è stata ampliata notevolmente con il Jobs Act; in tal senso, essa può essere utilizzata per:
– validare la genuinità delle cd. Collaborazioni Coordinate e Continuative (co.co.co., in ambito parasubordinazione), certificando quindi l’assenza delle caratteristiche che possono determinare l’applicazione della disciplina della subordinazione (art. 2 d.Lgs. n. 81/2018);
– stipulare patti di demansionamento nell’interesse del prestatore di lavoro (art. 3 d.Lgs. n.81/2015);
– stipulare accordi relativi a clausole elastiche (art. 6, D.Lgs. n. 81/2015).

Due sono i requisiti determinanti della Certificazione, la cui mancanza (di almeno uno) comporta la violazione del procedimento: forma scritta e comunanza dell’istanza (vi deve essere accordo da entrambe le parti), e ciò fa in modo che ci si trova in una sorta di volontarietà qualificata.
Il legislatore non ha posto un limite alla tipologia di contratto al quale applicare la procedura di certificazione: qualificazione di contratti, genuinità di singole clausole interne al contratto, contratti di appalto e regolamenti interni di cooperative, siamo in presenza di un istituto altamente flessibile e diretto alla propria finalità.

L’art. 76 del D.Lgs. n.276/2003 disciplina gli organi abilitati alla certificazione:
– gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento ovvero a livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale;
– le Direzioni provinciali del lavoro (DTL, oggi Ispettorato Territoriale del Lavoro)e le province;
– le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie;
– il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali;
– i Consigli Provinciali dei Consulenti del Lavoro.
Le specifiche procedure di certificazione sono determinate all’atto di costituzione delle commissioni, ma in ogni caso il procedimento deve sempre svolgersi nel rispetto di buone pratiche e di alcuni principi generali.
Come si è detto, la procedura avviene su istanza volontaria, con il consenso di entrambe le parti, con l’evidente vantaggio che le parti sono assistite da una commissione tecnica, qualificata e terza nella qualificazione giuridica del contratto di lavoro.
L’inizio del procedimento deve essere comunicato al competente Ispettorato Territoriale del Lavoro, il quale provvederà a darne comunicazione alle autorità pubbliche, nonché agli enti nei confronti dei quali l’atto di certificazione produrrà i suoi effetti (INPS, INAIL, Agenzia delle entrate, etc.).
Il procedimento, in ogni caso, deve concludersi entro 30 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte della commissione di certificazione, ovvero dalla presentazione di ulteriore documentazione presentata ad integrazione.
A conclusione del procedimento, la Commissione emette l’atto di certificazione[ 3 ], il quale deve essere motivato, e deve altresì contenere il termine e l’autorità cui è possibile esperire un ricorso.

Si generano, così, due atti distinti e separati: il contratto, e il corrispettivo atto amministrativo che lo certifica.
Gli effetti della certificazione decorrono dal momento della sottoscrizione da parte dei membri della commissione, e permangono in capo ai terzi fino a quando non sia accolto un rimedio giurisdizionale contro la medesima certificazione. Di fatti, secondo quanto previsto dall’art. 80, D.Lgs. n. 276/2003, è prevista la possibilità di ricorrere al giudice ordinario per fare accertare l’errata qualificazione del rapporto da parte della Commissione che ha adottato l’atto[ 4 ]: possono agire in giudizio contro l’atto di certificazione sia le parti del contratto certificato, sia i terzi nella cui sfera giuridica l’atto produce effetti.
L’impugnativa può essere ammessa solo per motivi che sono tassativamente indicati nella Legge (art. 80), ed essa si propone davanti al giudice del lavoro, il quale può emettere sentenza di rigetto (è confermato l’atto di certificazione) oppure sentenza di accoglimento, in quanto è stata accertata l’erronea qualificazione del rapporto oppure un vizio del consenso, o ancora difformità tra il programma negoziale certificato e la sua concreta attuazione (art. 80).
Nel prendere la sua decisione, il giudice potrà anche valutare il comportamento delle parti in sede di certificazione.
L’accertamento giudiziale dell’erronea qualificazione ha effetto fin dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale; nel caso di difformità tra programma negoziale e concreta attuazione, l’accertamento ha effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità. In ogni caso, però, il ricordo non interrompe gli effetti della certificazione, che permangono per tutta la durata del giudizio e fino all’eventuale sentenza di accoglimento, la quale varierà gli effetti della certificazione stessa.
La funzione di tale istituto risulta ulteriormente valorizzata anche dal Ministero del Lavoro nell’ambito della fase ispettiva; secondo quanto presente dalla Direttiva Ministeriale del 18 Settembre 2018, nella quale vengono fornite precise indicazioni agli organi ispettivi su come approcciarsi ai contratti certificati e all’istituto in genere, viene data una particolare attenzione alle forme di controllo istituzionale alternativo (come le sedi di Certificazione), indirizzando in primo luogo i controlli in capo a quelle “situazioni che sono totalmente esenti da controllo o verifica preventiva”[ 5 ].
Si è in presenza, nonostante le problematicità connesse e nonostante la scarsa applicazione reale, di un istituto dall’elevato potenziale applicativo, in particolare in un’ottica di legalità e giusta configurazione giuridica del rapporto di lavoro, adottabile da tutti quei datori di lavoro che abbiano volontà di dare effettiva valenza (e certezza) ai rapporti di lavoro stipulati nel proprio contesto aziendale.
Urgono interventi legislativi che vadano, in primo luogo, a risolvere le problematiche sopra citate, e che poi procedano a creare tangibili circostanze per incentivare il ricorso, quanto mai vantaggioso, dell’istituto della certificazione.

 

[ 1 ] Esposito M., Gaeta L., Santucci R., Viscomi A., Zoppoli A., Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, Mercato, Contratto e Rapporti di lavoro, edizione 2016.

[ 2 ] Esposito M., Gaeta L., Santucci R., Viscomi A., Zoppoli A., Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, Mercato, Contratto e Rapporti di lavoro, edizione 2016.

[ 3 ] L’atto di Certificazione ha natura di atto amministrativo.

[ 4 ] Tale particolare possibilità ha accentuato il dibattito sull’utilità effettiva della procedura di Certificazione, nata per ridurre il contenzioso, ma che con tale rimedio giurisdizionale appena citato potrebbe addirittura aumentarlo.

[ 5 ] Direttiva Ministero del Lavoro, 18 Settembre 2008, cd. Direttiva Sacconi.

Andrea Polizzese

Praticante Consulente del Lavoro in attesa di abilitazione professionale, appassionato studioso di Diritto del Lavoro e Diritto della Sicurezza Sociale. Laureato Magistrale presso l'Università degli Studi Magna Grecia di Catanzaro, corso di Laurea "Analisi e Gestione dei Sistemi Organizzativi" (Organizzazione e Mutamento Sociale, LM-63).

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