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Rapporti intertemporali tra millantato credito e traffico di influenze illecite

Con sentenza n. 5221/2020 del 18/09/2019, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha analizzato le questioni intertemporali derivanti dall’abrogazione dell’art. 346 c.p. ad opera della L. n. 3/2019[1].

La Suprema Corte ha escluso che vi sia continuità normativa tra l’abrogato reato di cui all’art. 346 co. 2 c.p. e il nuovo delitto di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis. I giudici di legittimità hanno rilevato che la fattispecie abrogata è piuttosto riconducibile al reato di truffa di cui all’art. 640 c.p., il cui ambito applicativo risulta dunque ampliato. In particolare, integra il delitto di truffa la condotta di chi, sfruttando o vantando relazioni asserite con un agente pubblico, mediante artifici e raggiri, induce in errore la vittima, che si determina a dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità a colui che vanta rapporti con l’agente pubblico.

Il reato di millantato credito

E’ opportuno analizzare alcuni profili dell’abrogato reato di millantato credito, definito dalla dottrina una fattispecie tradizionalmente ambigua[2].

Era considerato delitto plurioffensivo, lesivo del patrimonio del privato e del buon andamento della pubblica amministrazione. Veniva qualificato come un’ipotesi speciale di truffa, con conseguente non punibilità del soggetto che corrisponde o promette di corrispondere denaro o altra utilità, in quanto vittima di truffa. Sulla base di un’interpretazione estensiva, poi, il delitto di millantato credito veniva riconosciuto anche in presenza di un’effettiva relazione tra il pubblico ufficiale e l’agente. In tale ipotesi la lesione cagionata al bene dell’imparzialità della pubblica amministrazione si rivelava preponderante rispetto all’offesa del patrimonio privato. Tuttavia, detta interpretazione estensiva con effetti in malam partem non andava esente da critiche in dottrina, stante la frizione con il principio costituzionale di tassatività, corollario del principio di legalità[3].

Tale problematica veniva meno con l’adozione della L. n. 190/2012, che, introducendo l’art. 346-bis c.p., sanzionava chi, in forza di una relazione con il soggetto pubblico, otteneva la promessa o la dazione di una somma di denaro o di altra utilità da parte del privato, quale prezzo della sua opera di intermediazione illecita o quale compenso da destinare al pubblico ufficiale. Si trattava di una fattispecie molto simile al millantato credito, comprensiva inoltre di una sanzione per il compratore dell’influenza indebita, considerato parte di un accordo lesivo del buon andamento dalla pubblica amministrazione.

I problemi interpretativi relativi alla delimitazione dell’ambito di applicazione delle due fattispecie venivano in parte risolti dalla L. n. 3/ 2019, abrogativa dell’art. 346 c.p. e modificativa dell’art. 346-bis c.p..

Sorgevano tuttavia le problematiche di successione delle norme penali nel tempo portate all’attenzione della Corte nella sentenza in esame. L’intenzione del Legislatore era di inglobare la norma abrogata nel nuovo reato di traffico di influenze illecite, in cui si punisce chi sfrutta o vanta relazioni esistenti o asserite con l’agente pubblico. Si mantiene poi la punibilità di chi indebitamente promette o dà denaro o altra utilità. In dottrina, si è criticato l’irragionevole assoggettamento al medesimo trattamento sanzionatorio del compratore di un’effettiva influenza e dell’acquirente di ‘mero fumo’. In quest’ultimo caso, si è osservato che, in assenza di un’esistente relazione tra l’agente e il funzionario pubblico, chi corrisponde denaro o altra utilità, non mette in alcun modo a rischio l’imparzialità dell’amministrazione. La rilevanza penale di detta condotta appare quindi in contrasto con i principi costituzionali di materialità e di offensività[4].

La decisione della Corte

Nella pronuncia in esame, la Corte mostra sensibilità per i  menzionati rilievi critici avanzati dalla dottrina.

I giudici di legittimità considerano che sussiste un rapporto di continuità tra il reato di millantato credito di cui al primo comma dell’art. 346 c.p., solo formalmente abrogato dalla L. n. 3/2019, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis. La nuova fattispecie comprende infatti le condotte previste dalla disposizione precedente, incluse quelle di chi, vantando un’influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si fa dare denaro o altra utilità quale prezzo della propria mediazione[5].

La medesima soluzione non è adottata per la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 346 c.p.. Al riguardo, la Corte ricorda che si trattava di un’autonoma fattispecie di reato[6], ricalcata sullo schema della truffa. Parte della giurisprudenza escludeva infatti che potesse configurarsi concorso formale tra il reato di millantato credito e quello di truffa. In particolare, si incriminava una specifica forma di raggiro nei confronti del soggetto passivo, indotto a impegnarsi a una prestazione patrimoniale, a causa di una falsa rappresentazione della realtà. Più nello specifico, la Corte osserva che il termine “pretesto”, non richiamato nel primo comma, indicava il carattere fraudolento della condotta del soggetto attivo. Si trattava dunque di un’offesa al patrimonio della vittima attraverso artifici e raggiri, piuttosto che all’imparzialità della pubblica amministrazione, dovendosi ritenere inesistente il futuro rapporto tra il millantatore e il pubblico ufficiale.

Ciò considerato, la Corte non ravvisa continuità normativa con la fattispecie di cui all’art. 346-bis, nonostante l’intenzione del Legislatore fosse quella di inglobare nel reato di traffico di influenze illecite il millantato credito.

In primo luogo, la Suprema Corte chiarisce che la nuova ipotesi di reato costituisce un’anticipazione di tutela del buon andamento della pubblica amministrazione. Si tratta dunque di un reato di pericolo, volto a sanzionare condotte che nemmeno avrebbero costituito tentativo di corruzione. Dalla lettera dell’art. 346-bis si evince che rilevano penalmente attività prodromiche alle più gravi condotte di corruzione, circostanza confermata dalla clausola di sussidiarietà posta in apertura della disposizione. Infatti, tale clausola fa salvi i casi di concorso nel reato di corruzione di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e 322-bis. Conseguentemente, tale impostazione mal si concilia con la protezione del bene privato del patrimonio della vittima a cui tendeva l’abrogato delitto di millantato credito.

In secondo luogo, si rileva che, all’art. 346-bis co. 2, l’applicazione della medesima pena prevista per l’agente a colui che dà o promette indebitamente denaro o altra utilità non pare estendibile a un’ipotesi di truffa, qual è quella contenuta nell’abrogato art. 346 co. 2. Come anticipato, quest’ultima norma prevedeva una condotta fraudolenta indirizzata a trarre in inganno la vittima circa l’esistenza di un rapporto con il soggetto pubblico, tramite il ricorso a un “pretesto”. Dunque, secondo tale ricostruzione della ratio delle norme, la posizione della vittima truffata non potrebbe rientrare nell’incriminaizone di cui all’art. 346-bis co. 2.

Infine, la Corte chiarisce che assume rilievo essenziale la non esatta corrispondenza tra la condotta prevista dalla norma abrogata e quella di cui all’art. 346-bis. L’omesso riferimento al “pretesto”, o a un termine equipollente, esclude l’identità tra il reato abrogato e quello di nuovo conio. L’espressione “vantando relazioni (…) asserite” riguarda l’ipotesi in cui dette relazioni (inesistenti) siano solo enunciate dall’agente. Sussiste, invece, il delitto di truffa (art. 640 co. 1 c.p.) qualora l’agente, mediante artifizi e raggiri, induca in errore la persona offesa che si determina a corrispondere denaro o altra utilità a colui che vanta rapporti nemmeno ipotizzabili con il soggetto pubblico.

 

[1] La norma abrogata prevedeva: “chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da trecentonove euro a duemilasessantacinque euro.

La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da cinquecentosedici euro a tremilanovantotto euro, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare”.

[2] G. Ponteprino, L’incerta qualificazione giuridica della venditio fumi. Conseguenze (in)attese dell’abrogazione del millantato credito, 17 giugno 2020, in www.sistemapenale.it.

[3] Idem.

[4] Idem.

[5]Cass. n. 17980/2019. Per un’analisi critica di tale statuizione si veda G. Ponteprino, cit.

[6] SS UU n. 12822/2010.

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