domenica, Ottobre 6, 2024
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Il rapporto tra diritto internazionale e islam

Se è vero che per garantire il processo di integrazione multiculturale occorre valutare tutti gli aspetti di una determinata cultura, per un giurista può essere particolarmente importante valutare il rapporto tra il diritto internazionale e la religione islamica.

L’analisi di questo rapporto può essere interessante nell’ottica di una valutazione nazionale “interna”, perché ci induce a comprendere, per mezzo del diritto, un aspetto generale della cultura islamica, cioè, il rapporto con la comunità ospitante. Fondamentale, quest’ultimo aspetto, a causa del fenomeno migratorio di massa in Europa, che vede la religione islamica  eletta a  seconda confessione in molti paesi europei.

Ma è interessante, il rapporto tra diritto internazionale e religione islamica, altresì nell’ottica di una valutazione “esterna”, essendo un modo per comprendere le relazioni internazionali dei paesi arabi.

In linea di premessa occorre, inoltre, sottolineare la profonda complessità della materia che, per evidenti motivi di spazio, ci permetterà di toccare solo in generale i punti più importanti.

Metodologicamente, nell’analisi giuridica del diritto islamico, i giuristi si avvalgono sia del parere di studiosi moderni sia delle analisi giuridico-storiche operate dalle maggiori scuole sunnite. Nell’ambito dell’ortodossia islamica esistono, infatti, quattro scuole (madhab ) ufficialmente riconosciute come ortodosse: esse sono quella Hanafita, Malikita, Shafi‘ita e Hanbalita.

Sulla base delle analisi condotte da giuristi e storici, possiamo affermare che il diritto internazionale islamico si basa su due concetti fondamentali: il Jihād e la Siyar.

Il Jihād

Il jihād non può essere definito in modo unico e semplice. Varie sono le fonti che nel corso dei secoli si sono riferite a questo vocabolo. Nella Sunna, una delle fonti fondamentali del diritto islamico, ci si riferisce a jihād nell’accezione di guerra, ma anche di “grande sforzo e impegno”. Infatti, la traduzione strumentalizzata che solitamente si fa del vocabolo jihād come “guerra santa”, è errata. A dimostrazione di questa tesi, basta sottolineare che nel corano la guerra viene solitamente definita con il vocabolo ¥arb. Quest’ultima si riferisce, peraltro, ad una forma di guerra santa intesa come vendetta inter-tribale prima dell’avvento dell’islam. Con l’avvento dell’islam, tutte le forme di guerra saranno bandite, eccetto quella fi sabīl-illah, “sul sentiero di Dio”.

Alcuni studiosi (AghaShahi) ritengono che Il jihād possa essere tradotto come “guerra difensiva”. Il Corano, infatti, non permetterebbe alcun utilizzo della forza per annettere popolazioni estere. Tuttavia, le contraddizioni moderne relative alla interpretazione di Jihad, sarebbero nate sulla base di una rivisitazione del concetto  jihād posta, nel passato, da parte di giuristi, che così facendo avrebbero legittimato in chiave propagandistica le volontà espansionistiche dei sovrani musulmani.

Da ciò deriva un importante monito per il giurista che voglia occuparsi di diritto musulmano: la necessità di riferirsi direttamente alle fonti (Corano e Sunna) e non alle interpretazioni che successivamente sono state proposte dai giuristi.

Ma, indubbiamente, occorre sottolineare un altro aspetto particolarmente problematico nella religione musulmana. Mi riferisco, in particolare, ad una mancata unificazione dottrinale (frutto di ragioni storiche che in questa sede non possono essere analizzate). Ad esempio il professore Sayyd Qutb, membro di spicco del movimento dei “Fratelli Musulmani”, nel 1952 scrisse in Egitto “Maʿālimfī al-ţarīq “ in cui accusava le tesi dei giuristi e degli studiosi moderni di essere apostatiche e disfattiste. Il jihād dovrebbe essere, secondo questo autore, uno strumento di forza contro la persecuzione. Non a caso, questa opera, viene considerata da molti studiosi (tra i tanti: Olivier Ramsbotham) come il pilastro teorico centrale degli attuali movimenti fondamentalisti islamici.

La Siyar

Muhammad al-Shaybani, nato nel IX sec d.C., viene considerato uno dei padri fondatori del diritto internazionale islamico. Uno dei suoi allievi, Sarakhsi, definiva la SIYAR come “condotta dei credenti nelle loro relazioni con gli infedeli nei territori nemici o nei territori islamici”. Un meccanismo, dunque, di diritto internazionale esclusivamente islamico. SheikhWahbeh al-Zuhili, professore di diritto islamico presso l’università di Damasco, afferma che le fonti risalenti alla Siyar, che regolavano (come già detto) la condotta dei musulmani con gli infedeli, si basavano su una serie di principi che possiamo sintetizzare nei seguenti punti:

  1. Fratellanza universale umana
  2. Rispetto per l’essereumano
  3. Rispetto per le norme dell’etica e della moralità
  4. Giustizia ed uguaglianza in diritti e doveri
  5. Pietà in pace e guerra
  6. Onorare i patti finchè gli altri rispettano i propri (principio assimilabile al pactasuntservanda)

Conclusioni

Concluderò questa sintetica ed incompleta disamina, affermando con sicurezza e certezza la necessità di uno studio approfondito, da parte dei giuristi occidentali, della dottrina giuridica islamica. Si tratta di una dottrina complessa, il cui studio non è mai univoco (basti guardare il caso della traduzione del termine Jihad), ma fondamentale nell’ottica di una continua integrazione della comunità islamica in Europa.

L’incontro tra le due culture, come ha avuto modo di affermare il prof. Tedeschi della Federico II di Napoli, può avvenire solo grazie ad un superamento delle reciproche diffidenze. La cultura giuridica, che non sia cieca ma universale ed aperta, può di certo essere di grande aiuto per il superamento di queste diffidenze.

Enrico Corduas

Classe 1993, laureato con lode in  giurisprudenza (Federico II) in diritto dell'energia con una tesi dal nome "Europa-Cina: politiche energetiche a confronto", frutto di un'esperienza di ricerca tesi a Shanghai (Koguan Law school). Attualmente svolge il tirocinio ex art 73 presso la Corte d'Appello di Napoli, I sezione penale.

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