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Criminal & Compliance

Cassazione penale, Sez. IV, Sentenza n. 33609 del 14/06/2016 Ud. (dep. 01/08/2016) Rv. 267446

Presidente: Bianchi L. Estensore: Dell’Utri M. Relatore: Dell’Utri M. Imputato: Drago P.M.: Orsi L.

“Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie – di apprestare specifiche cautele.”

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Qualificazione giuridica del fatto. Brevi cenni. 3. La posizione di garanzia dello psichiatra. 4. Nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento. 5. Il difficile discrimen tra colpa lieve e colpa grave e l’applicabilità dell’art. 3 della l. 189/2012. 6. Conclusioni.

  1. Introduzione

La vicenda che qui si analizza riguarda una fattispecie di omicidio colposo, che vede imputato P.D. medico psichiatra, ai danni di una sua paziente “ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva caratterizzata da depressione del tono dell’umore con ideazione negativa a sfondo suicidario”.

Il Drago, in violazione delle regole cautelari di colpa generica, cagiona l’omicidio per aver omesso una stretta e continua sorveglianza della donna consentendole di allontanarsi dalla stanza in cui era ricoverata, permettendole di raggiungere un’impalcatura all’esterno della struttura ospedaliera e lasciarsi cadere nel vuoto.

Prende così avvio un procedimento penale che approda in Cassazione in seguito al ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza d’appello che già riconosceva la sua colpevolezza.

Sebbene –  si anticipa già in questa sede che la Corte ha ritenuto immune da censure la pronuncia che aveva affermato la responsabilità del medico del reparto di psichiatria – i motivi di ricorso illustrati dall’imputato risultino infondati, sono spunti di riflessione e di analisi circa la vasta e complessa materia della colpa medica.

  1. Qualificazione giuridica del fatto. Brevi cenni.

Il caso in oggetto rientra nella vasta area dei reati contro la persona sub specie di omicidio colposo essendo la morte della vittima non coperta da dolo. Si tratta più precisamente di un reato omissivo improprio, cagionato dunque dalla trasgressione di un comando; si punisce il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento. Questo è quanto previsto dall’art. 40 co. 2 c.p. che dispone: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

La fonte dell’obbligo giuridico di impedire un dato evento può essere costituita da una norma di legge che lo prevede esplicitamente, dal verificarsi di situazioni particolari per cui un soggetto sia tenuto ad agire per proteggere il diritto altrui o ancora dall’esistenza di particolari rapporti giuridici, come quello medico-paziente.

La persona titolare di questi doveri ricopre una funzione particolare definita “posizione di garanzia” ossia l’ordinamento gli attribuisce un ruolo di garanzia rispetto al bene tutelato. Il riconoscimento di una posizione di garante in capo all’autore appartiene al piano dell’imputazione oggettiva, la sua sussistenza  va quindi preliminarmente accertata poiché condiziona la stessa rilevanza “causale” dell’omissione.[1]

L’analisi dei reati colposi risulta altresì interessante sotto due aspetti: la causalità e la colpa di cui si discuterà oltre.

  1. La posizione di garanzia dello psichiatra.

La questione che prima facie rileva riguarda la posizione del medico psichiatra e se questi sia titolare ex art. 40 co. 2 c.p. dell’obbligo giuridico di impedire atti autolesivi del paziente anche quando quest’ultimo non sia sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.)[2].

La problematica sorge in seguito all’abbandono del modello “custodialistico” con la l. 13 maggio 1978 n.180 (c.d. legge Basaglia) che ha introdotto un orientamento volto a coinvolgere il paziente stesso nella sua cura.[3] Non più restrizione ma partecipazione.

Si supera il pensiero di chi riteneva che “Il pazzo doveva infatti essere curato (funzione terapeutica) ma anche ristretto (funzione custodiale), per arginare la ritenuta pericolosità”.[4]

Questo cambio di rotta, che potrebbe far desumere una de-responsabilizzazione del medico dinanzi al verificarsi di eventi auto o etero-lesivi, non ha trovato conferma nella Suprema Corte, se non sul piano terminologico.

La Corte di Cassazione ha infatti sostenuto l’obbligo dello psichiatra di (esclusivamente) curare il paziente ma include in ciò anche l’obbligo di impedire quegli atti lesivi, perché ritiene che altro non sono che una manifestazione, un’estrinsecazione della malattia psichiatrica.[5]

Conforme all’orientamento della S.C., autorevole dottrina[6] ha ritenuto necessario esigere dal medico psichiatra –  anche al di fuori del regime di T.S.O. – il massimo impegno per evitare quelle condotte pericolose per l’incolumità propria o altrui, ancor di più nelle fasi più acute della malattia e qualora si siano verificati altresì eventi pregressi che facciano temere come concretamente probabile e possibile il ripetersi delle medesime condotte lesive.[7]

Il caso qui in commento rientra nella succitata ipotesi di evento lesivo verificatosi in seguito a “precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione” che avrebbero dovuto ingenerare nel medico un atteggiamento di maggior cautela.

Non può infatti ritenersi responsabile di omicidio colposo ai danni di un paziente affetto da turbe mentali il medico psichiatra che – oltre ad essersi attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare – non poteva ravvisarsi un concreto ed imminente rischio suicidario alla luce dei dati clinici e dei parametri individuabili nella lettura scientifica.[8]

Ancora differente è il caso in cui il gesto autolesivo del paziente, seppur affetto da disturbi psichici, non sia ricollegabile ad una manifestazione della malattia mentale; ipotesi in cui viene esclusa la responsabilità dello psichiatra perché trattasi di un gesto sintomo di autodeterminazione libera e non condizionata.[9]

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, il terreno della medicina psichiatrica – rectius della mente umana – resta non completamente esplorato dalla scienza e di conseguenza non risulta facilmente convincente la possibilità di ricondurre, in maniera così certa da escludere la responsabilità del sanitario, la condotta di un soggetto ad un’estrinsecazione del disturbo psichico o ad un gesto di autodeterminazione.

Questa incertezza che avvolge tutto il settore della psichiatria, l’assenza stessa di evidenze scientifiche in materia, non preclude ma rende ancor più complesso e articolato anche l’iter di accertamento del nesso causale.

  1. Nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento.

Prescindendo dalle osservazioni poste in sede di ricorso dall’imputato, il quale in relazione alla ricostruzione del decorso causale aveva sostenuto la riconducibilità dell’evento morte ad un ictus cerebrale della paziente, occorre porre l’attenzione sul giudizio causale esposto dalla Suprema Corte.

Il generale criterio della sussunzione del rapporto di causalità sotto leggi scientifiche ancorato a parametri obiettivi e realistici, nell’ambito dei reati omissivi impropri ma ancor più nel settore della psichiatria, lascia spazio a valutazioni di diverso tipo.

La nota sentenza Franzese[10] è l’approdo di questo differente percorso argomentativo che reputando non decisivo il coefficiente statistico della legge scientifica di copertura introduce come parametri del giudizio causale, le massime d’esperienza[11].

Dunque, “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base di circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta…è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.[12]

Qualora però sussista un ragionevole dubbio, si prospetta un esito assolutorio.

Sarà necessario dunque un giudizio bifasico strutturato in una prima valutazione ex ante del coefficiente scientifico che dovrà poi essere corroborato da una valutazione di alta probabilità logica, che si risolve nella verifica aggiuntiva della credibilità della legge scientifica nel caso concreto; verifica che dovrà essere esplicitata nel corpo della sentenza con il ricorso alle summenzionate massime di esperienze.

Di conseguenza, non pare in linea con la Franzese scrivere che, secondo il parere del consulente[13], “…non vi sono evidenze scientifiche per ritenere con apprezzabile certezza che un adeguato trattamento farmacologico e una più assidua presenza terapeutica avrebbero impedito il compimento di atti auto aggressivi…”, se questa valutazione non è accompagnata da un giudizio a posteriori sulle circostanze del caso di specie[14].

Nel caso in commento viene fatta, invece, corretta applicazione del principio esposto dalla sentenza a Sezioni Unite del 2002.

Il settore psichiatrico, pur connotato da un indelebile alone di incertezza, mostra come una più accurata vigilanza del paziente spesso eviti il compimento di nefasti comportamenti auto soppressivi. Certo, la sola massima di esperienza, di per sé, non è in grado di asserire che qualora fosse stata rispettata la condotta doverosa l’evento non si sarebbe realizzato. Occorre verificare, come del resto in presenza di una legge scientifica e in ossequio al modello proposto dalla Franzese, se i dati probatori del caso concreto corroborino l’enunciato.[15]

Il carattere di “soggetto ad alto rischio” della paziente definita “major et grand repeaters” e “le precedenti esperienze di tentativo di suicidio unite alla diagnosi di accettazione” sono tutti specifici fattori esistenti che consentono alla S.C. di verificare che “laddove l’imputato avesse assicurato una stretta e continua sorveglianza della paziente, l’evento lesivo…non si sarebbe verificato con certezza, secondo una valutazione prognostica ex ante condotta in coerenza al principio dell’elevata probabilità logica e credibilità razionale”.

L’individuazione di questi fattori indizianti, ancor più perché “evidenziati in sede medica e confermati dalle significative testimonianze delle persone che ebbero ad avere ravvicinatissimi contatti con la paziente nell’imminenza del suicidio”, colmano lo hiatus tra la possibilità basata sul dato statistico medio e lo standard di certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, richiesto per la condanna penale.

Sebbene, nella complessità del giudizio, l’analisi della Suprema Corte sia immune da inesattezze, non sempre esiste una legge scientifica secondo la quale, la mancata adozione di un idoneo sistema di vigilanza sia seguito dalla condotta suicidaria del malato. Nella pratica giudiziaria, anzi, è frequente l’assenza di una legge di copertura. Il ricorso a massime di esperienza è, dunque, inevitabile, pena altrimenti la rinuncia ad accertare la sussistenza del nesso tra condotta ed evento.[16]

  1. Il difficile discrimen tra colpa lieve e colpa grave e l’applicabilità dell’art. 3 della l. 189/2012.

Il settore psichiatrico, si è più volte ripetuto, è un contesto nel quale esiste una ineliminabile misura di rischio consentito – definito tale perché accettato dalla scienza medica e dalla società – dovuto alle patologie intrinsecamente aleatorie, difficilmente controllabili e prevedibili; la valutazione della colpa non potrà dunque prescindere da tale contingenza.

Nell’ambito della responsabilità medica, a seguito della l. n. 189 del 2012, la valutazione della colpa è sempre affiancata alla graduazione della stessa in termini di colpa grave o colpa lieve.

La distinzione rileva perché l’articolo 3 della summenzionata legge – richiamato dal ricorrente nella sentenza in commento –  prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.

La norma, per nulla perspicua, ha necessitato l’intervento della giurisprudenza che nella nota sentenza Cass. 2013, Cantore[17], ha precisato che: “poiché la colpa costituisce la violazione di un dovere obiettivo di diligenza, un primo parametro attinente al profilo oggettivo della diligenza riguarda la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere.”

“Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”.[18]

Conforme a quanto suddetto, ma più recente, è la pronuncia Cass. Pen. Sez. IV, 6 giugno 2016, n. 23283 secondo cui “il giudice di merito, a fronte di linee guida che comunque operino come direttiva scientifica per gli esercenti le professioni sanitarie, in riferimento al caso concreto, e ciò sia rispetto ai profili di perizia che, più in generale, di diligenza professionale, deve procedere alla valutazione della graduazione della colpa, secondo il parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare”.

In questi termini la S.C. – escludendo l’applicabilità dell’art. 3 della legge 189/2012 – ha disposto che “la mancata osservanza delle regole tecniche trasfuse nelle linee guida da osservare nel caso di specie, che avrebbero nell’occasione imposto la predisposizione di una stretta e continua osservanza della donna ventiquattr’ore su ventiquattro” induce ragionevolmente a parlare di colpa grave.

Ancor più a corroborare tale valutazione è la non “oscurità del quadro patologico”[19] che risultava sintomatico di un rischio suicidario sin dalla diagnosi di accettazione e che avrebbe dovuto indurre l’imputato ad un comportamento diverso da quello tenuto.

Se qualche dubbio, dunque, può sorgere in caso di colpa per adesione[20], laddove cioè il medico abbia agito in conformità ad autorevoli guidelines ma abbia omesso un giudizio individualizzante dettato dalle circostanze del caso di specie, nulla quaestio se il medico non rispetti le linee guida alle quali invece si sarebbe dovuto attenere.

            6. Conclusioni

La sentenza, sebbene vada esente da critiche per la sua logicità strutturale, è foriera di alcune riflessioni.

Il suicidio è un evento multifattoriale, come tanti nel più ampio settore della medicina, ma diversamente dagli stessi si inserisce in un ambito dove la scienza spesso incontra dei limiti.

L’analisi delle cause profonde o cause radice (Root Cause Analysis), l’individuazione dei fattori primari che causano o contribuiscono al verificarsi di un evento avverso, è solitamente uno strumento utile al diritto penale nella determinazione del nesso causale, ma non nella psichiatria dove la maggior parte delle patologie sono difficilmente ricollegabili ad un preciso schema prognostico.

È pur vero che lo psichiatra si trova in una posizione “privilegiata per un’attenta valutazione del rischio e per la possibilità di predisporre misure di prevenzione” e “l’ambiente in cui opera è il più adatto per l’assunzione di tutte le misure idonee per circoscrivere il rischio suicidario”[21] ma il deficit di determinatezza scientifica non lo aiuta.

La stessa indeterminatezza scientifica che si riversa anche nelle c.d. linee guida, che già di per sé non configurano un sapere certo, burocratizzato e rispondente a tutte le situazioni appurabili in ambito medico.

A ciò si aggiunga la già menzionata legge Basaglia[22] che se interpretata in maniera restrittiva lascerebbe prevalere il diritto del paziente a partecipare liberamente e volontariamente alle cure rispetto al rischio che questo paziente possa prendere l’estrema decisione del suicidio.

Occorre sottolineare, infine, che gli atti autolesivi nel nostro ordinamento rientrano nella sfera del penalmente irrilevante e, se atomisticamente considerati, non determinano in capo al medico il diritto di impedire al paziente di assumere la deliberazione di uccidersi.

Ergo “Non possono essere posti a carico dello psichiatra compiti di polizia”[23]; così una decisione del 1990 della Corte di Cassazione riassumeva questo minoritario orientamento giurisprudenziale, che seppur risalente a tempi non recenti, lascia spazio a libere considerazioni.

 

 

[1] FIORE, Diritto penale-parte generale, Utet giuridica, 2013.

[2] È pacifico infatti che in presenza di T.S.O. il medico rivesta una posizione di garanzia nei confronti del paziente. Si veda Cass. Pen. Sez. IV, 12 aprile 2005 n. 13241.

[3] CUPELLI, La responsabilità penale dello psichiatra, Edizioni scientifiche italiane, 2013.

[4] M. ROMANO-F. STELLA, Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente; aspetti penalistici e costituzionali, 1973.

[5] P. PIRAS, Atti auto ed eterolesivi e responsabilità dello psichiatra, Cass. Pen., fasc. 4, 2010, pag. 1471.

[6] G. IADECOLA-M. BONA, La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Milano, 2009.

[7] A sostegno di quanto esposto si veda Cass. Pen. Sez. IV, 12 febbraio 2013 n. 16975 la quale ha qualificato il medico psichiatra “titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto” e dunque gravato dall’obbligo “quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, di apprestare specifiche cautele”.

[8] Cass. Pen. Sez. IV, 4 febbraio 2016 n. 14766 (dep. 11/04/2016) Rv. 266831.

[9] Sul punto si veda CUPELLI, La responsabilità penale dello psichiatra, Edizioni scientifiche italiane, p. 99, 2013.

[10] Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 27.

[11] Per la nozione di massima di esperienza v. G. CANZIO, Motivazione sufficiente e congrua attraverso il prisma dei motivi di impugnazione delle sentenze in appello e in cassazione, in La motivazione dei provvedimenti giudiziari

[12] Cass. Pen. Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese, cit.

[13] Il giudice, infatti, non può delegare il proprio compito al perito, perché altrimenti abdicherebbe al suo ruolo di organo giudicante.

[14] CLAUDIA SALE, Rivista italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.3, 2013, p. 1441.

[15] CLAUDIA SALE – La responsabilità penale in psichiatria – Tesi di Dottorato di Ricerca in Diritto ed Economia dei Sistemi Produttivi Università degli Studi di Sassari – Ciclo XXV.

[16] In questi termini Cass. Pen. Sez. IV, 5 luglio 2004, n. 36805.

[17] Cass. Pen. Sez. IV., 9 aprile 2013, n.16237

[18] Cass. Pen. Sez. IV, 9 aprile 2013 n. 16237 cit.

[19] Cass. Pen. Sez. IV, 9 aprile 2013 n. 16237 cit.

[20] Nomenclatura proposta da M. CAPUTO, “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”? cit., in Diritto Penale Contemporaneo.

[21] P. GIROLAMI – S. JOURDAN, Lo psichiatra e il suicidio del paziente. Viaggio attraverso le categorie giuridiche delle “obbligations dè securitè” e degli “obblighi di protezione.

[22] Legge n. 180 del 1978.

[23] Cass. Pen. Sez. II, 11 maggio 1990, in Cass. Pen., 1991, p. 68 ss.

 

Bibliografia

  1. CANZIO G., Motivazione sufficiente e congrua attraverso il prisma dei motivi di impugnazione delle sentenze in appello e in cassazione, in La motivazione dei provvedimenti giudiziari.
  2. CAPUTO M., “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”?, in Diritto Penale Contemporaneo.
  3. CUPELLI C., La responsabilità penale dello psichiatra, Edizioni scientifiche italiane, 2013.
  4. FIORE, Diritto penale-parte generale, Utet giuridica, 2013
  5. GIROLAMI P.– JOURDAN S., Lo psichiatra e il suicidio del paziente. Viaggio attraverso le categorie giuridiche delle “obbligations dè securitè” e degli “obblighi di protezione”.
  6. IADECOLA G. – BONA M., La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Milano, 2009.
  7. PIRAS P., Atti auto ed eterolesivi e responsabilità dello psichiatra, Cass. Pen., fasc. 4, 2010, pag. 1471.
  8. ROMANO M.- STELLA F., Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente; aspetti penalistici e costituzionali, 1973.
  9. SALE C., Rivista italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.3, 2013, p. 1441.
  10. SALE C. – La responsabilità penale in psichiatria – Tesi di Dottorato di Ricerca in Diritto ed Economia dei Sistemi Produttivi Università degli Studi di Sassari – Ciclo XXV.
  11. Cass. Pen. Sez. II, 11 maggio 1990, in Cass. Pen., 1991, p. 68 ss.
  12. Cass. Pen. Sez. IV, 12 aprile 2005, n. 13241
  13. Cass. Pen. Sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 16975
  14. Cass. Pen. Sez. IV, 4 febbraio 2016, n. 14766 (dep. 11/04/2016) Rv. 266831.
  15. Cass. Pen. Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 27
  16. Cass. Pen. Sez. IV, 5 luglio 2004, n. 36805
  17. Cass. Pen. Sez. IV., 9 aprile 2013, n.16237

Piera Di Guida

Piera Di Guida nasce a Napoli nel 1994. Ha contribuito a fondare “Ius in itinere” e collabora sin dall’inizio con la redazione di articoli. Dopo la maturità scientifica si iscrive alla facoltà di giurisprudenza Federico II di Napoli e nel 2015 diviene socia ELSA Napoli (European Law Student Association). Ha partecipato alla redazione di un volume dal titolo "Cause di esclusione dell'antigiuridicità nella teoria del reato- fondamento politico criminale e inquadramento dogmatico", trattando nello specifico "Lo stato di necessità e il rifiuto di cure sanitarie" grazie ad un progetto ELSA con la collaborazione del prof. Giuseppe Amarelli ordinario della cattedra di diritto penale parte speciale presso l'università Federico II di Napoli. Seguita dallo stesso prof. Amarelli scrive la tesi in materia di colpa medica, ed approfondisce la tematica della responsabilità professionale in generale. Consegue nel 2017 il titolo di dottore magistrale in giurisprudenza con votazione 110/110. Nell’anno 2016 ha sostenuto uno stage di 3 mesi presso lo studio legale Troyer Bagliani & associati, con sede a Milano, affiancando quotidianamente professionisti del settore e imparando a lavorare in particolare su modelli di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231/01 e white collar crimes. Attualmente collabora con lo Studio Legale Avv. Alfredo Guarino, sito in Napoli. Ha svolto con esito positivo il tirocinio ex art.73, comma 1 d.l. n.69/2013 presso la Corte d'Appello di Napoli, IV Sezione penale. Nell'ottobre 2020 consegue con votazione 399/450 l'abilitazione all'esercizio della professione forense. Dal 27 gennaio 2021 è iscritta all'Albo degli Avvocati presso il Tribunale di Napoli. Un forte spirito critico e grande senso della giustizia e del dovere la contraddistinguono nella vita e nel lavoro. Email: piera.diguida@iusinitinere.it

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