venerdì, Marzo 29, 2024
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Responsabilità sanitaria: su chi grava l’onere della prova nel caso in cui vi sia una causa ignota del decesso?

Ci troviamo di fronte ad un interrogativo che induce a parlare di una delle problematiche più controverse e delicate della responsabilità civile sanitaria: quella del riparto dell’onere della prova, in punto di nesso causale, tra paziente e struttura/sanitario.

Trattasi di un tema sul quale è intervenuta -dopo l’entrata in vigore della L. n. 24/2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco)– la Terza Sezione Civile della Suprema Corte, discostandosi -di fatto- dai principi enunciati nel 2008 dalle Sezioni Unite[1].

La Terza Sezione della Suprema Corte, a partire dalla sentenza n. 18392 del 26 luglio 2017 [2], ha affermato -in relazione a liti già pendenti all’entrata in vigore della citata legge- che deve essere il paziente a dimostrare l’esistenza del nesso causale tra condotta e danno-evento, sollevando dal rischio della causa ignota non solo il sanitario, ma anche la struttura.

Più precisamente, la Corte -nella predetta citata pronuncia- ha stabilito che “nella responsabilità contrattuale (per inadempimento di una prestazione medica) il creditore (danneggiato) deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta delsanitario (fatto costitutivo del diritto), mentre spetta al debitore provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto). Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere […] Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile”[3].

Alla predetta citata sentenza si sono conformate le seguenti successive: la sentenza del 7 dicembre 2017, n. 29315; la sentenza del 29 gennaio 2018, n. 2061; la sentenza del 15 febbraio 2018, n. 3704; la sentenza del 2 marzo 2018, n. 4928; l’ordinanza del 13 luglio 2018, n. 18540; l’ordinanza del 19 luglio 2018, n. 19204; l’ordinanza del 22 agosto 2018, n. 20905; l’ordinanza del 13 settembre 2018, n. 2227; l’ordinanza del 12 ottobre 2018, n. 2537; la sentenza del 30 ottobre 2018, n. 27446 [4].

I profili critici:

A avviso di chi scrive, il recente orientamento della Terza Sezione Civile della Cassazione appare criticabile per due motivi.

Leggendo le motivazioni delle recenti pronunce ed, in particolare, la motivazione della sentenza del 26 luglio 2017 n. 18392, la S.C. pur dichiarando espressamente di essere in continuità con i principi espressi dalle Sezioni Unite nel 2008[5], in realtà se ne è discostata, contraddicendoli.

La terza Sezione Civile ritiene di non essere entrata in contrasto, giacché lascia intendere che avrebbe affrontato il tema da un angolo visuale ulteriore rispetto a quello preso in considerazione dalle Sez. Un. del 2008: dall’angolo visuale del doppio ciclo causale, ai sensi degli artt. 1218 e 1256 c.c. Sintomaticamente, la Cassazione – nella predetta sentenza del 26 luglio 2017 n.18392- sostiene che “ si tratta di contrasto apparente[…] in quanto la causa[…] (da essa presa in considerazione) non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell’obbligazione opposta dal danneggiante”.

Tuttavia, come è stato osservato in dottrina[6], ha -di fatto- ribaltato la decisione delle Sezioni Unite del 2008, imponendo al danneggiato di soddisfare un onere probatorio di fatto molto vicino a quello che caratterizza le ipotesi di responsabilità extracontrattuale.

Inoltre, il recente orientamento appare criticabile poiché sembra spingersi ben oltre laratiodella novella, giacché solleva dal rischio della causa ignota non solo il sanitario (come, ora, vorrebbe l’art. 7, comma 3 della novella che ha attratto la responsabilità del medico strutturato nell’illecito aquiliano), ma anche la struttura (la cui responsabilità è contrattuale, secondo l’art. 7, comma 2, ed anche secondo il pregresso diritto pretorio). La conseguenza pratica è che verrebbe, nella sostanza, esonerata dal risarcimento anche la compagnia assicuratrice della struttura, il che lascia assai perplessi. Appare irragionevole -per lo meno a chi scrive- che la Terza Sezione Civile addossi, da una anno a questa parte, la causa ignota al paziente, impedendogli di trovare riparazione sotto l’ombrello protettivo assicurativo, il quale rappresenta -comunque- la principale forma di socializzazione del rischio voluta dalla novella.

Considerazioni conclusive

Volendo sorvolare sugli aspetti strettamente tecnici motivazionali delle recenti pronunce della Terza Sezione Civile, resta il problema di fondo di giustizia sostanziale, così sintetizzabile: è ragionevole che un paziente che si rechi in un ospedale per curarsi e ne esca defunto oppure peggiorato nel suo stato morboso debba sopportare il peso della causa ignota di tale esito?

A chi scrive, sembra che vada privilegiata l’opzione interpretativa che lasci il sanitario fuori da responsabilità, tutelato dall’ombrello protettivo dell’art. 2043 c.c. (già individuato da Cass. civ., 24 marzo 1979, n. 1716 ed ora dalla Legge Gelli-Bianco), ma non la struttura, che deve essere chiamata a risponderne, ex artt. 1218 e/o 1228 c.c., per come interpretati dalle Sezioni Unite del 2008,  e la sua compagnia assicuratrice.

[1]Cass. civ. Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 577, in Banca dati Wolters Kluwer.

[2]Cass. civ. 26 luglio 2017, n. 18392, in Banca dati Wolters Kluwer e De Jure.

 [3]La sentenza de quaè stata variamente commentata in dottrina. Essa è riportata in Danno e responsabilità, 6/2017, pagg. 696/709, con commento di Zorzit D., la quale pone in luce che tale ultimo orientamento della III Sezione civile del S.C. appare “ispirato alla ratio sottesa alla nuova legge sulla responsabilità sanitaria”.

La stessa sentenza è commentata da D’Amico G., in Danno e responsabilità, 3/2018, pagg. 345/358, il quale la considera non del tutto condivisibile: secondo l’Autore il problema andrebbe risolto “in maniera più articolata, tenendoconto del contenuto che la prestazione medica può di volta in volta assumere, a seconda che si tratti di una prestazione “ad alta vincolatività” (cioè routinaria, di facile esecuzione) […]ovvero di una prestazione difficile”, rispetto alla quale la causa ignota dovrebbe essere sopportata dal paziente. Nel commento di D’Amico G. riecheggia la già citata sentenza della Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, che ha distinto -per la prima volta- quanto al profilo dell’onere della prova, gli interventi sanitari in routinarie complessi.

La sentenza de qua è stata anche commentata da Riccetti I., inRivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 2, 2018, pag. 712. L’autrice ne pone in evidenza due aspetti: a) dalla sentenza in commento emerge la necessità di un duplice accertamento “uno relativo all’evento dannoso, che deve essere provato dal creditore/danneggiato e l’altro relativo alla possibilità di adempiere, che deve essere provato dal debitore/danneggiante. Nello specifico si afferma che mentre il paziente deve provare il nesso di causalità tra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, la struttura (o il medico) deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione. Non solo: alla luce dell’individuazione di questo doppio ciclo causale, la Cassazione precisa che se, all’esito dell’istruttoria compiuta in sede giudiziale, a restare incognita è la causa relativa all’evento dannoso, questa situazione va a detrimento del paziente;se invece a rimanere incerta è la possibilità di adempiere, questa circostanza va a sfavore della struttura (o del medico). Un primo cambiamento di rotta emerge già da questo passaggio: nell’ambito di una responsabilità che viene inquadrata come contrattuale, non è più sufficiente l’allegazione, da parte dell’attore, dell’inadempimento astrattamente idoneo a provocare il danno (la cui individuazione già di per sé, come vedremo nel prossimo paragrafo, presenta notevoli profili di criticità), ma è richiesta la dimostrazione del nesso di causa tra inadempimento del medico e danno subito”;  b)“le ipotesi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sono accomunate dagli oneri probatori del danneggiato: il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l’eziologia immanente alla nozione di danno, anche l’eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l’attore deve provare. Dunque, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, è il danneggiato a dover dimostrare il danno ed il nesso di causa tra quest’ultimo e la condotta del medico. Ma ciò significa ribaltare la decisione delle Sezioni Unite del 2008, imponendo al danneggiato di soddisfare un onere probatorio formalmente tipico delle ipotesi di responsabilità contrattuale, ma di fatto molto vicino a quello che caratterizza le ipotesi di responsabilità extracontrattuale. Se si contestualizza la decisione in commento all’interno di uno scenario legislativo in cui si sono succeduti interventi che avrebbero dovuto fronteggiare la c.d. medicina difensiva (senza di fatto riuscirci), la sensazione è che la giurisprudenza voglia in qualche modo sopperire alle difficoltà che emergono dal quadro normativo vigente”.

La sentenza è stata altresì commentata da Gervasi M.P., Responsabilità sanitaria: nesso causale ed onere della prova, in Giustizia civile.com, fasc., 2 luglio 2018, in Banca dati“De Jure”.                

[4]Tutte le citate pronunce si leggono in banca dati De JureeWolters Kluwer.

[5]Cass. civ., Sez. Unite, 11 gennaio 2008 n. 577 in Danno e Resp., 2008, 8-9, 871 nota di Nicolussi. Le Sezioni Unite, con la sentenza n.577 dell’11 gennaio 2008 hanno affermato che l’onere della prova, in punto di nesso causale, non doveva essere assolto dal paziente, così motivando:”in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore-paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della sua patologia ed allegare l’inadempimento del debitore (medico e struttura), astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; rimane a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante”.Dalla pronuncia in commento emergeva che il paziente/danneggiato doveva limitarsi ad allegare (non a fornire la prova) l’inadempimento della prestazione, non un inadempimento qualunque, ma l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato: gravava sul debitore (la struttura e il sanitario) l’onere di fornire la prova di aver adempiuto correttamente ovvero che il dedotto inadempimento non fosse eziologicamente rilevante.

[6]Così si legge inRiccetti I., Op. ult. cit., pag. 712.

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