giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Revisore legale dei conti e responsabilità penale

1. Introduzione
Nell’introdurre l’analisi della normativa penalistica a tutela delle comunicazioni sociali e, più specificamente del capitale sociale, è fisiologico interrogarsi sulla ratio di un presidio penale sulla genuinità dell’informazione societaria avendo riguardo all’attività di una figura particolare, quella del revisore legale dei conti.
Il legislatore vuole far si che l’informazione e le caratteristiche personologiche delle imprese siano trasmesse in modo fedele perché è importante per il corretto funzionamento dei traffici economici. L’informazione deve essere necessariamente veritiera perché altrimenti il bene più prezioso su cui si fondano i mercati, ovvero l’informazione, viene inquinato. E l’inquinamento della veridicità dell’informazione sociale porta ad un disinvestimento da parte dei risparmiatori. La precisa volontà del legislatore è quindi quella di reprimere questa perdita di fiducia e il conseguente disinvestimento.
Questa repressione viene attuata tramite un pacchetto di norme che vengono disciplinate nel Codice Civile agli articoli 2621 e seguenti. Ci troviamo, dunque, nel titolo XI del libro V del Codice Civile dedicato alle sanzioni penali in materia di società e consorzi.

2. Il revisore legale dei conti
La nostra attenzione si focalizzerà però su una figura “intermedia”, e sui profili di responsabilità penale cui si espone nell’esercizio della sua attività: il revisore legale dei conti (revisore contabile).
Il revisore legale è un soggetto esterno all’impresa ed alla società, nominato dall’assemblea dei soci su proposta motivata dell’organo di controllo (che nelle ipotesi in cui il regime adottato dalla società sia quello ordinario, è una funzione svolta dal collegio sindacale). Quindi, non può parlarsi di “organo”, essendo il revisore legale un soggetto chiamato dall’esterno.
Il ruolo del revisore è quello di esprimere, con apposita relazione (relazione di revisione), che si accompagna al bilancio, un giudizio sul bilancio di esercizio e, ove redatto, anche sul bilancio consolidato. Si tratta di un giudizio di conformità, il che sta a significare che, avuta contezza dei principi contabili utilizzati (nazionali ed internazionali) che governano la redazione del bilancio, il revisore confronta il prodotto degli amministratori (il bilancio) con i principi contabili che i redattori affermano di aver seguito.
L’attività di revisione legale dei conti è un’attività tutelata quasi come fosse un’attività pubblica, proprio in ragione della rilevanza pubblicistica del ruolo delle società di revisione nell’ambito della gestione del mercato, e quindi dell’informazione societaria, e della circolazione delle informazioni societarie. I revisori legali sono i “cani da guardia”, coloro che devono assicurare la fiducia del mercato rispetto alla veridicità delle informazioni societarie che circolano sul mercato; giocano un ruolo attorno al quale non c’è un interesse ristretto dei soli soggetti parte del rapporto contrattuale e direttamente coinvolti (stakeholders), ma si tratta di un interesse collettivo, lo stesso interesse che ruota intorno alla correttezza e alla veridicità di tutte le informazioni societarie.
Nel contesto del diritto penale dell’economia, questi ultimi rappresentano i nuovi beni giuridici, anche se qualcuno dice che non sono propriamente beni giuridici in senso stretto come tutela di funzioni; ma sono funzioni comunque strumentali perché funzionali alla tenuta stessa del sistema, della trasparenza del mercato. Per quanto si possa dubitare dal punto di vista politico-criminale di poter sottoporre a sanzione la lesione di beni giuridici strumentali, è accettata e auspicata, sempre di più anche dal punto di vista degli input sovranazionali, l’intensificazione anche della tutela penale.
“In ambito economico la prima tutela deve essere preventiva e non solo reattiva rispetto ad offese che altrimenti vedrebbero l’intervento penale solo in momenti in cui il danno (spesso come macro-danno) si è evidenziato; se l’unica e sola tutela fosse quella del danno, quindi reattiva rispetto all’offesa, bisognerebbe sempre attendere uno scandalo finanziario.
In altre parole, in ragione di quella che sarebbe la macro-offesa finale si giustifica l’anticipazione della tutela, secondo lo schema classico del diritto penale per cui maggiore è il rango del danno, altrettanto giustificata è l’anticipazione della tutela penale.” [i]

3. I soggetti attivi
Dal punto di vista sistematico, il testo che contiene le disposizioni anche relative alle sanzioni punitive riguardanti l’attività di revisione legale dei conti è il decreto legislativo 39/2010 “Attuazione della direttiva 2006/43/CE, relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, e che abroga la direttiva 84/253/CEE” [ii].
Passiamo a vedere quali sono le fattispecie penali e gli eventuali motivi di inadeguatezza di questo apparato punitivo penale predisposto dal legislatore.
Le fattispecie sulle quali soffermeremo la nostra attenzione sono:
– Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale (art. 27);
– Corruzione dei revisori (art. 28);

Preliminarmente, può esser interessante vedere chi sono i soggetti attivi, destinatari della normativa perché tre fattispecie hanno soggettività diverse. Alcuni fatti sono diretti alle società di revisione che svolgono la propria attività nei confronti degli enti di pubblico interesse; rispetto a questa attività rilevano con un rapporto di progressiva gravità (dal meno al più grave) le fattispecie di: illeciti rapporti patrimoniali, ricezione di compensi illeciti, corruzione passiva, falsità nelle comunicazioni delle revisioni e infine una fattispecie ancora più grave di falsità con collusione. Questa è la scala crescente di gravità delle fattispecie che possono colpire le società che esercitano la revisione legale obbligatoria all’esterno, perché ricordiamo che mentre gli enti di pubblico interesse sono obbligati a esternalizzare l’attività di revisione, gli enti non di pubblico interesse invece possono anche attribuire al collegio sindacale l’attività di revisione legale dei conti.
Per quanto riguarda invece i revisori delle società che invece non prestano servizio di revisione a società di interesse pubblico, sono comuni le prime due fattispecie (illeciti rapporti patrimoniali e ricezione di compensi). Cambia invece la situazione con riguardo alla corruzione passiva, poichè in questo caso è prevista dal comma 1 dell’art. 28 (invece l’ipotesi di revisione legale di enti di interesse pubblico è disciplinata dal comma 2 dello stesso articolo) e per quanto riguarda la falsità, mentre per gli enti di pubblico interesse la disciplina è ai commi 3 e 4 dell’art. 27 (falsità tout court e falsità con collusione), nel caso di enti non di interesse pubblico è punita solo la falsità tout court e la falsità con nocumento (art. 27, commi 1 e 2).
I terzi soggetti destinatari della tutela penale sono poi anche soggetti che operano a vario titolo nelle società soggette alla revisione, nella misura in cui sono co-artefici delle condotte poste in essere dai revisori legali.

4. Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale.
L’art 27, commi 1 e 2 d.lgs 39/2010, punisce la fattispecie più grave: la falsità posta in essere dai revisori con riguardo a enti non di interesse pubblico.
a. I responsabili della revisione legale i quali, al fine di conseguire per se’ o per altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino a un anno.
b. Se la condotta di cui al comma 1 ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.

Si tratta di una fattispecie di difficile applicazione concreta perché, nei fatti, il primo comma riprende la formulazione dell’art. 2621 c.c. introdotta con il D.Lgs. 11.04.2002, n. 61: la riforma dei reati societari più infausta della storia poichè funzionale a neutralizzare scientemente qualsiasi efficacia dei reati societari.
L’ineffettività è dovuta in primo luogo alla sanzione, perché l’arresto fino a un anno implica che si tratta una mera contravvenzione che, nonostante sforzi di accertamento, nella migliore dell’ipotesi si prescriverà in grado d’appello, quindi al massimo rileverà il mero aspetto reputazionale.
Il fatto di inserire un reato così ricco di elementi, così grave, nell’ambito della cornice contravvenzionale, per i tempi di prescrizione e meccanismi alternativi, lo rende poco efficace.
Nel secondo comma invece si passa a un delitto, quindi la pena risulta tutto sommato proporzionata. Ma il secondo comma è una norma neutralizzata, nell’ambito di una tutela funzionale dei beni giuridici strumentali, da un elemento assolutamente disfunzionale: il nocumento al destinatario. Il danno patrimoniale è disfunzionale perché è quasi impossibile dimostrare dal punto di vista del nesso causale la derivazione causale di un danno alla società soggetta a revisione dalla falsità, se non da una via presuntiva, andando contro ad ogni criterio per un accertamento serio del nesso causale. È un accertamento che ha un costo giudiziario altissimo, tanto che il diritto penale dell’economia nacque proprio per sopperire all’inadeguatezza del diritto penale del patrimonio. Se si ancora il disvalore del fatto al danno patrimoniale, significa privatizzare la tutela.

Il modello cambia al comma 3:
Se il fatto previsto dal comma 1 è commesso dal responsabile della revisione legale di un ente di interesse pubblico o di ente sottoposto a regime intermedio, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.

Ricordiamo che l’applicazione del comma 1 era neutralizzata dalla sua natura contravvenzionale. Quindi se alla fattispecie di cui al primo comma cambiamo la cornice delittuosa, potrebbe sembrare una fattispecie adeguata. Invece non è così perché c’è un altro elemento che rende particolarmente difficile applicare quella fattispecie in concreto: la forte ipertrofia che descrive dal punto di vista della condotta tipica l’elemento soggettivo del fatto. “Nel comma 1 leggiamo “al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, con la consapevolezza della falsità e con l’intenzione di ingannare”, quindi dolo specifico, dolo intenzionale e consapevolezza. E, oltretutto, si prevede “tutto questo dolo”, da delinquente professionale, per una contravvenzione. Ma anche nel comma 3, in cui il dolo è collegato ad un delitto, è molto pregnante questa ricostruzione del dolo, proprio perché bisognerebbe pensare ad un revisore contabile che parta direttamente con quell’obiettivo. “Dal punto di vista criminologico, se prendiamo in considerazione i casi in cui le società di revisione sono state coinvolte in un processo (Parmalat in primis), vediamo che l’illegalità e quindi l’adesione delle società di revisione ad un sistema di illiceità, non costituisce un’adesione originaria ma è un’adesione graduale, è una progressiva adesione a un contesto di illegalità (è un chiudere un occhio: inizio la revisione, mi accorgo che le cose non vanno e inizio a entrare nella logica di compromesso/tolleranza), che è già punibile ma sicuramente non è un dolo specifico perché non c’è un’elevatissima pregnanza. Al massimo il revisore inizia a sospettare e quindi accetta il rischio che sia tutto falso (dolo eventuale) e poi in una fase successiva si accorge che è tutto falso ma non interviene (dolo diretto). Nonostante ciò però, è difficile dire che si fa tutto con l’intenzione specifica, e dunque con dolo specifico. In questi contesti, se ci si può avvicinare a una responsabilità e provarla, si tratterà di una responsabilità per un’accettazione della falsità; si arriva per elementi indiziari che possono avallare la dimostrazione dei segnali d’allarme che sono la spia di un dolo eventuale per la giurisprudenza. È inutile negarlo: nel contesto economico le ipotesi concorsuali sono basate su elementi indiziari, sui segnali d’allarme; il diritto vivente dice che l’accertamento del dolo si basa sui segnali d’allarme ma non può che essere un dolo eventuale.” [iii]

5. Corruzione dei revisori
Le sanzioni penali iniziano in una fase precedente alla falsificazione di cui all’art. 27, proprio in ragione del carattere pubblicistico dell’attività; indipendentemente dalla realizzazione della falsificazione, in astratto viene punita anche la corruzione dei revisori.
I due commi dell’art. 28 tentano di riprodurre rispetto a questa attività, la stessa tutela prevista per la pubblica amministrazione in ragione degli interessi diffusivi coinvolti. Nonostante la logica alla base della formulazione normativa fosse quella di prevedere e delineare una particolare tipologia di corruzione privata di soggetti che svolgono delle funzioni di carattere pubblicistico, in realtà questa fattispecie di corruzione, soprattutto quella di cui al comma 1, per quanto riguarda gli enti non di interesse pubblico, lascia a desiderare sul piano applicativo.

I responsabili della revisione legale, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, per sè o per un terzo, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società, sono reclusione sino a tre anni. La stessa pena si applica promette l’utilità.

Rispetto alla condotta corruttiva disciplinata dagli art. 318 ss. c.p. emergono sostanziali differenze: rispetto alla fattispecie della corruzione pubblica, infatti, per la cui consumazione è sufficiente che il pubblico ufficiale accetti passivamente beni o altra utilità per commettere un atto contrario ai doveri degli uffici, non essendo, di contro, necessario che lo compia; nell’ipotesi disciplinata dall’ art. 28, non solo va dimostrato il fatto che il revisore abbia ricevuto l’utilità, ma va ulteriormente dimostrato che ci sia un nocumento. Da cui ne deriva che la condotta che per il pubblico ufficiale raggiunge la soglia di rilevanza penale, in questo caso può integrare al massimo tentativo di corruzione.
Ma l’ulteriore aspetto che non consente la sovrapposizione tra le due disposizioni è che la fattispecie di cui all’art 28 è incentrata sul cagionare un nocumento della società, che non può che essere la società di revisione. Già sarebbe difficile accertare il danno, se si fosse trattato di nocumento alla società assoggettata alla revisione, ma in questo caso il danno deve essere cagionato alla propria società (società di revisione). Questa non è altro che una riproduzione del vecchio art. 2634 cod. civ., che puniva un’ipotesi di infedeltà patrimoniale, in cui venivano tutelati gli interessi interni della società di revisione, solo se si fosse dimostrato che la società di revisione avesse subito un danno derivante dalla condotta posta in essere dal revisore, ma senza l’obiettivo di tutelare un interesse alla concorrenza, alla fiducia nel mercato. Questa norma quindi non mira alla tutela degli interessi normalmente di una fattispecie corruttiva, ma riproduce lo schema tipico dell’infedeltà patrimoniale e quindi si tratta di interessi (non necessariamente patrimoniali, perché si parla di nocumento e non di danno patrimoniale) interni alla società di revisione. È, dunque, una fattispecie che condivide ben poco con il modello pubblicistico della corruzione.

Diverso è il secondo comma:
Il responsabile della revisione legale e i componenti dell’organo di amministrazione, i soci, e i dipendenti della società di revisione legale, i quali, nell’esercizio della revisione legale dei conti degli enti di interesse pubblico o degli enti sottoposti a regime intermedio o delle società da questi controllate, fuori dei casi previsti dall’articolo 30, per denaro o altra utilità data o promessa, compiono od omettono atti in violazione degli obblighi inerenti all’ufficio, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica a chi da’ o promette l’utilità.

Ci troviamo di fronte ad un’ipotesi di corruzione applicabile rispetto all’attività di revisione legale svolta nei confronti di società di interesse pubblico. La fattispecie qui è strutturata diversamente, perché pur non essendoci identità sostanziale con la condotta della corruzione pubblica (anche in questo caso, infatti, non è sufficiente la mera ricezione di denaro o altra utilità o promessa, ma occorre compiere un atto in violazione dei propri obblighi), quantomeno però non sussiste il requisito del nocumento. Quindi lo schema è quello della tutela dei fatti corruttivi, e quindi il bene giuridico è strumentale ed è una tutela dell’imparzialità e dell’obiettività dell’attività di revisione dei conti e non tutela della società di revisione.
Dal punto di vista strutturale, è una corruzione vera e propria che riproduce la corruzione pubblicistica e quindi rappresenta un’ipotesi speciale di corruzione tra privati.
Rimane il problema dell’accertamento giudiziario dell’elemento della violazione di obblighi del proprio ufficio. È un elemento di descrizione della fattispecie di tipo valutativo.
Quando si può dire che il revisore sta violando i propri obblighi? È un elemento valutativo che, a differenza di tutti gli elementi descrittivi che caratterizzano il diritto penale, dovrà essere oggetto di consulenza. Vale a dire che, in questo caso il giudice, per determinare se il revisore dei conti abbia violato i suoi obblighi, deve rivolgersi un consulente, dovendosi approfondire quelli che sono gli obblighi di controllo, lo statuto legale del revisore dei conti, capire fino a che punto avrebbe dovuto spingersi nei controlli.

Non bisogna ragionare con la categoria della corruzione pubblicistica perché qui non interessa l’atto difforme; l’importante è dimostrare che il fatto di violare i doveri del proprio ufficio doveva essere un obiettivo. A dover essere individuato, è un atto contra legem, ma se si parte dal presupposto che l’attività del revisore dei conti è un’attività sostanzialmente valutativa allora il rischio è quello di scontrarsi con le criticità tipiche di un’altra figura criminosa, come la corruzione in atti giudiziali: come si fa a sindacare che quel giudice, in base al principio iura novit curia, ha emesso una sentenza violando il proprio obbligo? Si può sempre argomentare in base al libero convincimento del giudice.
Esemplificativamente, nel caso di revisore, se manca una prova (ad esempio un’intercettazione, un’e-mail che dimostra che il revisore sapeva che stava scientemente violando i suoi obblighi), occorre inchiodare la violazione dell’obbligo sulla base di un elemento oggettivo e non è cosa facile. Se è semplicemente una stima sulla plausibilità, posto che il revisore legale non è tenuto a un audit a 360 gradi, sarà difficile andare ad accertare questo elemento normativo della fattispecie. Attenzione allora, perché, mentre potrebbe essere immediato il fatto per cui anche avendo provato la ricezione di una indebita utilità, completare la fattispecie con questo secondo elemento è qualcosa che la norma impone.

A fronte delle criticità prospettate in termini di difficile concreta applicazione della normativa in questione, che si traduce nella maggior parte dei casi in una crisi di effettività dell’impalcatura legislativa posta a tutela della genuinità dell’informazione societaria, pare dunque rendersi necessario un ulteriore intervento riformatore del legislatore nostrano.

 

 

[i] M. Scoletta, Lezione sul “Sistema dei controlli esterni: le società di revisione”, MiDPI, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

[ii]

[iii]M. Scoletta, Lezione sul “Sistema dei controlli esterni: le società di revisione”, MiDPI, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

Alfredo Caruso

Alfredo Caruso, nato a Napoli nel 1992. Dopo aver conseguito la maturità presso il Liceo Scientifico "Ettore Majorana", decido di intraprendere gli studi giuridici presso l'Università Federico II di Napoli laureandomi,nel luglio 2017, con una tesi in Diritto Penale dal titolo "Delitti in materia di criminalità organizzata tra legge e giudice: rapporto tra norme ed interpretazione giurisprudenziale riguardo alle principali figure criminose". Partecipo al progetto Erasmus presso la University of national and world economic (Sofia, Bulgaria). Da sempre appassionato alla cultura anglosassone/americana nell'agosto 2016 prendo parte un corso intensivo di diritto americano presso la George Washington University (Washington D.C.). Frequento, da ultimo, un master di II livello in Diritto Penale dell'Impresa presso L'Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano).

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