venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Il ricorso abusivo al credito: analisi e previsioni normative

Il ricorso abusivo al credito è un fenomeno criminoso previsto dall’articolo 218 del r.d. 267/1942, la cd. Legge Fallimentare. Il dettato normativo prevede testualmente: “Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale (artt. 28 ss. c.p.), la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni”.
Disciplinando questo tipo di reato, il legislatore ha inteso fornire una forma di tutela ai soggetti che si trovino a porre in essere trattative con imprese in condizioni economiche critiche.
Analizzando la lettera dell’articolo in esame si fa riferimento a una situazione di dissesto, vera e propria discriminante al fine della distinzione tra il ricorso abusivo al credito e la diversa fattispecie di bancarotta fraudolenta. Nel caso, più complesso, in cui il dissesto celato o dissimulato abbia come diretta conseguenza degli artifici fraudolenti o qualsivoglia forma di raggiro, la figura in esame evolve in quella di truffa, reato diverso e sicuramente più grave.
Chi esercita una attività di tipo imprenditoriale e assume un debito senza possedere i requisiti patrimoniali e finanziari per poterne reggere l’urto, e quindi per poterlo saldare in futuro, si rende autore di una condotta integrante reato.  In questa situazione, infatti,  oltre gli interessi dei precedenti creditori, che in caso di insolvenza si troverebbero a distribuire il patrimonio dell’impresa fallita tra più soggetti (ai creditori, in questo caso, spetterebbe una quota di minore entità), ad essere fortemente a repentaglio è anche e soprattutto il patrimonio del soggetto concedente, il quale deve sobbarcarsi il costo dell’inadempimento.
In questo scenario, i creditori antecedenti alla richiesta della società in dissesto rischierebbero di non essere soddisfatti nel loro diritto o comunque di esserlo in quantità inferiore di quanto spetterebbe loro.
Il credito ottenuto in modo abusivo ha l’effetto di alterare l’attività economica del debitore falsificandone l’effettiva entità, facendo aumentare in maniera esponenziale la possibilità che possano essere contratti ulteriori debiti.
Da più parti è stato sostenuto che tale tipologia di reato sia quanto meno controversa. C’è chi, ancora oggi, continua a ritenere la dichiarazione di fallimento il limite da cui dipende tale fattispecie: parte della dottrina, infatti, pone l’accento sulla questione relativa alla volontà del legislatore di fare in modo che tale dichiarazione non sia direttamente connessa con l’area della pena.
Il ricorso abusivo al credito, inoltre, è una fattispecie di reato in cui il soggetto attivo è la società che, pur versando in una condizione di precario equilibrio finanziario, continua a chiedere finanziamenti alla banca. D’altronde, anche quest’ultima gioca un ruolo di primo piano nella realizzazione del reato, dal momento che essa concede il prestito con troppa facilità, utilizzando un grado di diligenza non sufficiente rispetto a quello che il caso concreto richiederebbe; l’istituto bancario, ad ogni modo, non può essere considerato alla stregua di un complice nella realizzazione della fattispecie criminosa.

Per meglio comprendere i principali elementi caratterizzanti il ricorso abusivo al credito, risulta di grande aiuto porre a confronto le specificità di questa fattispecie criminosa con quelle di altri reati ad esso affini: tale operazione permette di avere un quadro organico della disciplina di questo fenomeno e consente altresì di tratteggiare i confini che ne delimitano l’ambito di applicazione.
Innanzitutto, per quanto riguarda il rapporto tra ricorso abusivo al credito e il delitto di insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 c.p., va ribadito che le due fattispecie si pongono tra loro in rapporto di alternatività, a causa della loro differente collocazione negoziale. Nell’art. 218 l. fall., infatti, il soggetto agente dissimula il proprio dissesto al fine di ricorrere al “credito”, rimarcando una discrasia temporale tra il momento della fruizione del bene e quello della controprestazione.

Con riferimento al reato di mendacio bancario, ripristinato dall’art. 33 l. 262/2005, il rapporto con il ricorso abusivo al credito viene analizzato sulla base della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 137 d.lgs. 1993/385. Da questo dato normativo emerge che il mendacio bancario risulta oggetto di una sanzione autonoma, ex art. 137 d.lgs. 1993/385, con la pena della reclusione fino a un anno e con la multa fino a euro 10.000. Se, invece, un tale mendacio ha a oggetto lo stato di insolvenza e di dissesto ed è commesso dal soggetto che ha richiesto il credito alla banca, allora si applicherà il solo art. 218 l. fall.

Ancora, il rapporto tra il ricorso abusivo al credito e il delitto di truffa è disciplinato sulla base dell’art. 15 c.p. Infatti, la maggior parte della dottrina pare propendere per il carattere speciale della fattispecie di cui all’art. 218 l. fall. rispetto a quella dell’art. 640 c.p. Va a delinearsi, in questo caso, una specialità che non solo attiene alla tipologia di condotta, ma altresì al disvalore d’evento (la mancata controprestazione quale ipotesi speciale di danno).

In ultimo, per quanto concerne il rapporto tra il reato in esame e la bancarotta fraudolenta, larga parte della dottrina ritiene di collocare i due fenomeni in un ottica di concorso di reati. Va rilevato, tuttavia, che il reato di cui all’art. 218 si pone come ipotesi speciale rispetto a quella prevista dall’art. 217 della stessa legge, riguardante l’ipotesi generica delle operazioni volte a ritardare il fallimento.

Dott. Giovanni Sorrentino

Giovanni Sorrentino è nato a Napoli nel 1993. Dopo aver conseguito la maturità classica con il massimo dei voti presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro, intraprende lo studio del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Nel dicembre del 2017 si è laureato discutendo una tesi in diritto penale dal titolo "Il riciclaggio", relatore Sergio Moccia. Attualmente sta svolgendo la pratica forense presso lo Studio Legale Chianese. Nel 2012 ha ottenuto il First Certificate in English (FCE). Ha collaborato dal 2010 al 2014 con la testata sportiva online "Il Corriere del Napoli". È socio di ELSA (European Law Students' Association) dal 2015. Nel 2016 un suo articolo dal titolo "Terrore a Parigi: analisi e possibili risvolti" è stato pubblicato su ElSianer, testata online ufficiale di ELSA Italia. Nel 2017 è stato selezionato per prendere parte al Legal Research Group promosso da ELSA Napoli in Diritto Amministrativo (Academic Advisors i proff. Fiorenzo Liguori e Silvia Tuccillo) dal titolo "L'attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato", con un contributo dal titolo "Il contratto di avvalimento". Grande appassionato di sport (ha giocato a tennis per dieci anni a livello agonistico) e di cinema, ama viaggiare ed entrare in contatto con nuove realtà. Email: giovanni.sorrentino@iusinitinere.it

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