venerdì, Marzo 29, 2024
Di Robusta Costituzione

Riflessioni a caldo in tema di concession quale consuetudine costituzionale

a cura di Giacomo Menegatto*

 

“È così che nasce il diritto nei primordi della storia umana: non da un testo scritto, frutto di rivelazione divina o di sapienza di dotti, bensì da un fatto che si ripete, da una durata che si distende nel tempo, da una osservanza collettiva che non è obbedienza passiva ma piuttosto adesione[1]. La dimensione del giuridico non coincide con quella del diritto positivo; la dimensione del ius – inteso nella sua accezione più nobile, quale ars boni et aequi – non può che essere ben più ampia rispetto al semplice insieme delle tante proposizioni normative racchiuse, quasi imprigionate, all’interno di costituzioni e codici.

È, quest’ultima, una proposizione che il giurista continentale, ammaestrato al ragionamento formalistico-positivistico di stampo pandettista, fatica senz’altro a comprendere; decisamente meno ardua risulta l’impresa, invece, per il giurista di matrice anglosassone, specie per quello d’oltremanica, formato al concetto di rule of law, non intesa certo – in modo semplicistico – quale mera legge, bensì come poliedrica sintesi di “consuetudine, fonti giudiziarie e dottrinali, fonti legislative[2].

Ebbene, se ci si sposta al di là dell’Atlantico e si guarda all’esperienza statunitense, non è difficile scorgere (specie se si guarda all’ambito costituzionale) elementi di quella consuetudinarietà fattuale che – se si aderisce ad una visione non meramente positivistica del diritto – potrebbe anche assumere connotati di giuridicità o, quantomeno, di para-giuridicità.

Un esempio – divenuto, in questi ultimi giorni, di scottante attualità – potrebbe dirsi rappresentato dalla cosiddetta concession, vale a dire quel momento in cui, alla conclusione dello spoglio elettorale (o anche prima, nel caso in cui la situazione appaia già sufficientemente definita), il candidato “sconfitto” riconosce ufficialmente la vittoria al Presidente eletto. Tale riconoscimento, tradizionalmente, avviene dapprima in via informale (tramite un telegramma o una telefonata indirizzati al nuovo o riconfermato inquilino della Casa Bianca) e, in un secondo momento, tramite un discorso ufficiale, solitamente rivolto ai propri sostenitori.

Il primo esempio di concession si fa risalire alla competizione elettorale del 1896, quando il democratico William Jennings Bryan inviò un telegramma di congratulazioni a William McKinley – esponente repubblicano, eletto venticinquesimo Presidente degli Stati Uniti[3] – nel quale rilevava, tra l’altro, come la volontà del popolo americano fosse legge (“law”), alla quale attenersi senza indugi di sorta.

Da allora, si sono avvicendati discorsi di concessione i più diversi, tutti accomunati dal riconoscimento di un profondo rispetto nei confronti della vox populi quale più alta forma di manifestazione democratica. E ne hanno costituito prova tanto i discorsi di Presidenti in carica non riconfermati per un secondo mandato (si pensi, ad esempio a Jimmy Carter: “I have a deep appreciation of the system, however, that lets people make a free choice about who will lead them for the next four years[4]; o a George H.W. Bush: “The people have spoken, and we respect the majesty of the democratic system…and regardless of our differences, all Americans share the same purpose: to make this, the world’s greatest nation, more safe and more secure, and to guarantee every American a shot at the American dream[5]), quanto quelli di sfidanti mai riusciti ad insediarsi alla Casa Bianca (è il caso, da ultimo, di Hillary Clinton: I congratulated Donald Trump and offered to work with him on behalf of our country. I hope that he will be a successful president for all Americans… Our constitutional democracy enshrines the peaceful transfer of power and we don’t just respect that, we cherish it[6]).

Ed è senz’altro passato alla storia il più volte posticipato concession speech di Al Gore, seguito alla lunga e discussa battaglia legale relativa al riconteggio dei voti in Florida, bloccato con la celebre pronuncia della Corte suprema federale Bush v. Gore, in nome della valorizzazione delle c.d. “equal protection close” e “safe harbor clause”: “I say to President-elect Bush that what remains of partisan rancor must now be put aside, and may God bless his stewardship of this country[7].

Ebbene, per quanto il concession speech sia entrato a far parte, da più di un secolo, del rituale elettorale americano, di esso non si trova la benché minima traccia né nella Costituzione né nella disciplina legislativa federale in materia di elezioni (in particolare, nell’Electoral Count Act del 1887): ciononostante, si tratta di una prassi che è stata costantemente e scrupolosamente seguita nel corso degli anni, tanto da segnare in modo pressoché “ufficiale” la conclusione dell’iter elettorale e l’individuazione definitiva del nuovo Presidente.

Alla luce di queste brevi considerazioni, è interessante chiedersi quale sia la natura – dal punto di vista giuridico – della prassi della concession e, successivamente, quali siano le conseguenze di un eventuale rifiuto, da parte del candidato sconfitto, di riconoscere la vittoria allo sfidante, come sembra essere intenzione di Donald Trump a seguito del raggiungimento, da parte di Joe Biden, del numero di grandi elettori necessari a conquistare la presidenza.

Ora, in un suo celebre trattato risalente al secondo decennio del secolo scorso, Antonio Ferracciu aveva autorevolmente sostenuto che  “nella sfera di attività del diritto costituzionale deve accordarsi la massima importanza al fatto, che così il ripetersi degli atti come la convinzione della loro obbligatorietà voglionsi ricercare negli organi costituzionali stessi, che sono i subbietti elaboratori della consuetudine: e però, basta che essi abbiano di fatto osservato una norma regolatrice di un dato rapporto, con la coscienza di osservare una norma obbligatoria, perché ad essa possa conferirsi la qualità e forza giuridica di norma consuetudinaria”[8]; tuttavia, il celebre costituzionalista notava anche che “l’efficacia della consuetudine si arresta dinanzi all’esercizio della funzione elettorale”[9], e che, di conseguenza, “quelli che comunemente si ravvisano come costumi elettorali costituiscono un complesso di regole di morale politica e sociale”[10]. Era un’affermazione, quest’ultima, basata essenzialmente sulla constatazione che, di norma, la materia elettorale risulta scrupolosamente disciplinata da fonti, costituzionali e legislative, di natura positiva, cosicché non vi sarebbe spazio, in subiecta materia, per la consuetudine.

Vero è, tuttavia, che la disciplina elettorale statunitense risulta, al contrario, estremamente vaga e spesso lacunosa: pur prevedendo, infatti, precise scadenze temporali[11] per l’espletamento dei diversi passaggi necessari ad addivenire all’avvicendamento presidenziale, non sempre predetermina le conseguenze di un eventuale, mancato rispetto di detti termini. Cosa accadrebbe, ad esempio, nel caso in cui – a seguito della proposizione da parte dei legali di Trump dei già annunciati ricorsi – alcuni Stati non riuscissero a ratificare, entro la canonica data dell’8 dicembre, il risultato del voto popolare e, dunque, la nomina dei propri grandi elettori? Potrebbero le singole assemblee statali, a rigore, fornire ai grandi elettori un’indicazione di voto eventualmente non corrispondente al risultato elettorale contestato? Quali ne sarebbero le implicazioni?

È indubbio che, in casi di tal genere, una concession della vittoria da parte di uno dei candidati nei cofronti dell’altro eliminerebbe alla radice ogni problema, perché ciascuno Stato si atterrebbe scrupolosamente ai risultati ufficiali (corretti o non corretti che siano, quanto ai decimali) ed ogni scadenza sarebbe senz’altro rispettata senza soprese di sorta.

Ecco allora che, per quanto riguarda, specificamente, l’ambiente statunitense, la concession – pur non presentando carattere di obbligatorietà ed essendo, dunque, del tutto eventuale – nondimeno svolge una precisa funzione (che si potrebbe, quantomeno, definire “preventiva”) in seno al procedimento elettorale, segnando il formale riconoscimento, da parte del candidato sconfitto, dell’esito del voto popolare e contribuendo così a scongiurare l’insorgere di spiacevoli inconvenienti che possano mettere a repentaglio un’ordinata e pacifica transition.

Non si tratta dunque, in tutta evidenza, di una mera formalità: potrebbero esservi situazioni in cui un rifiuto della medesima potrebbe portare ad effetti destabilizzanti, la cui soluzione non risulta sempre agevolmente individuabile nella disciplina positiva.

Alla luce di quanto si è appena detto, allora, non sarebbe forse completamente incauto tentare una qualificazione della concession non già in termini di mero costume politico-fattuale, quanto piuttosto di vera e propria consuetudine costituzionale, avente ­– dunque – natura giuridica o, perlomeno, para-giuridica. Se è vero, infatti – in linea generale –, che il diritto nasce, essenzialmente, come strumento volto a soddisfare bisogni umani, là dove i consociati avvertano l’esigenza di dare una regolazione, un ordine, ad un determinato fenomeno, non si può escludere che a tale scopo risponda anche l’istituto della concessione: istituto non positivizzato, ma nondimeno costantemente seguito da parte di tutti i Presidenti (di epoca moderna, ma non solo) al preciso fine di garantire un ordinato passaggio di poteri tra gli inquilini della Casa Bianca. Non, dunque, espressione di mero “galateo costituzionale”[12], ma prassi dotata di vera e propria sostanza giuridica.

Non è dato sapere quali saranno, davvero, le prossime mosse di Donald Trump. È probabile che egli concederà, prima o poi, la vittoria a Biden, magari all’esito della tanto propagandata battaglia legale (sempre che quest’ultima si concluda entro i tempi previsti dalla già richiamata normativa in materia).

Indipendentemente dalla qualificazione formale che si vuol dare alla concession – giuridica, sociale, politica, fattuale – resta però un’indubbia constatazione: non concedere la vittoria al Presidente eletto significa non riconoscere il voto popolare, significa rifiutarsi di sottostare alla volontà liberamente manifestata dai propri concittadini, significa non accettare che vi sia una pacifica transizione al potere: significa, in definitiva, tradire l’essenza stessa della Costituzione americana, quel We the People che campeggia, solenne ed austero, nell’incipit del preambolo di quello che è forse il più grande manifesto di democrazia che sia mai stato concepito nella storia umana.

* Dottore in Giurisprudenza e Cultore della materia per l’insegnamento di ELP – Global English for Legal Studies presso l’Università di Padova.

[1] P. Grossi, Prima lezione di diritto, 2003, 100.

[2] P. Grossi, Oltre la legalità: in dialogo con Mario Bertolissi, in AA.VV., Libertà Giovani Responsabilità. Scritti in onore di Mario Bertolissi, a cura di G. Bergonzini, F. Pizzolato, G. Rivosecchi e G. Tieghi, 2020, 21.

[3] Questo il testo integrale del telegramma: “Lincoln, Neb., November 5. Hon. Wm. McKinley, Canton, Ohio: Senator Jones has just informed me that the returns indicate your election, and I hasten to extend my congratulations. We have submitted the issue to the American people and their will is law. W.J. Bryan”.

[4] J. Carter, Concession speech, 1980.

[5] G. H. W. Bush, Concession speech, 1992.

[6] H. Clinton, Concession speech, 2016.

[7] A. Gore, Concession speech, 2000.

[8] A. Ferracciu, La consuetudine costituzionale. II. Natura specifica, 1919, 42.

[9] A. Ferracciu, La consuetudine costituzionale, cit., 7.

[10] A. Ferracciu, La consuetudine costituzionale, cit., 8.

[11] Ad esempio, l’8 dicembre è il termine ultimo concesso ai singoli Stati per dirimere qualunque controversia inerente il conteggio dei voti; il 14 dicembre è la data in cui, in ciascuno Stato, i grandi elettori si riuniscono per votare formalmente il Presidente; il 6 gennaio è il giorno in cui il Congresso in seduta comune dichiara ufficialmente il vincitore, a seguito della conta dei voti espressi dai grandi elettori.

[12] L’espressione è di L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, 1996, 402.

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