sabato, Aprile 20, 2024
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Riviste per soli adulti e regime penitenziario di cui all’art.41-bis O.P.: il diritto alla sessualità dei detenuti

1. Premessa

Il rapporto tra carcere e affettività ha, specialmente negli ultimi anni, alimentato sia dal punto di vista prettamente giuridico e normativo, sia psicologico e sociale il dibattito. In particolare il fulcro della questione si basava sul fatto se, un soggetto privato della libertà personale a seguito di una condanna ovvero di un provvedimento cautelare, stante la commistione nelle strutture carcerarie delle due categorie, potesse essere anche privato della sfera sessuale. Tale questione si è riproposta con particolare forza nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis O.P., c.d. carcere duro.                                          Proprio su tale questione è di recente intervenuta anche la Corte di Cassazione la cui decisione sarà oggetto del presente commento.

2. La sessualità come diritto: la giurisprudenza comunitaria e nazionale.

La questione del rapporto tra la sfera affettiva di cui ogni individuo è portatore e le limitazioni derivanti dalla permanenza in un istituto di pena hanno interessato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale.

Sul punto infatti, già nel 2012, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, c. 2, L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale), nella parte in cui prevede il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, in tal modo impedendo loro di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza. Secondo l’opinione del Tribunale rimettente, il diritto del detenuto in carcere ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il convivente more uxorio, nel più ampio contesto del diritto all’affettività, sarebbe ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo: diritti che, sebbene ricevano limitazioni per effetto della condizione di restrizione della libertà personale, non possono essere annullati, così come anche affermato in alcune raccomandazioni del Consiglio d’Europa e in alcuni atti dell’Unione europea[1]

La preclusione posta di fatto all’esercizio del diritto sarebbe in contrasto anche con il principio di uguaglianza e ostacolerebbe il pieno sviluppo della persona del detenuto ed inoltre sussisterebbe un trattamento contrario al senso di umanità, tale da compromettere la funzione rieducativa della pena.

Il divieto censurato, inoltre, determinerebbe anche il fenomeno dei cd. matrimoni bianchi in carcere, celebrati e non consumati e, ancora, impedirebbe la maternità contrastando quindi con l’art. 29 Cost..

Infine, sussisterebbe il contrasto con il precetto costituzionale che garantisce il diritto alla salute, dal momento che l’astinenza sessuale comporterebbe “l’intensificazione di rapporti a rischio e la contestuale riduzione delle difese sul piano della salute“, e non aiuterebbe uno sviluppo normale della sessualità “con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico[2].

Il possibile rimedio che era stato paventato dal giudice a quo, la rimozione dell’obbligo di controllo a vista, avrebbe assicurato la compatibilità costituzionale della disciplina, dalla quale evidentemente si presume discenda una praticabilità di fatto delle effusioni tra i colloquianti.

Sotto il primo profilo, la Corte ha affermato che il controllo a vista del personale di custodia non ha come scopo specifico quello di impedire i rapporti affettivi intimi del recluso con il suo partner, ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno della struttura e di prevenzione dei reati. La Consulta ha stabilito, quindi, che l’asserita necessità di rimuovere tale conseguenza non giustifica la caduta di ogni forma di sorveglianza sui colloqui.

Sotto il secondo profilo, l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto.  Se quindi la questione di illegittimità costituzionale sollevata non ha ricevuto accoglimento da parte della Corte Costituzionale, sono molte le disposizioni, in ambito comunitario, che tutelano – o cercano di tutelare – anche la sfera affettiva delle persone detenute.

Con riferimento alle Regole penitenziarie europee, particolare rilievo assumono le due raccomandazioni del Consiglio d’Europa riguardanti gli effetti sociali e familiari derivanti dalla detenzione: la Racc. 1340/1997 e la Racc. 2/2006 adottata dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2006[3].

All’art. 6 della prima, il legislatore sovranazionale invita gli stati membri a migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, predisponendo all’interno degli istituti penitenziari luoghi nei quali i detenuti abbiano la possibilità di incontrare i propri visitatori da soli.

La raccomandazione del 2006 specifica invece che i detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile – per lettera, telefono o altri mezzi di comunicazione – con la famiglia, terze persone, rappresentanti di organismi esterni e a ricevere visite da dette persone. Ancora il comma 4 della Regola n. 24 chiarisce che le modalità di esecuzione dei colloqui devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali.[4] Queste due raccomandazioni, benché non vincolanti, esprimono chiaramente l’esigenza di predisporre a livello nazionale strumenti idonei a garantire la piena esplicazione dell’individualità del detenuto, inclusa la sfera affettiva e sessuale.[5]

Ad ulteriore conferma della tendenza del regime penitenziario europeo, l’art. 1 lett. c) della Raccomandazione del Parlamento europeo n. 2003/2188 (INI) del 2004 annovera tra i diritti da garantire ai detenuti quello ad avere una vita affettiva e sessuale attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi[6].

Il diritto all’affettività e alla sessualità dei ristretti trova affermazione anche nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella giurisprudenza dei giudici di Strasburgo. In particolare, la Corte EDU individua negli artt. 8 e 12, che tutelano rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto al matrimonio, la base normativa di tale diritto. Alla luce dei limiti intrinseci a queste disposizioni, la Corte è orientata nel senso da escludere che esista un obbligo positivo in capo agli stati parte di riconoscere ai detenuti un diritto assoluto ed incondizionato a godere di spazi ove consumare rapporti intimi con il proprio partner (diritto alla sessualità intramuraria). Infatti, la Corte ritiene che sia questa un’area in cui gli stati godono di ampia discrezionalità, venendo in considerazione questioni legate alle necessità e risorse dei singoli ordinamenti nazionale[7].

Per questo motivo, essa individua quale principio generale quello secondo cui, allo stato attuale, restrizioni alla riservatezza nel corso delle visite possono essere giustificate per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, a tutela della vittima dei reati ovvero per ragioni di prevenzione penale. A tal proposito, è opportuno precisare che le regole penitenziarie europee, in particolare la Regola n. 24, c. 2, prevede che tali limitazioni devono sempre garantire un contatto minimo accettabile ed il mantenimento e lo sviluppo di relazioni familiari il più possibile normali. Nonostante l’approccio prudente, è opportuno evidenziare che la Corte Europea non ha mancato di esprimere approvazione per i percorsi di riforma attuati in diversi stati europei in favore del regime delle conjugal visits, tese al miglioramento delle condizioni detentive e al reinserimento sociale del reo per mezzo del mantenimento dei legami familiari.

La Corte europea ha poi segnato un’evoluzione positiva nel panorama giurisprudenziale in tema di mantenimento dei contatti con il mondo esterno attraverso le visite familiari mediante l’esplicito riconoscimento, in capo agli Stati contraenti, di positive obligations derivanti proprio dal diritto al rispetto della vita privata e familiari sancito all’art. 8 CEDU. L’orientamento prevalente si fonda sul fatto che, se è vero che una certa discrezionalità è riconosciuta alle autorità statali quando sono chiamate a decidere sulla questione delle visite familiari, è anche vero che tali autorità hanno il dovere di assistere i detenuti nella creazione e mantenimento dei legami extra-murari, offrendo in questo modo i mezzi per il reinserimento sociale degli stessi. Quindi è necessario che, sul piano interno, le autorità statali forniscano ai soggetti ristretti e, se del caso, ai membri delle loro famiglie, una realistica opportunità di esercitare in maniera effettiva il diritto alle visite familiari. Orbene risulta evidente che l’obbligo positivo degli Stati è strettamente collegato alla necessità di una valutazione individuale. In altre parole, ogni qual volta uno Stato intenda limitare il diritto dei detenuti al mantenimento dei contatti con il mondo esterno o sia chiamato a valutare richieste relative alle visite familiari, è tenuto a prendere in considerazione i rischi e le esigenze del caso concreto[8].

Di conseguenza, qualsiasi restrizione automatica sul tipo, sulla frequenza e sulla durata delle visite familiari è da ritenersi inammissibile, poiché impedisce o limita una valutazione che tenga in considerazione le peculiarità del caso specifico e non offre alcun margine di flessibilità per determinare se le restrizioni imposte dallo Stato siano appropriate o effettivamente necessarie in ogni singolo caso[9].

Appare chiaro come la giurisprudenza comunitaria si sia orientata nel ritenere anche la sfera affettiva di un soggetto detenuto, meritevole di tutela rafforzata che – se inutilmente limitata – andrebbe a pregiudicare, prima che i diritti, la sfera emotiva e la salute del singolo. Si vuole quindi evitare, oltre alla operatività di meccanismi automatici volti ad escludere ad esempio le visite familiari e i colloqui con il coniuge e la prole, che la pena espianda si trasformi in una punizione, quasi dantesca, che annulli o faccia finta di non ritenere concreta e sussistente le normali esigenze e pulsioni di un soggetto ristretto.

3. Sull’art. 41-bis O.P.

L’art. 41-bis, c. 2, L. 354/75 è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306.

La norma in esso contenuta ha previsto fin dalla sua prima e originaria formulazione, un regime detentivo caratterizzato prevalentemente da una drastica riduzione delle opportunità di contatto della persona detenuta con il mondo libero. Tale modello di detenzione consiste in un elenco preciso e ora, anche parzialmente normativamente definito, di limitazioni alle residue libertà della persona incarcerata, ispirate all’esigenza di interrompere i collegamenti tra la stessa persona detenuta e l’associazione criminosa di appartenenza. Le disposizioni dell’art.41-bis intervengono sulle regole alle quali un detenuto deve attenersi in via ordinaria, sottraendo ulteriori spazi di libertà[10].

Per quanto attiene ai beni personali, al detenuto è consentito di avere un numero molto limitato di oggetti: nessun medicinale, nessuna fotografia, nessun quadro o poster, nessun orologio, nessun apparecchio elettrico o elettronico, ad eccezione di un televisore, di proprietà dello Stato, con ricezione di canali selezionati. La permanenza all’interno della cella si protrae per tutto l’arco della giornata ad eccezione di due ore nelle quali è possibile usufruire degli spazi all’aperto o delle sale ricreative. La cella inoltre è sottoposta a frequenti perquisizioni e controlli consistenti nella battitura delle inferriate delle finestre, nell’ispezione dei muri perimetrali, nel controllo della dotazione personale consentita e delle dotazioni dell’Amministrazione penitenziaria. Eventuali scritti come le lettere, salve particolari eccezioni, saranno sottoposti a censura o a visto di controllo, così come le letture che saranno limitate a quei pochi libri o a quelle riviste che avrà acquistato esclusivamente tramite la Direzione del carcere[11].

Per quanto attiene ai rapporti familiari, è consentito incontrare soltanto i parenti più stretti, in modo non riservato in appositi locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti e, quindi, in un contesto di assoluta costrizione, con frequenza non superiore a una volta al mese[12].

Le ulteriori e più incisive limitazioni riguardano la mancata partecipazione ai processi che lo riguardano dovendovi partecipare necessariamente attraverso il sistema della videoconferenza, la possibilità di ricevere dall’esterno somme in peculio superiori all’ammontare mensile stabilito ai sensi dell’art.57, c. 6, D.P.R. 30 giugno 2000, n.230, ovvero pacchi contenenti generi ed oggetti, in quantità superiore a due pacchi al mese. Inoltre il detenuto sottoposto a tale regime non potrà essere nominato né partecipare alle rappresentanze dei detenuti e degli internati né ricevere dall’esterno o acquistare al sopravvitto, generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura.

Si tratta a ben vedere di numerose ed importanti forme di limitazione di un soggetto che è già sottoposto al regime carcerario che intrinsecamente contiene delle limitazioni.

La ratio dell’introduzione di tale norma si fonda sulla necessità far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà, escludendo o fortemente limitando quei collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso l’utilizzo delle opportunità che l’ordinario regime carcerario, consente e in certa misura favorisce. L’art. 41-bis O.P. esula dalla logica della detenzione ordinaria o dalle normali regole contenitive e costrittive delineate per tutti i detenuti e impone regole o limitazioni di vita personale, fortemente invasive e penalizzanti, con il dichiarato scopo di garantire o tentare di garantire, l’impermeabilità del carcere rispetto all’esterno, in un’ottica orientata prevalentemente alla neutralizzazione della pericolosità[13].

In ragione delle innumerevoli limitazioni poste in essere l’art. 41-bis O.P. è stato oggetto di molti ricorsi avanti la Corte Costituzionale, che tuttavia hanno visto ben poche pronunce di accoglimento.

Con la sentenza n. 143/2013 la Corte era giunta ad una dichiarazione di incostituzionalità in relazione ad una questione relativa alla limitazione dei colloqui con i difensori dei detenuti soggetti al regime del carcere duro. Si trattava di una pronuncia in cui sulla riduzione di tali colloqui la scure dell’incostituzionalità non era scesa tanto per il fatto che il diritto di difesa non potrebbe, in quanto inviolabile, subire compressioni, ma in quanto il bilanciamento di cui la norma censurata era espressione non risultava ragionevole[14]. Viceversa con la sentenza n. 186/2018 la censura concerneva il divieto di cuocere cibi per i detenuti soggetti a tale regime di carcere duro; la Consulta, sulla base di una accurata motivazione, ha accertato l’assenza di ogni possibile giustificazione della norma e quindi ha dichiarato il parziale contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione[15]. La tematica ha inoltre investito anche la Corte di Strasburgo che in varie occasioni ha avuto modo di esprimersi circa il regime di cui all’art. 41-bis O.P..

Le sentenze della Corte hanno nel tempo contribuito a limare alcune delle maggiori asperità del regime differenziato.

Difatti fin dalle pronunce[16] Calogero Diana e Domenichini, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva rilevato le significative criticità con riferimento all’art. 8, quanto al controllo della corrispondenza dei ricorrenti sottoposti a regime differenziato, per la mancanza di base legale per consentire l’interferenza (possibile durata del provvedimento di controllo e motivazioni sottese alla emissione del medesimo) e l’assenza di un rimedio giurisdizionale accessibile: del resto, la Corte di Cassazione all’epoca affermava che “le contrôle de la correspondance d’un détenu constitue un acte de nature administrative; elle a aussi affirmé que le droit italien ne prévoit pas de voies de recours à cet égard, le visa de censure ne pouvant notamment pas faire l’objet d’un pourvoi en cassation, car il ne concerne pas la liberté personnelle du détenu[17]. Un secondo aspetto oggetto di molteplici pronunce, anch’esso sintomatico di una problematica per lungo tempo generalizzata, riguarda la violazione dell’art. 6 CEDU inteso come diritto di accesso a un Tribunale. Dalla sentenza Ganci[18] si cominciava ad evidenziare la criticità dei tempi di trattazione dei reclami avverso i decreti applicativi del regime differenziato da parte dei Tribunali di Sorveglianza e della Corte di Cassazione. Nel caso del ricorrente, che aveva impugnato otto dei nove decreti ministeriali, si giungeva in quattro casi a pronunce nelle quali veniva dichiarata la carenza di interesse del reclamante, poiché nel frattempo era intervenuto un nuovo decreto di rinnovo.

Proprio a seguito della pronuncia Ganci e della riforma introdotta con L. 23 dicembre 2002, n. 279, che stabilizzava il regime differenziato nell’Ordinamento Penitenziario, la Cassazione era intervenuta modificando la propria giurisprudenza precedente e ritenendo che un detenuto abbia comunque interesse ad ottenere una decisione, anche se il periodo di validità del decreto impugnato sia scaduto, in considerazione degli effetti diretti della decisione sui decreti successivi al decreto impugnato.

A parte i due aspetti evidenziati, la Corte europea non ha mai individuato violazioni convenzionali nell’esistenza in sé del regime differenziato e, anche quando interpellata per specifiche situazioni dei ricorrenti, ha sempre respinto le doglianze, ritenendo non superata quella soglia di gravità richiesta per la violazione sostanziale del predetto articolo.

Una novità in materia è tuttavia giunta dalla sentenza Provenzano contro Italia[19]. In tale caso la condanna comminata dalla Corte riguarda la carenza motivazionale del decreto di rinnovo del regime del carcere duro, che comunque ha esplicato i propri effetti dal momento dell’emissione fino al decesso del ricorrente, avvenuto prima della celebrazione dell’udienza del Tribunale di Sorveglianza e quindi in una c.d. zona grigia. Orbene nella sentenza Provenzano sussiste quindi una presa di posizione della Corte europea non sul regime differenziato in sé, quanto piuttosto una evidenziazione di punti critici che riguardano le modalità di applicazione del regime stesso dal momento della sua inflizione ministeriale e la effettività di una impugnazione di legittimità sempre più dubbia e controversa[20].

4. La parola alla Corte di Cassazione.

Evidenziata la cornice normativa e giurisprudenziale, per ovvie ragioni in maniera sintetica, all’interno della quale si inserisce la questione dell’affettività di un soggetto detenuto, appare ora opportuno soffermarsi sulla pronuncia della Corte di Cassazione[21] in merito al rapporto tra tale diritto e l’art. 41-bis O.P..

La sentenza origina dal ricorso per cassazione presentato dall’Amministrazione penitenziaria contro il decreto emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Roma che, provvedendo ai sensi dell’art. 35-bis, c. 4, O.P.,  aveva accolto il reclamo avanzato dal detenuto in regime penitenziario differenziato, avverso il diniego, opposto dalla Direzione di istituto, alla sua richiesta di consentirgli la ricezione in abbonamento di riviste per soli adulti, non inserite nell’elenco delle pubblicazioni acquistabili mediante sopravvitto.

Il gravame concerneva l’esercizio, da parte del Tribunale, di potestà non spettanti e la violazione di legge, in quanto l’art. 41-bis, c. 2-quater, lett. c), O.P. consente di introdurre limitazioni concernenti gli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno da parte di detenuti assoggettati a regime detentivo speciale, posto che lo scambio di oggetti costituisce uno dei mezzi tramite cui può essere alimentato e perpetuato un flusso di comunicazioni. Inoltre la Circolare dipartimentale del 2 ottobre 2017 limiterebbe la disponibilità delle riviste a solo quelle inserite nel modello 72 che esclude quelle pornografiche poiché al loro interno possono facilmente trovare posto messaggi gratuiti, o a pagamento, inseriti da privati, funzionali all’instaurazione di forme di comunicazione criptiche e dunque pericolose. Secondo l’Amministrazione penitenziaria quindi tale negazione non pregiudicherebbe il diritto alla sessualità, intesa come particolare forma di relazione interpersonale, e che la visione di immagini erotiche non sia essenziale alla sfera sessuale e all’equilibrio psico-fisico.

Per la difesa del condannato invece le limitazioni d cui all’art. 41-bis O.P. sarebbero giustificate solo in rapporto alla necessità di impedire relazioni pericolose di tali detenuti con l’esterno, e quindi non sussisterebbe alcun nesso tra tale esigenza e la possibilità che i detenuti medesimi vengano ammessi alla visione di riviste pornografiche.

La Corte, nel ritenere meritevole di accoglimento il ricorso, afferma in via preliminare che: “E’ a partire da tale constatazione che la giurisprudenza di questa Corte, da tempo, ammonisce a non confondere il diritto soggettivo del detenuto, nel suo nucleo intangibile, cui è garantita protezione, con le mere modalità di esercizio di esso, inevitabilmente assoggettate a regolamentazione (Sez. 1, n. 23533 del 07/07/2020, Mandala, Rv. 279456-01; Sez. 7, n. 7805 del 16/07/2013, dep. 2014, Attanasio, Rv. 260117-01; Sez. 1, n. 767 del 15/11/2013, dep. 2014, Attanasio, Rv. 258398-01). La sola negazione del diritto in quanto tale integra lesione suscettibile di reclamo giurisdizionale, mentre le modalità di esplicazione del diritto restano affidate alle scelte discrezionali dell’Amministrazione penitenziaria, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne, che, ove non manifestamente irragionevoli, ovvero sostanzialmente inibenti la fruizione del diritto, non sono sindacabili in sede giudiziaria (Sez. 7, n. 373 del 29/05/2014, dep. 2015, Attanasio, Rv. 261549-01)”.

Con particolare riferimento alla disciplina del c.d. carcere duro, si evidenzia che il regime è volto a far fronte alle esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza esterne al carcere, connesse alla lotta alla criminalità organizzata, terroristica ed eversiva, e ad impedire, in particolare, i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà; collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno, che l’ordinamento penitenziario normalmente favorisce quali strumenti di reinserimento sociale. In sostanza la ratio della disposizione è evitare che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa.

Di conseguenza l’Amministrazione penitenziaria ha dettato disposizioni attuative del precetto generale, con riferimento all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale, stabilendo che qualsiasi tipo di stampa possa essere acquistata dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla Direzione.

L’Amministrazione penitenziaria godrebbe quindi di una forte autonomia nell’applicazione dei principi dell’ordinamento penitenziario, così come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità che, da ultimo, ha ribadito che: “Questa Corte ha più volte riconosciuto all’Amministrazione penitenziaria la spettanza di un potere regolamentare per la concreta applicazione delle restrizioni; potere che deve essere esercitato nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, senza rendere inutilmente gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (tra le altre, Sez. 1, n. 4030 del 04/12/2020, dep. 2021, Ministero della Giustizia, Rv. 280532-01; Sez. 1, n. 1774 del 29/9/2014, dep. 2015, Tarallo, Rv. 261858-01; Sez. 1, n. 46783 del 23/9/2013, Gullotti, Rv. 257473-01)”.                                      Quindi le prescrizioni ministeriali non pregiudicano in modo significativo il diritto del detenuto ad informarsi e a studiare attraverso la lettura di testi, in quanto non ne precludono la ricezione, ma la indirizzano verso canali sicuri onde impedire una loro utilizzazione in funzione elusiva delle restrizioni connesse al regime speciale, e in particolare per effettuare scambi di messaggi criptici non facilmente individuabili dal personale addetto alla censura.

Secondo il Supremo Collegio inoltre non si potrebbe obiettare che per le limitazioni nella ricezione della stampa l’art. 18-ter, c. 1, lett. a), O.P. esige l’intervento dell’Autorità giudiziaria, posto che tale disposizione generale non esclude forme ulteriori di limitazione, aventi pur sempre base legale, che discendano dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis O.P..

Se quindi tale ragionamento concerne tutti i tipi di pubblicazioni, con riferimento alle riviste pornografiche la Corte ritiene di accogliere le ragioni di diniego presentate dall’Amministrazione penitenziaria.        Difatti, dal punto di vista pratico, l’approvvigionamento risulterebbe alquanto complesso a causa della difficile reperibilità del prodotto sul mercato delle edizioni cartacee a seguito dell’aumento esponenziale delle tecnologie digitali e per l’assenza di significativa domanda da parte della popolazione detenuta.

Inoltre sussisterebbe la concreta possibilità che all’interno delle pubblicazioni trovassero ampio spazio annunci e messaggi privati, gratuiti o a pagamento, nonché inserzioni pubblicitarie a sfondo sessuale, dietro i quali celare messaggi criptici, di non agevole decifrazione, pregiudizievoli per l’ordine e la sicurezza pubblica e tali da aggirare le finalità del regime speciale.

Infine, con riferimento al diritto alla sessualità dei detenuti, i giudici di legittimità rimandano al legislatore, in virtù dei delicati interessi meritevoli di tutela, la decisione su come risolvere la questione.

Ritiene tuttavia il Supremo Collegio che: “L’autoerotismo esula da tale problematica. Anche a volerlo considerare un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata, esso non è impedito – di per sé – dallo stato detentivo. La fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile, sicché non può ragionevolmente affermarsi che, attraverso il pratico disconoscimento di una tale eventualità, poggiante sull’assetto e sulle caratteristiche dello speciale regime di detenzione, passi la negazione di un diritto inviolabile della personalità”.

Si deve quindi ritenere che l’inibizione all’ingresso in istituto di riviste per soli adulti, così come disciplinato dall’art. 41-bis. O.P., risponde a finalità di ordine e sicurezza pubblica non arbitrariamente perseguite, non sussistendo alcuna violazione di un diritto fondamentale di rilevanza costituzionale.

La Corte di Cassazione ha quindi annullato senza rinvio l’ordinanza oggetto di gravame.

 

5. Brevi note riflessive.

La pronuncia della Suprema Corte rappresenta solamente la punta dell’iceberg di una problematica che a prima vista potrebbe risultare non importante ed anzi foriera di facile ironia, ma che nella realtà dei fatti costituisce una problematica non di poco conto. Da una parte infatti vi è l’esigenza anche l’imposizione che deriva dalla norma di cui all’art. 41-bis O.P. di impedire che soggetti, condannati per gravi delitti di mafia e terrorismo, possano mantenere od instaurare contatti con l’ambiente esterno, mantenendo o aumentando il loro grado di influenza criminale; dall’altra vi è la questione circa l’affettività e la sessualità di un soggetto detenuto che, se fatta rientrare nell’alveo del diritto alla salute, necessita di adeguata e meritevole tutela.

Correttamente, recependo lo stato degli atti e le disposizioni in vigore, la Corte ha affermato che spetta al legislatore provvedere mediante l’introduzione o la modifica delle attuali norme in materia di esecuzione penitenziaria. La difficoltà non tanto di poter reperire il materiale pornografico in forma cartacea, quanto piuttosto di sottoporre a controllo i contenuti delle riviste che ben potrebbero celare messaggi, ordini, direttive ed altro, ha indotto prima l’Amministrazione penitenziaria e poi la Suprema Corte a ritenere di non fornire tali pubblicazioni ai detenuti. Pubblicazioni che consisterebbero solamente in un mezzo migliore per esplicare la sessualità mediante l’autoerotismo, e non l’elemento essenziale senza il quale sussisterebbe un’ingiusta compressione della sfera sessuale del singolo.

Spetterà quindi al legislatore porre in essere tutte le accortezze che saranno ritenute necessarie per contemperare le esigenze contrapposte.

L’immagine è tratta da pixabay.

 

[1] Si tratta della raccomandazione n.1340 (1997) dell’assemblea generale sugli effetti sociali e familiari della detenzione, della raccomandazione r(2006) 2 del comitato dei ministri, sulle regole penitenziarie europee,  ed ancora della raccomandazione del parlamento europeo n. 2003/2188 (ini) del marzo 2004, sui diritti dei detenuti nell’unione europee.

[2] T. Grieco, La Corte Costituzionale sul diritto dei detenuti all’affettività ed alla sessualità, in DPC, 17.01.2013 link.

[3] S. Talini, L’affettività ristretta, in Costituzionalismo.it, 2015, fasc. 2.

[4] A. La Villa, Diritto all’affettività e alla sessualità: la realtà del Canton Ticino tra prassi e norma, in La dimensione dell’affettività in carcere. Uno studio sulla sessualità, la genitorialità e possibilità di procreazione nel sistema penitenziario, in Quaderni ISSP, n. 13, 2015, p. 73 ss.

[5] S. Talini, op. cit..

[6] M. Salerno, Affettività e sessualità nell’esecuzione penale: diritti fondamentali dei detenuti? L’atteggiamento Italiano su una questione controversa, in Giur. Pen., 2017, n. 6, link.

[7] In Dickson c. Regno Unito, inizialmente la Corte si pronunciò contro la violazione dei diritti del detenuto che chiedeva la possibilità di fecondare in vitro, giustificando tale decisione sulla base di ragioni legate alla natura violenta del reato commesso e al benessere del nascituro; nel 2007 la Grande Camera ha dato segni di apertura, ribaltando la precedente decisione.

[8] Corte EDU, Grande Camera, Khoroshenko c. Russia, Joint concurring opinion dei giudici Pinto De Albuquerque e Turković, §17

[9] M.E.Salerno, Affettività in carcere e diritto alle visite familiari. A Strasburgo, tra affermazioni di principio e tutela effettiva, in Giur. Pen., 2019, n. 2-bis, link.

[10] Sul punto si è parlato di imprisonment within prison.

[11] In riferimento al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., la CEDU aveva più di una volta evidenziato il contrasto tra il diritto al mantenimento delle relazioni affettive e le norme dell’ordinamento penitenziario che disciplinavano la corrispondenza dei detenuti, nella misura in cui queste non prevedevano, né la durata delle misure di controllo della corrispondenza dei detenuti, né i motivi che potevano giustificarle e non indicavano con sufficiente chiarezza l’ampiezza e le modalità di esercizio del potere di apprezzamento delle autorità competenti nel campo in questione; in tal senso decisione Diana c. Italia, 15 novembre 1996; Domenichini contro Italia, 15 novembre 1996; Rinzivillo c. Italia, 21 dicembre 2000; Natoli c. Italia, 9 gennaio 2001; Di Giovine c. Italia, 20 luglio 2001; Labita c/Italia 6/4/2000; Musumeci c/Italia, 11 gennaio 2005; De Pace c/Italia, 17 luglio 2008 Piacenti c/Italia 7 luglio 2009. In tali occasioni, la Corte europea ha ricordato che l’art. 8 della CEDU assicura ad ogni persona il «diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza», consentendo ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto solo se previste dalla legge e costituenti misure necessarie, in una società democratica, «alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Il legislatore ha quindi provveduto ad una modifica delle regole attraverso l’introduzione nell’ordinamento penitenziario dell’art. 18 ter (introduzione avvenuta per effetto della legge n.95 del 2004). In tal modo è stata introdotta una tutela rafforzata della corrispondenza dei condannati da intendere come espressione del diritto di “comunicare il proprio pensiero” e/o di ricevere quello dei soggetti con cui si mantengono relazioni affettive”, nel quadro più generale del diritto alle relazioni affettive, “intangibile” anche in rapporto alle forme di restrizione più intensa della libertà personale, pur se correlata a reati di particolare gravità e al contenimento della accertata pericolosità; diritto che ha trovato ora riconoscimento normativo in una più ampia versione, nella legislazione ordinaria per effetto della norma di cui all’art. 1 comma 85 lettera n, della legge delega n. 103/2017 che prevede appunto che il Governo provveda al “riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplini le “condizioni generali per il suo esercizio”. L’art. 18-ter ord. pen., prevede, ora, un obbligo specifico di motivazione e un limite temporale stringente, salva la possibilità di proroghe, in ogni caso autonomamente motivate; in questo modo possono dirsi superati i rilievi mossi alla legislazione italiana alla disciplina della corrispondenza delle persone incarcerate che prevedeva bensì l’intervento dell’autorità giudiziaria, ma con provvedimento motivato genericamente sulle esigenze di sicurezza e privo di limiti temporali.

[12] A. Della Bella, Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis O.P., Milano, 2016.

[13] S. Romice, Brevi note sull’art. 41 bis O.P., in Giur. Pen., 2017, n. 12 link.

[14] F. Fiorentin, Regime speciale del 41.bis e diritto di difesa: il difficile bilanciamento tra i diritti fondamentali, in Giur. cost., 2013; V. Manes, V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in DPC, 2013.

[15] G.P.Dolso, Corte costituzionale, 41-bis OP e sindacato di ragionevolezza. Note a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018, in Giur. Pen., 2020, n.1-bis, Dentro il 41-bis, link.

[16] Calogero Diana c. Italia, 21.10.1996, ric. n. 15211/89; Domenichini c. Italia, 15.11.1996, ric. n. 15943/90.

[17] Calogero Diana, cit., par. 21. Il riferimento nella pronuncia della Corte EDU è alle sentenze di Cassazione penale n. 3141 del 14.2.1990 e n. 4687 del 4.2.1992

[18] Ganci c. Italia, 30.10.2003, ric. n. 41576/98.

[19] Corte Europea Dei Diritti Dell’uomo, Prima Sezione, Provenzano C. Italia, Ric. N. 55080/13, 25 Ottobre 2018.

[20] M.S.Mori, A Strasburgo c’è un Giudice anche per i capimafia: con Provenzano non cade ma scricchiola il 41-bis, in Giur.Pen., 2020, n.1-bis, Dentro il 41-bis, link.

[21] Cass. Pen., Sez. I, 11.10.21, n. 36865.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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