giovedì, Novembre 7, 2024
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Sentenza storica: i Khmer rossi colpevoli di genocidio

Sentenza storica: il regime cambogiano della Kampuchea democratica – che provocò circa due milioni di morti tra il 1975 e il 1979 – è stato giudicato colpevole di genocidio dal tribunale speciale per la Cambogia (ECCC), ponendo termine a una controversia durata più di vent’anni. Dal 1948, quando con la Convenzione di Ginevra [1] si è adottata una definizione normativa di “genocidio” [2], questo crimine era stato riconosciuto dai tribunali internazionali solo nei casi di sterminio dei tutsi in Ruanda nel 1994 e dei bosniaci a Srebrenica nel 1995.

Nello specifico, lo scorso 16 novembre l’Eccc ha condannato Khieu Samphan e Nuon Chea – rispettivamente capo di stato e principale consigliere di Pol Pot – all’ergastolo per il “genocidio” della minoranza vietnamita di Cambogia e dell’etnia musulmana cham.

Dopo 283 giorni di udienze, 114 testimoni e 63 parti civili ascoltati in prima istanza, si è, dunque, giunti al verdetto. Mentre la difesa ha già annunciato che ricorrerà in appello, ulteriori indagini continuano a subire ritardi a causa del disinteresse di alcuni magistrati, oltreché delle autorità cambogiane a giudicare i restanti membri del regime. Anche le Camere straordinarie sono state ampiamente criticate per la mancanza di indipendenza e la corruzione dei magistrati cambogiani che ne fanno parte – il tribunale è formato da 17 giudici cambogiani e 13 internazionali [3].

Un primo processo era iniziato il 17 ottobre 2014, a Phnom Penh. Nuon Chea, 88 anni, è considerato l’ideologo del regime maoista cambogiano guidato da Pol Pot – morto nel 1998 senza mai finire davanti a un tribunale – ed era soprannominato “il fratello numero 2″. Khieu Samphan, 83 anni, è stato presidente della Kampuchea Democratica dal 1976 al 1979. Secondo i dati raccolti, durante i quattro anni in cui i Khmer rossi hanno governato, circa mezzo milione di Cham e ventimila vietnamiti hanno perso la vita. Il tribunale ha, inoltre, distinto le abominevoli tecniche di tortura ed esecuzione utilizzate nel genocidio: soffocamento con sacchetti di plastica, asportazione di unghie, scosse elettriche, colpi di bastone sulla nuca, annegamento sono solo alcune di queste.

Il tutto ebbe inizio dopo la guerra civile, terminata il 17 aprile 1975 con la sconfitta del generale Lon Nol, sostenuto dagli USA. L’esercito dei Khmer Rossi – divisione dell’esercito popolare del Vietnam del Nord – prese il potere e, guidato dal leader Pol Pot, costrinse in 72 ore gli abitanti della capitale a trasferirsi in zone rurali. Invero, secondo la mentalità comunista, il lavoro agricolo e l’assoggettamento ad un regime di vita che non prevedeva salari, diritti o turni di riposo erano nobilitanti. Si calcola che tra il 1977 e il 1979 circa 650.000 Khmer delle città e circa 675.000 Khmer delle campagne perirono ad opera dei Khmer rossi. Esecuzioni, schiavitù, malattie, inesistenza di cure mediche e turni massacranti di lavoro nei campi: queste le principali modalità di attuazione del massacro. Chiunque professasse un mestiere di cultura fu fatto prigioniero o eliminato: la cultura era nemica del “Regime Democratico della Kampuchea”, e per questo doveva essere estirpata. Lo scopo era la creazione di una società agricola controllata, ideologia che faceva parte del marxismo e dell’estremismo nazionalista Khmer. In cinque anni fu eliminato quasi un quarto della popolazione cambogiana. Le stime sull’entità del genocidio si aggirano, infatti, attorno al 20% dell’intera popolazione censita nell’aprile del 1975. Si tratta quindi di circa un milione e mezzo di morti (Rapporto del Gruppo di Esperti per la Cambogia, istituito in virtù della risoluzione n. 52/135 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 16 marzo 1999). Quando nel 1979 gli Khmer rossi lasciarono il Paese, furono sostituiti da un governo di coalizione di disertori comunisti.

Già nel 1979 il capo del movimento e il ministro degli esteri (Pol Pot e Ieng Sary) erano stati condannati a morte in contumacia per crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa, omicidio e tortura. In quell’occasione si domandò a John Quigley – giurista statunitense – se potesse effettivamente sussistere la definizione di genocidio per i fatti accaduti, secondo i canoni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948. Quigley rispose affermativamente, nonostante alcune discordanze nella definizione: i crimini commessi tra il ‘75 e il ‘79 erano stati perpetrati da cambogiani contro il loro stesso popolo, rendendo inapplicabile la definizione di genocidio come insieme di reati finalizzati alla distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Dappiù, al conflitto storico si aggiunsero svariate questioni politiche. Fino agli accordi di pace di Parigi del 1991 [4], il blocco occidentale si rifiutò di riconoscere il nuovo regime cambogiano comunista, di modo che il seggio della Cambogia all’ONU rimase occupato da Ieng Sary. Fu quindi difficile, in quel momento, far passare gli eventi accaduti come “genocidio”.
Solo nel 1994 il Parlamento cambogiano mise ufficialmente fuori legge i Khmer rossi e il Congresso statunitense approvò una legge che ne riconosceva il genocidio – The Cambodian genocide justice Act.

Infine, per la complessità del caso, l’Eccc ha preferito suddividerlo in due processi distinti, il già citato del 2014 – con l’imputazione di generici crimini contro l’umanità – e, in seguito, uno più specifico con l’accusa di vero e proprio genocidio nei confronti dei musulmani chan e dei vietnamiti. La sentenza del 16 novembre chiude così un controverso dibattito, con Nuon Chea e Khieu Samphan condannati per la seconda volta al carcere a vita. Secondo il vicedirettore della sezione Asia di Human rights watch, Phil Robertson, “questa condanna sancisce definitivamente che in quegli anni è stato perpetrato un genocidio mentre il mondo guardava da un’altra parte. Si tratta di un evento fondamentale per la giustizia internazionale”.

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[1] Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, 9 dicembre 1948, disponibile a:

[2] “Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.”

[3] “Questa tipologia di tribunali non rientra né in quella dei tribunali internazionali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta (Ex Yugoslavia e Ruanda) e della Corte penale internazionale (Statuto di Roma del 1998) né in quelli rientranti pienamente nelle giurisdizioni nazionali (dal processo a Pinochet in Spagna, al processo a Ariel Sharon in Belgio, al processo per i desaparesidos in Argentina). Si tratta di una “terza via” nell’ambito del sistema giurisdizionale per la repressione dei crimini internazionali: i cosiddetti “Tribunali misti”. Insieme alle Camere Straordinarie per i crimini dei Khmer rossi, pensiamo alla Corte Speciale per la Sierra Leone, al Tribunale per Timor Est e al “Programme of International Judicial Support” per il Kossovo.”
Disponibile a: https://www.difesa.it/Giustizia_Militare/Rassegna/Bimestrale/2005/Pagine/Palumbo-Camere-straordinarie.aspx 

[4] Agreement on a Comprehensive Political Settlement of the Cambodia Conflict, 23 ottobre 1991, disponibile a: https://www.usip.org/sites/default/files/file/resources/collections/peace_agreements/agree_comppol_10231991.pdf

Sabrina Certomà

Classe 1996, laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università degli studi di Trieste. Studentessa presso la Scuola di giornalismo Lelio Basso a Roma. Collaboratrice dell'area di diritto internazionale con particolare interesse per i diritti umani.

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