venerdì, Marzo 29, 2024
Uncategorized

I servizi pubblici come parte essenziale dello Stato: gli interventi del Legislatore

La fase storica delle società partecipate e dei servizi pubblici a cui si sta assistendo si presenta irta di significative novità. Rimanendo al piano strettamente giuridico, basti riflettere sull’importanza dei recenti decreti correttivi che, pur in assenza di un’ampia risonanza mediatica, hanno provveduto ad aggiornare per la prima volta in modo complessivo la Legge delega 124 del 2015 alla luce della sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale, come già affrontato in precedenti contributi.

La stessa produzione normativa di derivazione eurounitaria appare in costante divenire, con una crescente proliferazione, non solo degli atti normativi di “sistema”, ma anche di quei documenti paranormativi che finiscono inevitabilmente per condizionare gli orientamenti interpretativi. In un contesto del genere, la politica economica dal 2007 ad oggi appare perseguire un indirizzo coerente politico di sfavor esplicito dell’assunzione della partecipazione societaria di un soggetto pubblico, assumendo un atteggiamento di fondo fortemente punitivo.

Basti richiamare, per maggior chiarezza, i commi da 1 a 7 dell’art. 9 del d. l. 95/2012 convertito dalla l. 135/2012 in cui si utilizza in una norma il termine “soppressione”, raffigurando una sorta di rancore da parte del Legislatore nei confronti delle società a partecipazione pubblica.  Il servizio pubblico non dovrebbe essere considerato come una variante dello Stato, ma come una parte essenziale dello stesso. Risulta invece, ancora difficoltoso individuare le competenze dei soggetti che operano come enti locali per la poca chiarezza delle norme: dovrebbero essere gli enti esponenziali della comunità di riferimento individuando i bisogni da soddisfare nell’ipotesi in cui il normale funzionamento del mercato non garantisca gli adeguati livelli, principio espresso nello schema del decreto sui servizi pubblici.

Si pensi, inoltre, alle difficoltà di dare una giusta qualificazione al cosiddetto “interesse nazionale”, non reperendosi parametri certi al fine di comprendere quando la sua salvaguardia corrisponda ad un interesse generale e quando, invece, essa si presenti come un mero “capriccio” di tipo politico. Infine, si considerino le complessità che si collocano dietro l’interesse strategico allo sviluppo delle grandi infrastrutture nazionali e transanzionali.

Occorrerebbe, in questo senso, domandarsi in che misura i rapporti di stretta proporzionalità che dovrebbero intercorrere tra intervento pubblico nei servizi pubblici e mercato vengano condizionati da logiche di investimento che sono in parte riconducibili a quell’ottica di breve/medio periodo che, di norma, muove l’interesse lucrativo privato ed alla quale rischia di essere parametrato il tasso di efficienza con cui vengono forniti i pubblici servizi. Ebbene, tutti questi interrogativi sembrano muoversi dietro l’alternativa tra incentivazione dell’efficienza e salvaguardia dell’universalità. Al momento, parrebbe che l’ordinamento italiano continui a privilegiare il primo dei due valori richiamati (in contrasto con l’Unione Europea); eppure manca nell’ordinamento una impostazione di più ampio respiro in grado di coordinare le logiche connaturate al pubblico servizio con gli interessi di difficile qualificazione a cui in precedenza si è fatto riferimento.

Esaminando lo schema di decreto sui servizi pubblici locali, si evince che quest’ultimo, sotto il profilo del rapporto di responsabilità dei vari soggetti, dia risposte limitate, restringendo in modo eccessivo le eccezioni e le deroghe nell’ambito delle applicazioni del decreto stesso. L’ente locale dovrebbe riappropriarsi della responsabilità per individuare le necessità di adottare il servizio tenendo conto delle risorse che si hanno a disposizione. Risulterebbe pertanto necessario integrare il sistema della tutela degli utenti: al momento ne esiste uno ex ante attribuito alle autorità di regolazione, ma che sembra non sufficiente perché i gestori sono imprenditori che operano nell’interesse dell’impresa e  nel loro operato minano il rapporto tra cittadino e istituzione. Per quanto riguarda la fornitura di servizi pubblici locali, il tema centrale è l’apporto che possono dare i privati nel principio di sussidiarietà, nell’autonomia dei singoli nello svolgimento di attività di interesse generale garantito dalla costituzione.

Tale obiettivo sarebbe raggiungibile con una normativa più chiara e con una definizione dei ruoli più netta, con una maggiore trasparenza delle Pubblica Amministrazione e un maggior dialogo con la società civile. Ciò sarebbe realizzabile dal Legislatore con il ricorso a clausole generali, lasciando agli operatori che interpretano le norme e alla giurisprudenza che sedimenta la normativa. In tal senso, il Testo unico è considerabile come un libro bianco: quando si parla di riempire di contenuto un provvedimento normativo significa anche analizzarlo con riferimento al grado dell’ampiezza dell’attività ermeneutica dell’operatore che poi si trova a applicarlo.

In taluni settori produttivi di rilevanza pubblicistica, i meri interventi del regolatore pubblico non possono considerarsi sufficienti al fine di dare soddisfazione ai molteplici interessi concretamente coinvolti. Non è un caso, in tal senso, che molte dismissioni siano state “inquinate” dalla previsione di importanti poteri di tipo gestorio, esercitabili dall’Amministrazione mediante il discusso strumento delle golden shares.

Saverio Massimo Giannini aveva espresso aspre critiche nei confronti delle partecipazioni statali per una caratteristica che le improntava e le collocava in un contesto che le esulava dalla naturale struttura del rapporto pubblicistico, impiegando strumenti privatistici per sottrarre un’attività amministrativa al regime inderogabile che la deve improntare. Le società pubbliche sono un fenomeno tipico del diritto privato in funzione delle finalità e della partecipazione a carattere pubblicistico.

I modi dell’intervento possono essere diversi: interesse pubblico presidiato da un interesse di settore che tuttavia non incide sulla disciplina interna della società che resta a tutti gli effetti un soggetto di diritto privato, partecipato anche da privati ma investito di munera pubblicistici attraverso rapporti concessori; disciplina pubblicistica che incide dall’interno, come con la disciplina delle società pubbliche. La scelta del modello privatistico si giustifica con l’esigenza di applicare le norme proprie di quel modello, cioè un regime di libertà operativa. D’altro canto, si ritiene che ogni vantaggio astrattamente conseguibile con le privatizzazioni non possa non essere attentamente ponderato con i vincoli e le difficoltà esaminate.

Le società in house, pertanto, non sono che strumenti essenzialmente di organi pubblici che le impiegano per l’esercizio di servizi pubblici in luogo di eventuali altri strumenti che potrebbero impiegare per la stessa finalità. Ciò è confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte quando dice che il controllo dell’azione di responsabilità degli amministratori delle società in house è rimessa alla Corte dei Conti, come se fosse un ente pubblico. Il criterio di fondo emerge dalla disciplina dettata del d. lgs. n. 165/2016 che fissa un rapporto di generalità e specialità tra le norme, disciplinando che le società sono comunque rette dalle norme del codice civile, nonostante le legislazioni speciali.

Questo contesto normativo risulta essere la base su cui fondare la valutazione preventiva e successiva e considerando in via di specialità e di eccezionalità le norme le quali si riferiscono a società caratterizzate da determinate finalità o da determinate strutture partecipate. Dovrebbe quindi intervenire una proporzionalità delle deroghe al codice civile, ricorrendo al diritto pubblico speciale solo quando è indispensabile la sua applicazione.

Il Legislatore ha preso atto di come, in assenza di interventi organici, il proliferare delle gestioni pubblicistiche costituisca un significativo ostacolo sul piano dell’apertura dei mercati, impedendo all’impresa privata di poter essere messa alla prova. Non può infatti sostenersi che ogni contesto locale rilevi effettivamente in quanto mercato contendibile; tuttavia, tale costatazione non giustificherebbe quella totale sfiducia rispetto alle dinamiche concorrenziali che, sia sul piano giuridico sia sul piano sostanziale, finisce per lasciare intatte le posizioni di rendita acquisite dalla produzione di stampo pubblicistico.

Il modello italiano, nell’affrontare la questione, ha preferito optare per dei modelli di centralizzazione debole precludendo che funzioni strategiche potessero consolidarsi in capo ad un apparato istituzionale in grado di tradursi in un efficiente strumento per il sostegno delle politiche economiche del Paese. Con l’abbandono degli enti di gestione e l’avvio delle privatizzazioni, l’uso sistemico è stato rapidamente soppiantato dall’uso diretto della società, manifestando tutte le contraddizioni di un sistema ispirato da modelli privatistici puntualmente alterati. Lo strumento societario è stato così piegato alle più disparate esigenze, condizionando i successivi approcci normativi alla materia che si fondano sul presupposto che il più delle volte il fenomeno si colleghi all’obiettivo di eludere specifici vincoli pubblicistici.

Dall’analisi effettuata emerge dunque l’indicazione di una pluralità di ragioni che sosterrebbero la rivalutazione del ruolo gestorio dello Stato: il presupposto essenziale affinché tale prospettiva possa realizzarsi passa attraverso un generale riallineamento dell’impresa in pubblico comando alle sue vocazioni originarie. Essa, secondo l’intento del Legislatore, dovrebbe tornare a essere lo strumento principale dell’intervento pubblico in economia, in quanto veicolo attraverso il quale dare soddisfazione agli interessi pubblici che ancora rilevano nell’ambito di alcuni comparti produttivi.

Tali interessi, evidentemente, non dovrebbero più essere confusi con obiettivi particolaristici, come per lungo tempo accaduto: solo in questo modo, l’impresa pubblica può dunque sperare di riassumere il ruolo che le compete, ruolo di cui si ritiene che gli assetti giuridico-economici nazionali ancora necessitino, anche e soprattutto per perseguire le finalità di natura pubblicistica con i mezzi organizzativi più adeguati e non mediante congegni societari ibridi, incoerenti ed improvvisati.

I primi sintomi di un’inversione di tendenza possono comunque rinvenirsi nell’approccio seguito dal Testo unico sulle società partecipate. I maggiori interventi del predetto approccio si collegano al tentativo di disciplinare alcuni aspetti delle funzioni delle società partecipate e delle società in house.

Gianluca Barbetti

Gianluca Barbetti nasce a Roma nel 1991. Appassionato di diritto amministrativo,ha conseguito la laurea in Legal Services con una tesi sui servizi pubblici locali, con particolare attenzione alle società partecipate. Durante il percorso di studi, ha svolto diverse attività parallele per completare la propria formazione con approcci pratici al diritto, come Moot Court in International Arbitration e Legal Research Group. E' curatore e coautore di due opere pubblicate e attualmente in commercio.

Lascia un commento