giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Si possono utilizzare i messaggi di WhatsApp come prova documentale? Risponde la Corte di Cassazione

Uno dei mezzi di comunicazione al giorno d’oggi più diffuso è quello che avviene tramite l’utilizzo di dispositivi elettronici, specialmente smartphones e tablets, con i quali si possono comodamente inviare e ricevere istantaneamente messaggi di testo e multimediali, ovunque e con chiunque nel mondo. Tra questi, c’è un’applicazione in particolare che ha spopolato in ogni parte del mondo, sostituendo in molti paesi, quasi totalmente, l’invio dei semplici sms tramite operatore telefonico, e questa prende il nome di WhatsApp.

Di pari passo rispetto al progresso tecnologico, fortunatamente, opera il diritto penale, il quale recentemente si è arricchito di una novità, proprio per effetto delle molteplici richieste di adeguamento al progresso informatico da parte degli utenti utilizzatori della tecnologia.

WhatsApp

La Suprema Corte, infatti, con sentenza n. 49016 depositata il 25/10/2017 dalla sez. V, ha segnato una rilevante svolta in tema di prove nel processo penale, stabilendo che ai fini dell’uso delle chat avvenute tramite WhatsApp come prova giudiziale, sia fondamentale acquisirne il supporto telematico (elettronico), cioè la fonte.

Il caso di specie riguarda una denuncia di un uomo per stalking, da parte di una sua ex fidanzata, nell’ambito del cui processo i difensori dell’imputato avevano intenzione di  presentare in giudizio la trascrizione dei messaggi di whatsapp intercorsi tra l’imputato e la donna, ai fini di provare che la denuncia di quest’ultima fosse inattendibile.

I giudici della Corte di cassazione hanno sancito che, se da un lato si può affermare che la trascrizione di tali conversazioni costituisca la memoria di un fatto storico, come tale utilizzabile ai fini probatori essendo una prova documentale (ai sensi dell’art. 234 c.p.p.), dall’altro, la trascrizione di una chat ha la mera finalità di riprodurre il contenuto della prova documentale (primaria). Ecco perché gli ermellini hanno concluso che soltanto esaminando la fonte elettronica dei messaggi in modo diretto, sia possibile verificare l’attendibilità della prova.

Secondo la Suprema Corte, quindi, i giudici di merito avevano valutato in modo corretto suddetta prova decidendo di non acquisire la trascrizione delle conversazioni presenti su WhatsApp e tale decisione è stata definita “ineccepibile”.

Precisamente, le parole usate dai giudici nel testo della pronuncia sono state le seguenti: “Va giudicata ineccepibile la decisione della Corte territoriale di non acquisire la trascrizione delle conversazioni svoltesi sul canale informatico denominato “whatsapp”, tra l’imputato e la parte offesa il (OMISSIS), che la difesa dell’imputato avrebbe voluto versare agli atti del processo a riprova della inattendibilità della persona offesa, che aveva sostenuto che la relazione con l’imputato si era interrotta nell'(OMISSIS). Deve, infatti, osservarsi che, per quanto la registrazione di tali conversazioni, operata da uno degli interlocutori, costituisca una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234 c.p.p., comma 1, prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo (in tema di registrazione fonica cfr. Sez. 1, n. 6339 del 22/01/2013, Pagliaro, Rv. 254814; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009, Abis, Rv. 243256), l’utilizzabilità della stessa è, tuttavia, condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale (Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016, Rv. 268730; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015 – dep. 2/02/2016, Pepi, Rv. 265624): tanto perchè occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato.”[1]

Dunque, giunti a siffatta conclusione ci si domanda: quali sono i passaggi pratici che permettono di introdurre una chat di WhatsApp in giudizio come prova?

-Innanzitutto, sarà necessario che la Corte acquisisca lo smartphone di provenienza dei messaggi, in tutti i suoi contenuti;

-In secondo luogo, il dispositivo sarà sottoposto ad un’accurata analisi, in modo da accertarne l’attendibilità.

-Infine, sarà necessaria la redazione di una relazione tecnica di informatica forense, in cui spiegare i metodi da usare ai fini di una consultazione più semplice della messagistica.[2]

 

[1] Cass. pen. sez. V, sentenza del 19 giugno 2017 (dep. 25 ottobre 2017), n. 49016. 

[2] Tratto da www.bit4law.com.

Avv. Alessia Di Prisco

Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli. Iscritta all'Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano. Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo "Il dolo eventuale", con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello. In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici. Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere. Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell'organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.

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