venerdì, Marzo 29, 2024
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Simboli religiosi a scuola? La risposta della Corte EDU

Il dibattito pubblico del nostro paese ha spesso affrontato la questione relativa all’esibizione di simboli religiosi negli edifici pubblici, in particolare nelle scuole. Non si può fare a meno di notare come, su questo tema, l’opinione di esperti, commentatori e persone comuni si sia rapidamente polarizzata tra favorevoli e contrari: chi ne approva l’esibizione parla di difesa di un nucleo di valori fondamentali, che appartengono al patrimonio culturale di una nazione intera; chi invece è favorevole alla rimozione di ogni simbolo religioso prende in considerazione un generale principio di tutela del multiculturalismo. La questione è quindi fortemente legata al concetto di identità e ai connotati che la delineano e la definiscono, in particolare quando si parla di “identità collettiva[1]; allo stesso modo, ogni possibile risposta a questo quesito implica un diverso atteggiamento dell’autorità pubblica nel gestire il rapporto con le minoranze[2].

È, quindi, molto complesso dare una risposta univoca alla domanda, considerando le implicazioni etico-religiose e il ruolo della diversa sensibilità di ciascun individuo nell’approcciarsi alla questione. Ciò però non deve ostacolare la ricerca di criteri idonei a bilanciare i diversi interessi in gioco. In questa ricerca, la giurisprudenza della Corte EDU, nonché le diverse opinioni sul tema, sono fondamentali per meglio definire la questione.

L’art. 2 del prot. 1, che garantisce il diritto all’istruzione, si pone a tutela dell’autonomia e della libera autodeterminazione dell’individuo, che deve potersi sviluppare in un ambiente neutrale: in questo senso, lo studente non deve subire indottrinamenti da parte dell’autorità pubblica negli edifici scolastici[3]. Ad una prima analisi, dunque, la norma sembra negare la possibilità di esibire simboli religiosi nelle scuole; questi possono essere, infatti, considerati come strumento di “pressione” sulle menti degli studenti, specialmente nei primissimi livelli dei percorsi educativi nazionali.

Come emerge dalla giurisprudenza della Corte sul tema (e come confermato dagli estenuanti lavori preparatori che hanno portato a questa formulazione), l’atteggiamento dei giudici di Strasburgo è sempre stato piuttosto prudente, lasciando grande margine di discrezionalità agli Stati. D’altra parte, questa prudenza non deve essere confusa con un atteggiamento di ritrosia: la Corte ha infatti sempre interpretato la norma in senso ampio ed esteso, valorizzando una tutela pratica ed effettiva del diritto convenzionale[4].

Questo atteggiamento è ben visibile nella pronuncia della Corte Lautsi e altri c. Italia[5], caso che atteneva ad un ricorso, presentato da due genitori, relativo alla presenza di crocifissi sulle pareti di una scuola veneta.

In questa sentenza, la Corte ha avuto l’occasione di analizzare la questione anche da un punto di vista continentale: ciò che ne emerge è che la maggior parte degli Stati non regola in alcun modo la presenza di simboli religiosi negli edifici pubblici; vi sono poi stati in cui ciò è espressamente vietato (ad esempio, la Francia) ed altri in cui, al contrario, la loro presenza è ammessa (segnatamente, l’Italia)[6]. In questo quadro, e alla luce del suo approccio pragmatico, la Camera, in prima battuta, ha emesso una sentenza in cui aveva riconosciuto la violazione della norma in oggetto: nell’opinione dei giudici, infatti, il fatto di esibire questi simboli religiosi limita il diritto dei parenti ad educare i loro figli in maniera conforme alle loro convinzioni e ideologie; imponendo, seppur indirettamente, questa limitazione, le autorità statali vengono meno al loro dovere di rispettare una posizione neutrale nel settore pubblico, in particolare in ambito scolastico[7]. Vi è pertanto violazione dell’art. 2 prot. 1.

La Grande Camera ha però ribaltato il risultato. Perché se è vero che le autorità e lo Stato hanno l’obbligo di garantire neutralità ed imparzialità, per favorire tolleranza e coesione all’interno della società[8], d’altra parte non esistono prove che il crocifisso, così come altri simboli religiosi “passivi”[9], abbiano effetti concreti sullo sviluppo dei più giovani, tanto da un punto di vista educativo quanto personale[10]. Ma la Corte si spinge oltre, affermando come “il crocifisso simbolizza i principi e i valori che hanno portato alla fondazione della democrazia e della civiltà occidentale, la sua presenza nelle classi è perciò giustificata sotto questo profilo.”[11]. Questa affermazione, decisiva quanto controversa, è però controbilanciata dalla considerazione finale: pur concludendo come, nel caso di specie, non vi sia violazione dell’art. 2 prot. 1, la Corte riconosce come le autorità abbiano assoluta discrezionalità nel decidere se mantenere o meno simboli religiosi negli uffici pubblici.

Come si può facilmente immaginare, la pronuncia ha portato molti ad interrogarsi non solo sulle argomentazioni utilizzate dalla Corte, ma anche sulle conseguenze della stessa sentenza[12].

Ad esempio, in un passo della pronuncia, la Corte riconosce come nelle scuole italiane le autorità non abbiano mai proibito simboli di altre religioni, come il velo, o la celebrazione di determinate festività o riti. Questo principio entra però in contrasto con altre pronunce della Corte[13] in cui invece si lascia altrettanto margine di apprezzamento alle autorità nel decidere se proibire o meno altri simboli religiosi. In Dahlab c. Svizzera la Corte ha, per esempio, statuito che il velo, se indossato da una professoressa o una maestra, “potrebbe avere una sorta di effetto di proselitismo”.

Esiste davvero una differenza, in termini di influenza, tra un crocifisso alla parete e un velo? La risposta richiede ulteriori considerazioni.

Nella sua opinione concorrente alla sentenza Lautsi, il giudice Power conferma la conclusione della Corte, affermando come “(…) l’esposizione di simboli religiosi non costringe nè forza un individuo a fare o non fare qualcosa. Non comporta alcun coinvolgimento in una qualche attività”[14].

Diversa è invece la posizione di molti altri studiosi[15], che è invece ne criticano le stesse premesse: viene infatti evidenziato come la pronuncia sia viziata da una radicale confusione tra due concetti, quello della neutralità (che ha valenza inclusiva, in quanto ispirato alla tolleranza e all’apertura in una società democratica) e quello del secolarismo (che invece tende ad escludere manifestazioni di appartenenza religiosa da determinati ambiti, come quello pubblico). In questo senso, raggiungere una vera e propria uguaglianza sarebbe possibile solo tramite una neutralità aperta, che permetta a tutte le religioni di esprimersi senza conoscere limiti di dubbia stabilità (quale, appunto, quello relativo alle capacità di proselitismo di un simbolo religioso).

È invece quantomeno criticabile l’osservazione dei giudici Rozakis e Vajić, i quali, commentando la sentenza, affermano che “nell’esposizione del crocifisso, lo Stato esercita –  a nome della società – il diritto di manifestare le proprie (quelle della maggioranza) credenze regoliose”. Il diritto di manifestare la propria religione appartiene infatti agli individui e l’obbligo delle autorità è limitato a garantire una libera espressione della stessa; in questo senso, lo Stato non ha alcun tipo di ruolo e non può manifestare una religione in vece di coloro che la praticano, anche se appartengono alla maggioranza.

Al netto delle critiche, la pronuncia della Corte ha una rilevanza enorme nella giurisprudenza della Corte sul tema e rappresenta un passaggio fondamentale nell’approccio dei giudici di Strasburgo sulla materia[16].

[1]  Per una definizione di “identità collettiva” e per un approfondimento sulle implicazioni, nel settore pubblico, del tema della collettivizzazione dell’identità si vedano Daher L. M., Che cosa è l’identità collettiva? Denotazioni empiriche e/o ipotesi di ipostatizzazione del concetto, SocietàMutamentoPolitica, Firenze University Press, 2013, vol. 4, n. 8, pp. 125 – 139.

[2] Secondo Mastromarino A., Il Federalismo disaggregativo – Un percorso costituzionale negli Stati multinazionali, Milano, Giuffré Editore, 2016, pp. 45 – 50, l’autorità pubblica può adottare quattro tipi di politiche nei confronti di minoranze e gruppi etnici, linguistici e religiosi minoritari: (a) reprimere una comunità, perseguitandola o limitandone i diritti, (b) mantenere un approccio neutrale e laico nei confronti delle rivendicazioni di ciascun gruppo, (c) concedere spazi per manifestare la propria appartenenza ad una comunità nello spazio pubblico e (d) riconoscere spazi di autonomia e autogoverno, in particolare per comunità radicate sul territorio e organizzate a livello interno.

[3] Bartole S., De Sena P., Zagrebelsky V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, CEDAM, 2012, pp. 814 e ss.

[4] Mowbray A., Cases and Materials on the European Convention on Human Rights, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 956 e ss

[5] Corte EDU, Lautsi e altri c. Italia, ricorso n. 30814/06, sentenza 18 marzo 2011.

[6] Ibid., §§26 – 27.

[7] Ibid., §32; la pronuncia della Camera è stata spesso criticata da molti studiosi, i quali hanno sottolineato come rimuovere il simbolo di una religione non eradichi eventuali discriminazioni a base religiosa e, soprattutto, non cambi la sostanza e la natura delle istituzioni; si veda in questo senso Peroni L., Lautsi and the Empty Wall, Strasbourg Observer, 8 luglio 2010; Weiler J., Lautsi: Crucifix in the Classroom Redux, EJIL Editorial, vol 21:1, 1° giugno 2010.

[8] Corte EDU, Leyla Şahin c. Turchia, ricorso n. 44774/98, sentenza 10 novembre 2005, §107.

[9] Corte EDU, Lautsi e altri c. Italia, cit., §72; sul punto la Corte afferma che “(…) crucifix on a wall is an essentially passive symbol and this point is of importance in the Court’s view, particularly having regard to the principle of neutrality. It cannot be deemed to have an influence on pupils comparable to that of didactic speech or participation in religious activities

[10] Ibid., §66.

[11] Ibid., §67.

[12] Per un commento puntuale sull’intera vicenda e sulle conclusioni delle corti italiane si veda Canonico M., Laicità ed esposizione di simboli religiosi nelle aule scolastiche: un difficile connubio, in Cassetti L., Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, Università degli Studi di Perugia, 2012, pp. 191 – 208.

[13] Si veda anche, in questo senso, Corte EDU, Dahlab c. Svizzera (dec.), ricorso n. 42393/98, decisione 15 febbraio 2001.

[14] Peroni L., Lautsi v. Italy: Possible Implications for Minority Religious Symbols, Strasbourg Observer, 31 marzo 2011.

[15] Ex multis, Taylor C., The Meaning of Secularism, The Hedgehog Review, 2010, pp. 25 – 33; Zucca L., A comment on Lautsi, EJIL: Talk!, 19 marzo 2011; Smet S., Lautsi v. Italy: the Argument from Neutrality, Strasbourg Observer, 22 marzo 2011.

[16] Jackson R., The Council of Europe and Education about Religious Diversity, in British Journal of Religious Education, vol. 31 / 2, 2009, pp. 85 – 90.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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