venerdì, Marzo 29, 2024
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Sindrome di Stoccolma: analisi criminologica e rapporto con i delitti contro la persona

Introduzione.

Con questo articolo, in generale, si andrà ad analizzare un interessante e complesso fenomeno, quello della Sindrome di Stoccolma, nell’ambito dei delitti contro la libertà personale. La storia del nostro Paese è stata segnata, per lunghi anni, da una serie di reati riconducibili alla gravissima fattispecie criminosa del sequestro di persona, almeno fino a quando la politica criminale adottata ha agito concretamente come deterrente, grazie all’introduzione della legge sul blocco dei beni dei familiari del sequestrato. Si cercherà, in particolare, di ragionare su come sia, talvolta, difficile inquadrare un fenomeno all’interno di criteri valutativi universali, soprattutto laddove l’elemento psicologico e la coazione senza ricorso a violenze fisiche rappresentino un ambito dai confini difficilmente marcabili.

Più nello specifico, per quanto attiene alla libertà personale, si tratta di un diritto inviolabile, ai sensi dell’articolo 13 della Costituzione. I delitti contro la libertà personale sono disciplinati dal Codice penale che, all’art. 605, punisce il sequestro di persona. Alla base del reato in oggetto vi è la privazione della libertà fisica, intesa come illegittimo impedimento posto in essere volontariamente nei confronti di un soggetto, che viene così posto nell’impossibilità di locomozione e movimento. Tuttavia, sia in dottrina (Mantovani) sia in giurisprudenza si è ritenuto configurabile il sequestro anche laddove non vengano usati mezzi particolari o non vi sia l’impiego di violenza fisica, ma semplicemente il ricorso a strumenti quali minaccia, inganno o una coazione di tipo psicologico.[1]

Per quanto riguarda, invece, la Sindrome di Stoccolma, l’elemento cronologico e il consenso dell’avente diritto, come previsto dal legislatore all’art. 50 c.p., sono due fattori che segnatamente interessano il fenomeno stesso. Quanto al fattore temporale, nel sequestro si considera che la privazione debba essere non una condizione momentanea, ma protratta per un tempo “apprezzabile”.[2] Quanto, invece, riguardo alla possibilità o meno di applicazione della scriminante nel caso di consenso del titolare del bene giuridico tutelato, il sequestrato, la risposta è positiva, sia in dottrina sia in giurisprudenza, con le peculiarità specificate in seguito.

Ebbene, conclusa questa doverosa premessa, si cercherà ora di comprendere come possano questi due elementi intersecarsi con il fenomeno della Sindrome di Stoccolma.

Sindrome di Stoccolma. Definizione.

Si definisce tale quella paradossale situazione di dipendenza psicologica ed affettiva in cui la vittima di sequestro, rapimento, aggressione o altro tipo di violenza avverte sentimenti positivi quali empatia, simpatia, fiducia, attaccamento e addirittura amore nei confronti del proprio sequestratore. Molte volte si tratta di sottomissione volontaria al proprio aggressore che porta all’insorgere di un reale rapporto di alleanza e solidarietà con lui.

È bene precisare che, nonostante si utilizzi il termine “sindrome”, essa non rientra tra le malattie psichiatriche, in quanto non è considerata una patologia clinicamente basata su studi scientifici validi. Studiosi e specialisti del settore, durante la stesura del DSM 5, hanno valutato la possibilità di inserire la Sindrome di Stoccolma in una sezione specifica del manuale, optando però poi per la sua esclusione. Oltre alla mancanza dei requisiti necessari scientificamente validati, si è ritenuto che i sentimenti positivi che si sviluppano nei confronti del maltrattante, non possano essere classificati come specifici sintomi di un disturbo psichiatrico, mancando dunque criteri universali per poter formulare sia una vera diagnosi sia una concreta terapia.

Origine del termine Sindrome di Stoccolma.

23 Agosto 1973, Svezia. Due detenuti evasi dal carcere di Stoccolma, Jan Erik Olsson, 32 anni e Clark Olofsson, 26 anni, tengono in ostaggio per 131 ore quattro impiegati nella camera di sicurezza della Sveriges KreditBanken, con l’obiettivo di rapinare la banca. Furono giorni molto concitati durante i quali la polizia cercò di trattare con i rapinatori per il rilascio degli ostaggi, mentre all’interno della banca, nonostante il reale pericolo di vita, questi ultimi, rinchiusi in un angusto caveau dell’edificio, iniziarono rapidamente a stringere un legame coi loro rapitori, fomentando una sorta di affetto reciproco sorretto dalla volontà di proteggersi vicendevolmente. Il paradosso fu che essi giunsero al punto di temere di più le forze dell’ordine che non i sequestratori.  La vicenda, dopo aver riempito tutte le prime pagine dei quotidiani e notiziari nazionali e non solo, si concluse dopo quasi sei giorni e vide i malviventi consegnarsi alla polizia senza l’uso della forza. Le vittime furono pacificamente rilasciate. Tale legame, però, non si esaurì al termine del sequestro, tant’è che una delle impiegate chiese clemenza per i rapinatori, testimoniando a loro favore e uno dei due sequestratori si sposò con una delle tante donne che gli aveva inviato lettere di ammirazione in carcere.[3]

Il criminologo psicologo Nils Bejerot e l’agente dell’FBI Conrad Hassel coniarono per primi la definizione di Sindrome di Stoccolma per indicare una paradossale situazione psicologica basata su una reazione emotiva al trauma che si sviluppa a livello dell’inconscio in modo automatico e legata al fatto di essere “vittima”.

 Cause e modalità con cui si manifesta.

Sebbene le cause precise alla base dello sviluppo della sindrome non siano del tutto chiare, molti studi al riguardo hanno dimostrato come vi siano condizioni determinanti e specifiche comuni ai casi in cui il fenomeno si è manifestato.

Gli atteggiamenti comunemente riscontrati in questi casi ed attuati dalla vittima di rapina o sequestro, o di altra violenza, sono:

  • sviluppo di sentimenti positivi (simpatia, empatia, affetto, amore) nei confronti del proprio sequestratore/carnefice;
  • rinuncia alla fuga, pur prospettandosi la possibilità;
  • rifiuto di collaborazione con le autorità, nei confronti delle quali sviluppa invece sentimenti avversi. L’iniziale fiducia nelle forze dell’ordine scema, perché chi dovrebbe intervenire per salvarla non lo sta facendo, o tarda ad arrivare;
  • tenta di compiacere il rapinatore. Atteggiamento che frequentemente si riscontra nelle vittime/ostaggio di sesso femminile;
  • legittima i comportamenti del sequestratore discolpandolo. La vittima sarà portata a considerarlo benevolo, giustificando i suoi atteggiamenti nella convinzione che avrebbe potuto riservarle un trattamento molto peggiore, farle del male o addirittura ucciderla, ma non lo ha fatto;
  • volontariamente sottostà al volere del sequestratore;
  • si rifiuta di testimoniare una volta liberata.

I comportamenti delle vittime sono del tutto singolari, rappresentando una sorta di risposta emotiva automatica e spesso inconscia al trauma dell’essere ostaggio.

Differenti sono le chiavi di lettura della Sindrome di Stoccolma. La prospettiva psicoanalitica vede, nell’instaurarsi di un legame patologico affettivo da parte della vittima, un meccanismo di difesa inconsapevole, non frutto di libera scelta, che permetterebbe in questo modo di superare la condizione del forte stress in corso. Quando il Sé si sente minacciato e capisce che la propria vita dipende totalmente da un’altra persona, l’Io si adatta ad una situazione di grave stress, sviluppando una forma di attaccamento psicologico nel disperato tentativo di evitare la morte. È questa una modalità di sopravvivenza attuata dal nostro cervello per poter sopportare il trauma. Proprio come accade nei rapporti disfunzionali: il partner di un soggetto psicologicamente o fisicamente violento, spesso, rifiuta di denunciare il proprio aguzzino.

Tra i meccanismi di difesa, vi è anche la teoria dell’identificazione con l’aggressore. L’Io, per proteggersi da una figura autoritaria che gli causa ansia, si identifica col sequestratore al fine di evitare una punizione da parte sua. L’ostaggio si identifica, in realtà, attraverso la paura, non l’amore.

La Sindrome di Stoccolma viene talvolta spiegata anche ricorrendo all’introiezione – imitazione. Con essa, la vittima assume, facendole proprie, caratteristiche e valori di un modello preso come riferimento in quella situazione, sebbene opposto ai valori sino a quel momento contemplati. Anche in tal caso l’obiettivo è quello di evitare di innescare violenza nel rapitore.

Un’altra chiave interpretativa del fenomeno si basa sul concetto psicologico di dipendenza. L’ostaggio comprende che la sua vita è nelle mani del sequestratore e, qualora risparmiato, proverebbe gratitudine nei suoi confronti. Quest’ultima teoria sposta l’attenzione all’ambito relazionale tra le due figure, a differenza delle precedenti, che sono di matrice psicoanalitica e psicopatologica incentrate solo sulla figura della vittima.

Sino ad oggi gli studi non hanno portato a identificare un’univoca tipologia di vittima della Sindrome di Stoccolma, con conseguente incapacità di determinare gli elementi in grado di descrivere e contraddistinguere la situazione o che consentano un inquadramento nosografico del fenomeno che sorge nei casi di privazione della libertà. Alla base di questa “alleanza” tra vittima e sequestratore, vi è dunque un elemento comune alle casistiche in cui il fenomeno si è rilevato: un’interazione positiva tra i soggetti. Tuttavia, essa non rappresenta un tratto distintivo, esclusivo e costitutivo del fenomeno, giustificando così l’impossibilità di inquadrare la sindrome tra le malattie psichiatriche. Viceversa, non in tutti i sequestri di persona si manifesta un interscambio relazionale positivo, perciò la privazione della libertà non costituisce conditio sine qua non affinché si crei detto legame.

Fasi evolutive della Sindrome di Stoccolma.

Le circostanze creano, talvolta, un legame emozionale affettivo da parte della vittima nei confronti del proprio aguzzino, in modo ampiamente paragonabile a quanto avviene nei casi di abusi e “sequestri domestici”. La risposta emotiva è spesso automatica ed inconscia, ai fini del superamento del trauma dell’essere ostaggio, oppure in altri casi può essere frutto di scelta consapevole, ma non razionale della vittima, che opta per tenere il comportamento a lei più vantaggioso: farsi amico il rapitore. L’alto grado di stress coinvolge ambedue i soggetti, i quali condividono il medesimo spazio chiuso e ristretto in cui vivere, attuando un nuovo stile di adattamento per sopravvivere. Il legame positivo che si crea, frutto dello stress della privazione della libertà, tende ad unire vittima e carnefice contro il resto del mondo, anche contro la polizia.

Generalmente, le fasi attraverso cui si evolve la Sindrome di Stoccolma sono tre:

1) Sentimenti positivi delle vittime nei confronti dei sequestratori.

2) Sentimenti negativi degli ostaggi nei confronti delle forze di polizia o altre autorità.

3) Sentimenti positivi reciproci da parte dei sequestratori nei confronti dei sequestrati.

Studi sul comportamento umano hanno evidenziato che atti visti come “gentilezze” o cortesie da parte dei sequestratori, gesti semplici come garantire cibo e acqua o lasciar utilizzare i servizi igienici, hanno un impatto benevolo sulla psiche della vittima, tanto da far passare in secondo piano la sua condizione dell’essere ostaggio.

Fattore importante (ma non indispensabile) è il tempo. Un sequestro prolungato può produrre un legame profondo, maggiore confidenza ed attaccamento, che dipenderà però sempre dalle interazioni positive tra i due. Venendo a mancare l’esperienza negativa, come percosse o altro genere di violenza, le ore trascorse assieme produrranno un senso di fiducia nell’umanità del rapinatore. La vittima inizia a temere che tale situazione di “equilibrio” basata, quantomeno, sul non abuso e su un crescente conseguente attaccamento, possa essere interrotto da coloro che, intervenendo, potrebbero fare del male al sequestratore. In assenza di maltrattamenti, infatti, l’ostaggio sarà portato a pensare di essere stato trattato in modo gentile dal sequestratore, nella convinzione che avrebbe potuto riservargli un trattamento ancora più violento, ma non lo ha fatto. Parallelamente, la vittima inizia a sviluppare dei sentimenti negativi nei confronti della polizia. Cresce nell’ostaggio avversione nei confronti di chi deve salvarlo che, prima, tarda ad arrivare e poi invade il luogo condiviso dai due, spingendo talvolta addirittura la vittima ad aiutare il rapinatore.

La Sindrome di Stoccolma, dunque, è la logica conseguenza di un’interazione umana positiva[4], laddove, nei diversi casi studiati e in base alle testimonianze rese dai sequestrati una volta liberati, l’atteggiamento della vittima verso i suoi sequestratori è risultato essere differente in funzione della persona-vittima o della persona-sequestratore, a prescindere dalla durata della privazione della libertà. Il rapporto tra i due è qualcosa di unico e non paragonabile ad altri tipi di relazioni. Questo prova l’impossibilità di definire criteri standard entro cui delineare il fenomeno al fine di poterlo inserire tra le malattie psichiatriche: molteplici e altamente differenti sono le variabili in gioco.

Sindrome di Stoccolma e abuso domestico.

Ci si interroga, a questo punto, se una delle forme attraverso le quali si concretizza il fenomeno possa considerarsi quello degli abusi domestici.

Ebbene, alla luce delle considerazioni fatte, la risposta non può essere del tutto affermativa, data la fondamentale differenza: nella Sindrome di Stoccolma stricto-sensu vittima e carnefice sono perfetti sconosciuti. Tra le mura domestiche ovviamente non è così.

Quello che funge da anello di congiunzione tra la Sindrome di Stoccolma e la configurazione del reato di sequestro risulta invece essere l’elemento psicologico, proprio come accade nei rapporti familiari tra conviventi. La Cassazione, infatti, ha statuito che, per configurarsi sequestro di persona, la costrizione non necessariamente debba estrinsecarsi tramite impiego di mezzi fisici, ben potendo manifestarsi tramite violenza morale, compresi quegli atteggiamenti suscettibili di “togliere alla persona offesa la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria autonoma e indipendente volontà”.[5] Inoltre: “ai fini della configurabilità dell’elemento materiale del delitto di sequestro di persona, non è necessario che la costrizione si estrinsechi con mezzi fisici, dovendosi ritenere sufficiente anche una condotta che comporti una coazione di tipo psicologico tale, in relazione alle circostanze del caso, da privare la vittima della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria autonoma ed indipendente volontà”.[6]

Il sequestro di persona scriminato, fattispecie prevista dall’art. 50 c.p., che contempla l’esclusione dell’illiceità della condotta per consenso dell’avente diritto, può concretizzarsi anche nel caso di limitazione della libertà nell’esercizio della potestà educativa, come la custodia di alienati mentali o infermi conviventi. Ovviamente, invece, la situazione sarebbe completamente differente laddove vi fosse abuso di tali poteri. In quest’ultimo caso, infatti, non si configurerebbe il sequestro di persona, ma il reato di maltrattamenti in famiglia, ex art. 572 c.p.[7]

Altri punti di contatto tra la Sindrome di Stoccolma e la violenza domestica si riscontrano qualora una persona che viva una situazione di restrizione della libertà possa manifestare sentimenti positivi verso il proprio carnefice. Nelle donne maltrattate, in particolare, si attua un meccanismo chiamato coping, quale strategia di adattamento e contrasto alle violenze subite. La vittima per sopravvivere, sia fisicamente che psicologicamente in tale situazione di enorme stress, si focalizza su aspetti benevoli del proprio aguzzino, il che la indurrà a convincersi che fedeltà ed obbedienza siano gli unici modi per restare viva e che la vita sua e quella dei figli dipendano totalmente dalla volontà dell’uomo.[8] La vittima, ad un certo punto, non considererà più se stessa come ostaggio, ma piuttosto tenderà a difendere il proprio sequestratore dalle forze di polizia. Questo spiegherebbe il motivo per cui alcune donne non denunciano i propri aguzzini, con comportamenti simili agli ostaggi di un sequestro, continuando la loro relazione con psicopatici, ammettendo addirittura di esserne ancora innamorate e gelose anche dopo l’interruzione del legame. La situazione è resa ancora più complicata laddove il reo alterni gentilezze e gesti positivi alla violenza fisica e psicologica.[9]

Conclusioni.

Ragionando sulle prospettive di intervento a tutela delle vittime, è necessario partire dal concetto che il fenomeno sin qui trattato esiste non in quanto malattia psichiatrica, come spiegato, ma come interazione umana, inquadrabile anche all’interno di situazioni ed ambiti, come quello domestico, in gran parte differenti. La Sindrome di Stoccolma, in senso tradizionale, dunque non esiste, ma è necessario considerare il singolo caso concreto ed i meccanismi di difesa di volta in volta attuati nella singola vittima.

Anche le varie opportunità di intervento dipenderanno, dunque, dal tipo di vittima, dal tipo di danno psicologico riportato, con l’obiettivo di portare la vittima a rendere testimonianza. Parimenti, nelle donne vittime di violenza familiare, è quanto mai importante sia comprendere le dinamiche di un eventuale senso di colpa che le vittime sviluppano prima e dopo la denuncia, sia essere accompagnate psicologicamente durante il processo di rielaborazione della vicenda. Solo così sarà possibile pensare ad un percorso specifico, ad un aiuto concretamente personalizzato che permetta di far emergere determinati meccanismi, per lo più inconsci, con l’obiettivo ultimo di riappropriarsi della propria vita e dell’auto-controllo su di essa.

Fonte immagine https://www.internationalwebpost.org/

[1] Cass. Pen., sez. V, sent. 6 febbraio 1987, n. 1371 – Cass. pen., Sez. I, 11 ottobre 2017, n. 46566.

[2] Cass. Pen., sez. V, sent. 9 gennaio 1980, n. 375.

[3] Articolo tratto da: “Sindrome di Stoccolma: la vera storia di ostaggi fedeli al loro rapitore”, disponibile qui:  https://www.history.com/news/stockholm-syndrome.

[4] Monzani M., Manuale di criminologia, Padova, libreriauniversitaria.it Edizioni, 2016, p. 478.

[5] Cass. pen., sez. V, sent. 19 aprile 2005, n. 145666.

[6] Cass. pen., sez. I, sent. 11 ottobre 2017, n. 46566.

[7] Cass. pen., sez. V, sent. 6 febbraio 1987, n. 1342.

[8] Reale E., Maltrattamento e violenza sulle donne. Vol.II – Criteri, metodi e strumenti per l’intervento clinico, Milano, Franco Angeli, 2011.

[9] In materia di manipolazione psicologica si rimanda a: https://www.iusinitinere.it/il-gaslight-40795.

 

Elisa Teggi

Laureata all'Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza nel 2006 con tesi intitolata "Il licenziamento del dirigente", ha in seguito indirizzato la propria carriera lavorativa in diversi ambiti che le hanno fornito esperienza, soprattutto grazie al contatto costante con persone e ragazzi, mantenendo un forte interesse per l'ambito criminologico. Questo l'ha portata a voler conseguire ulteriore laurea in Criminologia con tesi dal titolo "Staging ed occultamento di cadaveri", nel 2021, per poter indirizzare completamente il proprio lavoro in questa direzione. Attualmente lavora nel territorio piacentino in ambito criminologico - sociale, di prevenzione delle condotte devianti, in contatto con il servizio sociale, occupandosi specificatamente dei minori. Esperta di Scienze Forensi, si mantiene in costante aggiornamento e continua formazione su aspetti forensi e criminologici, prestando attenzione, in chiave critica, ai processi mediatici, cercando di interpretare le motivazioni sottese al fenomeno. La frase che funge da sfondo ad ogni suo lavoro è: "Non si tratta di fascinazione del male, si tratta di dare centralità alla persona, alla vittima e alle cause devianti, studiando il criminale prima del crimine, il folle prima che la follia, con l'obiettivo di rieducare e reintrodurre in società. Dalla parte della giustizia sempre e per sempre".

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