giovedì, Marzo 28, 2024
Uncategorized

Società a partecipazione pubblica: possono fallire?

Sommario: 1.Inquadramento dell’istituto in virtù del riordino operato dal d.lgs. 175/2016; 2. Fallibilità della società a partecipazione?; 3.Recenti interventi

  1. Inquadramento dell’istituto in virtù del riordino operato dal d.lgs. 175/2016

Le strutture societarie, nell’ambito del diritto amministrativo,  fungono da veicolo per l’esercizio di attività pubbliche.

A tal riguardo è necessario considerare che, non essendo la categoria affatto omogenea, la disciplina indicata dal d.lgs. n.175 del 2016 ha tentato di raccogliere in un corpus normativo[1] semplificato le regole vigenti allo scopo di assicurare l’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, la tutela e la promozione della concorrenza e del mercato con l’obiettivo ridurre e razionalizzare la spesa pubblica.

L’art. 1 del d.lgs. 175/2016[2] (cd. Testo Unico sulle Società Pubbliche) prevede che le Pubbliche Amministrazioni hanno la possibilità di costituire società controllate ovvero società partecipate: le prime sono caratterizzate dal possesso dei requisiti di cui all’art. 2359 c.c.[3] con la possibilità di avere anche un controllo congiunto da parte di più PA; le seconde sono caratterizzate dal fatto che una PA è titolare di “rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti che attribuiscono diritti amministrativi”.

La normativa in questione, tuttavia, è una disciplina speciale. Invero, lo stesso art. 1, al comma 3 prevede espressamente che le due forme di società, controllata e partecipata, sono comunque disciplinate dalle norme generali delle società contenute nel codice civile. Tale regola è ulteriormente confermata dall’art. 4, comma 13 del d.l. n.95 del 2012, per effetto del quale alle società a partecipazione pubblica si applica la disciplina del codice civile in materia di società di capitali, salvo deroghe espresse.

L’obiettivo del Testo Unico è proprio quello di individuare le deroghe al diritto delle societario giustificate dall’assetto degli interessi sottesi alla singola operazione societaria posta in essere dalla pubblica amministrazione[4].

Infatti, fermo l’art 3 del d.lgs. 175/2016 che consente alle PA di partecipare solo a società, anche consortili, costituite nella forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa, l’art. 4 del TU prevede espressamente che, di fatto, le amministrazioni pubbliche non possono costituire società aventi ad oggetto attività di produzione di beni e servizi se non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Nel caso di specie, l’articolo in parola elenca tali attività, tassativamente, come di seguito:

a) produzione di un servizio di interesse generale, ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi;
b) progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di programma fra amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 193 del decreto legislativo n. 50 del 2016;
c) realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato di cui all’articolo 180 del decreto legislativo n. 50 del 2016, con un imprenditore selezionato con le modalità di cui all’articolo 17, commi 1 e 2;
d) autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti o allo svolgimento delle loro funzioni, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento;
e) servizi di committenza, ivi incluse le attività di committenza ausiliarie, apprestati a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 50 del 2016.

  1. Fallibilità della società a partecipazione?

Vista l’applicazione alle società a partecipazione pubblica della normativa societaria, salvo deroghe espresse, è opportuno evidenziare che in caso di dissesto dell’impresa, la normativa speciale – il Testo Unico Sulle Società Pubbliche- dispone, all’art. 14 che “Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39

La norma introduce, nell’ipotesi di crisi aziendale delle società a partecipazione pubblica, specifiche procedure per prevenire l’aggravamento della situazione e correggere eventuali cause di squilibrio.

È importante precisare, tuttavia, che prima ancora del d.lgs. 175/2016 in assenza di una disciplina organica, l’orientamento prevalente[5] considerava la società a partecipazione pubblica alla stregua di una società di capitali ai sensi degli artt. 2325 e ss. c.c. e, in quanto tale, dovevano applicarsi le disposizioni della disciplina privatistica con integrale adozione dello statuto dell’imprenditore commerciale, ivi incluso l’assoggettamento alle procedure concorsuali;  inoltre, tale impostazione era avvalorata dalla considerazione per cui l’art. 2449 cc. sulle Società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, regolava solo alcuni dei profili della materia – inerenti, nella specie, la nomina e la revoca di rappresentanti dello Stato o degli enti pubblici- assoggettando per il resto la società partecipata al diritto comune.

Tale indirizzo si è poi progressivamente incrinato per effetto dell’evoluzione normativa che ha portato all’affermazione della nozione di impresa pubblica[6], che valorizza gli aspetti sostanziali a discapito della veste formale sotto la quale l’impresa viene esercitata.

Secondo il predetto orientamento, la qualificazione giuridica dell’ente va valutata sulla base di elementi sostanziali, avendo riguardo alla caratteristica strumentale o meno dell’ente rispetto, per l’appunto, al perseguimento di finalità pubblicistiche e all’esistenza di una specifica disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario.

Orbene, in presenza degli indici della natura pubblica della società  (quali: svolgimento della maggior parte dell’attività in favore dell’ente pubblico, mancata vocazione commerciale, limitazione dei poteri gestionali dell’organo amministrativo con contestuale attribuzione all’ente pubblico di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce al socio, sottoposizione delle decisioni di maggior rilievo all’ente pubblico, erogazione, da parte dell’ente pubblico di controllo, di risorse finanziarie ulteriori e diverse rispetto al conferimento del capitale sociale) ed  in applicazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma[7], coesistendo una pluralità di elementi sintomatici, da valutare caso per caso, la società non può considerarsi un soggetto di diritto privato, bensì un ente pubblico[8]  soggetto all’intero statuto degli enti pubblici e, dunque, riconducibile ai soggetti esclusi ai sensi dell’art. 1 l. fall.94, secondo il quale “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.

Tuttavia, è necessario segnalare un orientamento minoritario, c.d. “funzionale”, per cui il problema più rilevante non è tanto quello di individuare la società a partecipazione pubblica come ente privato o pubblico, quanto più stabilire se nella specifica materia di riferimento, trovi applicazione la disciplina privatistica o quella pubblicistica. In questo caso, l’esclusione dalle procedure concorsuali di una società in mano pubblica non dipende dalla possibilità di equipararla a un ente pubblico, in forza della concreta ricorrenza degli indici sostanziali sopra richiamati: ciò che occorre verificare è se, rispetto alla società in concreto considerata, sussistono interessi analoghi a quelli a protezione dei quali l’art. 1 l. fall. nega la fallibilità degli enti pubblici. In sostanza, la società in mano pubblica viene esclusa dalla procedura concorsuale, nonostante la forma privata, nel caso in cui l’attività svola sia necessaria, a carattere esclusivo, svolta nell’ambito territoriale di riferimento in totale assenza di concorrenza e non sia suscettibile di interruzione perché destinata a soddisfare bisogni primari della collettività; diversamente, la società pubblica è assoggettabile al fallimento, non essendo ipotizzabile alcuna lesione degli interessi pubblici.

  1. Recenti interventi

La questione in parola è stata recentemente risolta dalla Corte di Cassazione che, con Sentenza n. 5346 del 22/02/2019 ha così statuito: “La società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell’art. 1 l.fall., essendo la posizione dell’ente pubblico all’interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici, ne’ detta natura privatistica della società è incisa dall’eventualità del cd. controllo analogo, mediante il quale l’azionista pubblico svolge un’influenza dominante sulla società, così da rendere il legame partecipativo assimilabile ad una relazione interorganica che, tuttavia, non incide affatto sulla distinzione sul piano giuridico-formale, tra P.A. ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall’ente partecipante.”

Tale orientamento è stato, poi, avvalorato anche dalla Corte appello Venezia sez. I, 01/07/2020, n.1656 per cui “La società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell’art. 1 l.fall., essendo la posizione dell’ente pubblico all’interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici”.

Si ritiene, pertanto, la società a partecipazione pubblica siano assolutamente assoggettabile al fallimento, con conseguente inserimento dell’attuale disciplina della crisi d’impresa nel Testo Unico sulle Società pubbliche, nella specie, artt. 14 e 6, commi 2 e 4, d.lgs. 175/2016.

[1] R.Garofoli, Compendio di diritto amministrativo, VIII edizione 2020/2021

[2] Le disposizioni del presente decreto hanno a oggetto la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta

[3] Sono considerate società controllate:

  1. 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
  2. 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
  3. 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.

[4] H.Bonura, G.Fonderico, Il testo unico sulle società a partecipazione pubblica, in Giorn. Dir. Amm., 2016, 6, 722

[5] Corte dei Conti, Sez. Contr. Reg. Calabria, 14 Giugno 2012, n.84.

[6] Direttiva n. 80/723/CEE del 25 Giugno 1980, art. 2, in base alla quale per impresa pubblica si intende ogni impresa nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante

[7] Tribunale di Patti, decreto del 6 Marzo 2009, in www.osservatorio-oci.org; Tribunale di S. Maria Capua Vetere, decreto del 9 Gennaio 2009, decreto del 22 Luglio 2009 in www.fallimento.it

[8] L’esigenza di sottrarre dal fallimento gli enti pubblici si pone solo per quelli che svolgono attività d’impresa, ossia per i c.d. enti pubblici economici. Per gli enti pubblici che non assumono la qualità di imprenditori commerciali non vi è, invece, alcuna necessità di prevedere nessuna esenzione per il semplice fatto che non svolgono attività commerciale o, se pure la svolgono, questa non è esercitata in misura prevalente o professionale. Il legislatore del 1942 riconobbe agli enti pubblici la possibilità di esercitare attività di impresa, ma allo stesso tempo escluse che a questi soggetti potesse essere applicata la disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali giudiziali, tenendo ben distinti, anche sotto tale profilo, l’ente pubblico economico e la società per azioni. L’esenzione dal fallimento rappresentava una caratteristica esclusiva degli enti pubblici economici, come tale insuscettibile di essere estesa alle società a partecipazione pubblica; in D’Attorre G., Gli enti di natura pubblica, in Sandulli M. (2007), I soggetti esclusi dal fallimento, Milano, Ipsoa, p. 106; Scarafoni S., L’esclusione degli enti pubblici dalla soggezione al fallimento, in Fimmanò F. (2011), Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza, Giuffrè Editore, Milano, pp. 307 e ss.; Fiorani L. E. (2012), Società “pubbliche” e fallimento, Giur. comm., Juris Data, in www.giuffre.it, pp. 3 e ss.

Francesca Panacciulli

Francesca Panacciulli nasce a San Severo il 17.09.1995. Attualmente è un Funzionario Addetto all'Ufficio Per il Processo presso la Corte d'Appello di Bari. Da ottobre 2022 è abilitata all'esercizio della professione forense. Ha conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari, in data 15.07.2019, con votazione di 110, con tesi in diritto tributario dal titolo: "Armonizzazione Iva, tra aliquote ridotte ed elusione del tributo". La tesi è stata svolta in cotutela con l’Universidad de Valladolid (Spagna), nell’ambito del progetto “Global Thesis”, un premio di studio finanziato dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Dopo la laurea ha partecipato alla Summer School in “Circular Economy and Enviromental Taxation” sponsorizzata dalla medesima Università, per approfondire le tematiche legate al diritto tributario. In contemporanea, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari che le ha permesso di acquisire maggiori esperienze su più fronti, trattando non solo il diritto tributario ma anche di diritto amministrativo. Per accrescere l’ interesse nella disciplina suddetta, da marzo 2021 a maggio 2021 ha frequentato un corso di alta formazione in “Diritto e innovazione nella organizzazione e gestione degli enti locali” presso l’Università di Firenze. A partire dal mese di gennaio 2021 collabora con la rivista "Ius in itinere" per l'area tematica di Diritto Amministrativo.

Lascia un commento