venerdì, Aprile 19, 2024
Uncategorized

Società unipersonali ed imprese individuali nella responsabilità da reato degli enti: l’altra storia dei “gemelli diversi”

A cura di Raffaele Costanzo.

A poco più di vent’anni circa dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 8 Giugno 2001 numero 231, sono ancora diverse le questioni di ordine applicativo di “Parte Generale” a manifestare alcuni punti oscuri, a cui corrisponde un atteggiamento talvolta ondivago della giurisprudenza. Questa instabilità in ordine all’applicazione di talune disposizioni costituisce uno dei principali fattori che ne ostacola la diffusione, non consentendo, così, il decollo definitivo della più grande sfida del diritto penale economico contemporaneo. Una di queste, in particolare, è quella che riguarda la distinzione intercorrente tra le società unipersonali e le imprese individuali, al centro di orientamenti a volte tra loro contrastanti in seno alle stesse Sezioni semplici della Corte di Cassazione. Nella pronuncia indicata, tuttavia, la Corte, interessandosi delle società unipersonali, giunge non solo col tracciarne la linea di demarcazione rispetto alle imprese individuali sotto un profilo fenomenico, ma si spinge anche ad indicare i criteri a cui si deve ricorrere per verificarne in concreto la non sovrapposizione, alla luce dei principi generali della disciplina.

Sommario: 1. – Introduzione. 2. – Il quesito della Corte. 3. – L’inapplicabilità della disciplina alle imprese individuali. 4. – L’autonomia delle responsabilità. 5. – Le società unipersonali. 5.1 – la società con socio unico risponde…(Segue) 5.2 – …purché il socio non sia “tiranno”. 6. – Conclusioni.

 

1. Introduzione.

Il provvedimento in esame[1] si inserisce nell’ambito di un procedimento cautelare, quale atto probabilmente penultimo prima della formazione del c.d. “giudicato cautelare”. Nel caso di specie, le ipotesi di illecito amministrativo contestate, per cui si procede nei confronti degli enti imputati, sono quelle previste dagli articoli 21 e 25 del Decreto Legislativo numero 231 dell’8 Giugno 2001, ovvero si tratterebbe di una pluralità di episodi di corruzione propria attiva.

Più precisamente, il procedimento cautelare si articola secondo le seguenti cadenze: il Pubblico Ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pescara chiede al Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale medesimo di applicare in via cautelare la misura interdittiva di cui all’art. 9, comma 2, lett. c) d. lgs. n. 231/01, ossia il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione.
Tuttavia, la difesa si rivolge al Tribunale di Pescara quale giudice del riesame ed ottiene la revoca della predetta misura mediante una ordinanza di annullamento della precedente, che giunge all’esito di un ragionamento di segno opposto rispetto alla prima statuizione.
In tale sede il Tribunale ritiene che, pur trovandoci formalmente di fronte ad uno schermo giuridico proprio delle società unipersonali, ciononostante, considerata la base societaria costituita da un solo socio e l’assenza di una qualsivoglia articolazione dell’organo amministrativo ed aziendale, può affermarsi a ragion veduta che si tratti sostanzialmente di imprese individuali e che, pertanto, ad esse non debba essere applicata la relativa disciplina.
La Pubblica Accusa procedente, preso atto della decisione ed essendo in disaccordo sul punto di diritto, provvede a promuovere impugnazione avverso la predetta ordinanza con ricorso per Cassazione, adducendo quale principale motivo di doglianza l’inosservanza della legge “penale”, ritenendo applicabile la disciplina de quo alle società unipersonali.

 

2. Il quesito della Corte.

La questione di ordine giuridico ed applicativo che la Corte si trova ad affrontare si presenta su un duplice piano.[2]
Ad un primo livello, la questione è di ordine sostanziale; si tratta infatti di capire se le società unipersonali siano riconducibili al novero dei soggetti che il legislatore ha menzionato quali destinatari dell’applicazione delle disposizioni del decreto oppure no.
Ad un secondo ed ultimo livello, invece, la questione è di ordine processuale; si tratta, in altre parole, di capire se il giudice, nel confrontarsi col fenomeno economico delle società unipersonali, debba limitarsi all’utilizzo solo ed esclusivo di criteri di natura formale (cioè le indicazioni che provengono dalla lettera della legge), oppure se possa muoversi su di un piano sostanziale, là dove rilevi in concreto che si sia molto vicini ad una impresa de facto individuale. In quest’ultimo caso, in particolare, si tratterà poi di andare ad individuare ed enunciare gli indici sulla cui base affermare la sovrapposizione tra le due figure, giustificando la non applicabilità della disciplina.[3]
Valutazione conclusiva che la Corte verrà a fare, riguarda il se, una volta ammessa eventualmente la possibilità di ricorrere ad indici di natura sostanziale, questa operazione sia legittima o meno, dovendo trovare un inquadramento (ed un collegamento) nella disciplina dello stesso decreto.

 

3. L’inapplicabilità della disciplina alle imprese individuali.

I giudici di legittimità, pur ritenendo immediatamente la questione prospettata come fondata, prima di giungere all’enunciazione del principio di diritto aderente al caso di specie colgono l’occasione per chiarire ulteriormente alcune coordinate ermeneutiche di sistema. Seppur fugacemente, affermano l’inapplicabilità della disciplina in esame alle imprese individuali, contrastando perciò ogni soluzione in senso contrario.[4] Gli argomenti che possono essere richiamati sono di diverso tipo, sia letterali che sistematici.[5]

In primo luogo, bisogna fare riferimento al comma 1 dell’art. 1 d. lgs. n. 231/01, secondo cui la disciplina de qua interessa <<la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato>>. In questa prima disposizione viene fatto un utilizzo atecnico del termine “enti”, andando a specificare immediatamente dopo che cosa si intenda con tale sintagma. Il comma successivo, infatti, indica immediatamente quali siano i soggetti a cui la disciplina si rivolge, menzionando gli <<enti forniti di personalità giuridica e [le] società e associazioni anche prive di personalità giuridica>>. Questa disposizione, nel dettare il novero dei soggetti qualificabili come enti ai fini dell’applicabilità della disciplina del decreto, va letta in opposizione a quella di cui al comma 3 del medesimo art. 1 d. lgs. n. 231/01 che, al contrario, indica i soggetti che, quantunque qualificabili come enti ai sensi del comma precedente, nondimeno sono esclusi dall’applicazione della presente normativa in forza di una espressa volontà da parte del legislatore.
Il dato che emerge da queste disposizioni e che viene confermato anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità ormai cristallizzatasi è, senza dubbio, quello per cui quando si parla di “enti” si fa riferimento a tutti i soggetti di diritto <<meta individuali>>,  ossia dei centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive attive o passive di diritto sostanziale autonomi ed ulteriori rispetto alle persone fisiche.[6]
Questa affermazione trova conforto a livello sistematico sia nel testo stesso del decreto, sia nella Relazione che nella legge-delega. Basti pensare, ad esempio, al disposto di cui all’art. 27 che, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, chiama a rispondere l’ente solo ed esclusivamente con il proprio patrimonio o fondo comune, escludendo di fatto che possa esservi una responsabilità di tipo sussidiario a carico della persona fisica e che, a maggior ragione, la stessa persona fisica possa subire una duplicazione della pretesa sanzionatoria statale. A ciò, infine, si aggiungano anche le indicazioni che provengono dallo stesso legislatore delegante, il quale, all’alinea dell’art. 11 della Legge delega 29 Settembre 2000 numero 300 fa riferimento ai soli enti, quali persone giuridiche ed assimilabili, purché non svolgano funzioni di rilievo costituzionale, senza fare menzione alcuna delle imprese individuali.[7] Non può non rappresentarsi anche come, in via derivata, le imprese individuali non siano oggetto di attenzione da parte delle Linee Guida di Confindustria. Questo primo passaggio, come vedremo di qui a breve, è solo la prima operazione di “igiene ermeneutica” che la Corte effettua prima di rispondere al quesito che è stato sollevato, che le permette di impostare nei termini corretti la questione prospettata.

 

4. L’autonomia delle responsabilità.

La ragione per cui si pone la questione relativa all’applicazione delle disposizioni del decreto anche alle società unipersonali rispetto alle imprese individuali consiste essenzialmente nel fatto che, sovente, al di là del dato meramente formale dello schermo giuridico adottato, i due fenomeni presentano diversi profili di somiglianza, da cui potrebbe derivare la confusione.
Il problema, infatti, non si pone rispetto a quelle società che, per quanto costituite da un unico socio, abbiano una loro articolazione organizzativa ben definita, ma si pone rispetto a tutte quelle ipotesi in cui il socio unico assume su di sé e salda nella sua persona i compiti e le funzioni di tutti gli organi societari, divenendo socio ed amministratore (nonché controllore) allo stesso tempo.

Risolta in senso negativo la questione relativa all’applicabilità rispetto alle imprese individuali, la Corte, prima di avviarsi all’epilogo del proprio ragionamento, ha ritenuto opportuno effettuare un ulteriore passaggio, ovvero quello di ribadire il principio dell’autonomia delle rispettive responsabilità di persona fisica e persona giuridica.
In particolare, richiamando la giurisprudenza della Consulta sul tema,[8] la Corte viene a precisare come, benché la responsabilità penale della persona fisica e quella derivante da reato costituiscano entrambe oggetto di accertamento in procedimenti riuniti, condotti davanti ad un unico giudice e secondo le stesse regole probatorie, tuttavia esse debbano essere analizzate separatamente, poiché costituite da elementi diversi e solo in minima parte coincidenti.
Si è voluto ribadire, apertis verbis, che non è possibile “a cascata” far discendere dall’accertamento della responsabilità della persona fisica anche quella della persona giuridica, in quanto non corrispondenti.
Il punto è dato dal fatto che, in ossequio ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in esame (art. 27, comma 1 Cost.), possiamo dire che la commissione di un fatto di reato da parte della persona fisica costituisce solo uno degli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente, di cui ne è soltanto presupposto. Per presupposto si intenda la condizione o occasione che il giudice ha per valutare se l’atteggiamento dell’ente sia stato oppure no conforme ad una prospettiva di legalità.
A ciò dovranno però aggiungersi necessariamente anche i paradigmi oggettivi e soggettivi di ascrizione della responsabilità all’ente, ossia il collegamento strutturale e funzionale del reato-presupposto con la struttura organizzata da una parte, cioè la sua commissione nell’interesse o a vantaggio dell’ente e, dall’altra parte, la c.d. “colpa di organizzazione”.

Questa riflessione che, a ben vedere, nel corpus motivo della pronuncia viene ad assumere una posizione centrale – tant’è vero che per supportarsi è richiamata la più svariata giurisprudenza di legittimità sul tema –, nasce dalla necessità di evitare che possa incorrersi in un sistema duplice di semplificazioni processuali: da una parte, con riferimento alle persone fisiche e le imprese individuali, che la responsabilità della persona fisica venga ad “assorbire” – quindi a ricomprendere in sé – anche quella per l’impresa individuale quale persona giuridica o, ancor peggio, che l’impresa individuale debba essere considerata ente a sé stante, per cui la sola sanzione alla persona fisica non sia sufficiente; dall’altra, invece, che, una volta accertato il reato-presupposto della persona fisica, si giunga automaticamente all’affermazione di responsabilità a carico dell’ente.
Nel primo caso, infatti, non si dà luogo all’applicazione della disciplina del decreto in quanto non ci si trova di fronte ad un ente, volendo così evitare una violazione del ne bis in idem sostanziale, venendo entrambe le sanzioni a ricadere di fatto sull’imprenditore-persona fisica; nel secondo, invece, posta l’esistenza di un ente, si vuole valutare la sussistenza del suo interesse – e quindi della sua responsabilità rispetto alla commissione del fatto illecito da parte della persona fisica.
E’ chiaro che la cointeressenza in questi casi rispetto ad imprese di grandi dimensioni può essere maggiore, ma ciò non vuol dire che sia automatica.[9]

 

5. Le società unipersonali.

La Corte, dopo aver svolto quest’ampia operazione di riordino sistematico-concettuale delle coordinate ermeneutiche fondamentali della disciplina rilevanti per il caso di specie, viene alla soluzione del nodo fondamentale, ossia la sorte applicativa del decreto alle società unipersonali.

5.1. La società con unico socio risponde…(Segue)

Il principio di carattere generale che viene affermato è favorevole all’applicazione della disciplina del decreto 231 alle società unipersonali.[10]

Ciò trova conforto nella circostanza secondo cui queste società possono essere ricondotte entro il concetto di “enti”, cui fa riferimento l’art. 1, comma 2 d. lgs. n. 231/01. In altre parole, si tratterebbe di centri autonomi di imputazione di situazioni giuridiche soggettive attive e/o passive di diritto sostanziale diversi ed ulteriori rispetto a quelli delle perone fisiche che in loro nome e nel proprio conto agiscono. Parliamo, cioè, di differenti patrimoni giuridici.[11]

Questa affermazione viene ad essere rafforzata dal richiamo agli elementi di diritto societario che nel ragionamento stesso viene effettuato. Più precisamente, ci si riferisce alla disciplina del codice civile in tema di società a responsabilità limitata unipersonali.[12]

Da una parte, dunque, il riferimento è alla disciplina dei conferimenti: il socio unico, che non vuol perdere il beneficio della limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali, è tenuto, sia in sede di costituzione della società che in sede di aumento del capitale sociale ad adempiere immediatamente i propri obblighi di conferimento, ex art. 2462, comma 4 c.c., senza la possibilità che ciò avvenga gradualmente e (all’inizio) parzialmente. La ratio della norma, com’è evidente, è quella di garantire la formazione effettiva del patrimonio sociale.

Dall’altra, poi, il riferimento è alla disciplina della trasparenza: il socio unico, che vuole garantirsi il mantenimento del beneficio della limitazione della responsabilità, è tenuto, anche quando la società perda successivamente la pluralità dei soci, a far depositare agli amministratori presso il registro delle imprese una dichiarazione contenente le proprie generalità, ex art. 2470, comma 4 c.c. (sia esso persona fisica o giuridica). Lo scopo, ora, è quello di portare a conoscenza dei terzi che entrano in contatto con la società la situazione della compagine societaria.

Da ultimo, benché ciò non abbia costituito oggetto di espressa indicazione da parte della stessa Corte, non può escludersi il richiamo alla disciplina delle operazioni che avvengono tra il socio e la società, le quali possono produrre effetti nei confronti delle terze parti solo ed esclusivamente se risultano dal libro delle adunanze del C.d.A. o recano una data anteriore certa. Come vedremo di qui a breve, il rispetto o meno di questa disciplina può essere uno di quegli indici da cui rilevare la confusione di interessi del socio e della società e su cui effettuare valutazioni in termini di riflesso penalistico.

In linea generale, quindi, le società unipersonali sono destinatarie della disciplina del decreto, a differenza delle imprese individuali; ma ciò non vuol dire che questa applicazione avvenga sempre ed in maniera automatica, ovvero non ammetta esclusioni.[13]

5.2. …purché il socio non sia “tiranno”.

La S. C., una volta risolta la prima delle due questioni, ovvero quella che attiene al profilo formale e di diritto sostanziale, passa ad affrontare il nodo più spinoso. Si tratta, a questo punto, di capire se, posta l’applicabilità tendenziale del decreto n. 231/01 alle società unipersonali, vi siano dei meccanismi di accertamento e – se sì, quali  – che possano portare all’esclusione di detta responsabilità.

E’ questa, inevitabilmente, la sede deputata ad avvalorare le ragioni per cui prima ci si è soffermati sulla necessità di ribadire il principio dell’autonomia delle rispettive responsabilità. In particolare, la Corte ritiene che la responsabilità da reato degli enti trovi applicazione nei confronti delle società costituite da un unico socio alla luce del fatto che delle due l’una: non si può, mediante una sola scelta, godere sia sul piano civilistico della circoscrizione/limitazione della relativa responsabilità patrimoniale per gli obblighi sociali nonché sul piano penalistico dell’esenzione dalla responsabilità da reato. Siffatta soluzione, infatti, rappresenterebbe un ottimo incentivo per la criminalità economica verso una polverizzazione delle sue attività, potendo atomizzare i rischi connessi, vanificando di fatto l’attività repressiva e di controllo statuale. [14]

E’ bene, a questo punto, avere un diretto confronto col ragionamento giudiziale, che si esprime nei termini seguenti:<<(…) Esiste allora un’esigenza di accertamento in concreto del se, in presenza di una società unipersonale a responsabilità limitata, vi siano i presupposti per affermare la responsabilità dell’ente; un accertamento che non è indissolubilmente legato solo a criteri quantitativi, cioè di dimensioni dell’impresa, quanto, piuttosto, a criteri funzionali, fondati sull’impossibilità di distinguere un interesse dell’ente da quello della persona fisica che lo “governa”, e dunque, sulla impossibilità di configurare una colpevolezza normativa dell’ente – di fatto inesigibile – disgiunta da quella dell’unico socio (…)>> (corsivo nostro). E ancora:<<(…) Una verifica complessa che si snoda attraverso l’accertamento della organizzazione della società, dell’attività in concreto posta in essere, della dimensione dell’impresa, dei rapporti tra socio unico e società, della esistenza di un interesse sociale e del suo effettivo perseguimento>> .

La pronuncia, pertanto, pare fornire almeno due riflessioni.

La prima consiste nel fatto che, pur essendo le società unipersonali in linea generale destinatarie delle disposizioni del d. lgs. n. 231/01, ciò tuttavia non si traduce in una applicazione dello stesso automatica. Il giudice, infatti, è tenuto ad effettuare un accertamento circa la sussistenza dei criteri oggettivi e soggettivi di imputazione della responsabilità agli enti nel caso di specie. In particolare, con riferimento al criterio di ascrizione oggettivo, ovvero alla sussistenza dell’interesse o vantaggio che l’ente ha tratto dal compimento del reato-presupposto, è necessario verificare l’esistenza di questo collegamento strutturale ma soprattutto funzionale. Ciò deve essere verificato innanzitutto andando ad osservare l’oggetto sociale (rectius: l’obiettivo da perseguire istituzionalmente stabilito dall’impresa organizzata secondo lo schema societario), per capire se l’atto posto in essere rientri oppure in detto ambito; in secondo luogo, poi, bisogna verificare se la società sia effettivamente “attiva” oppure no, perché, nel secondo caso, abbiamo un indice circa l’utilizzo dello schermo societario in vista del perseguimento di finalità ad esclusivo interesse del socio; ancora, dopo, se l’attività che è stata svolta dalla persona fisica abbia oppure no delle ripercussioni di segno positivo nella sfera della persona giuridica, poiché in questo caso potrebbe sussistere un interesse dello stesso o, quantomeno, ne ha tratto vantaggio; da ultimo, infine, bisogna osservare i rapporti tra socio unico e società, perché, l’opacità nel compimento di queste operazioni può ben deporre per l’accertamento di una commistione tra i due patrimoni che, pertanto, non sono autonomi.

Quando questi indici – singolarmente considerati in assenza di indicazioni di segno contrario o congiuntamente – si presentano all’interprete, ben depongono per una esclusione della responsabilità di detto ente, escludendone un interesse proprio. Infatti, è questa l’esigenza alla cui soddisfazione è preposto il comma 2 dell’art. 5 del d. lgs. n. 231/01. Quando l’ente non presenta questo collegamento di natura funzionale con i fatti commessi dalla persona fisica o, diversamente, presenta un collegamento strumentale inverso, in cui cioè è la persona fisica a servirsi della società in vista del perseguimento di un fine proprio ed estraneo al contesto sociale, è giusto ritenere che vi sia una frattura o comunque una rottura rispetto a quello schema di immedesimazione organica su cui tendenzialmente si fonda la responsabilità da reato degli enti.

Il socio c.d. tiranno, ovvero colui che sostanzialmente impiega le risorse del patrimonio della società in operazioni che esulano dalla realizzazione dell’oggetto sociale ed in vista del perseguimento di obiettivi personali (in una: distraendo le risorse societarie), soddisfa un interesse esclusivamente personale che, in quanto tale, richiamando l’applicazione dell’art. 5, comma 2 d. lgs. n. 231/01, esclude la responsabilità dell’ente.

 

6. Conclusioni.

La pronuncia in analisi, riassumendo sinteticamente, conduce a tre considerazioni.

La prima riguarda le imprese individuali: ad esse, dunque, non potendo essere considerate “enti”, non andrà applicata la disciplina della responsabilità da reato.

La seconda riguarda le società unipersonali: contrariamente alle prime, potendo essere considerate enti nei termini necessari ai fini dell’applicabilità del presente testo normativo, sono in linea generale passibili dell’applicazione delle relative sanzioni, ove incorrano in responsabilità.

Tuttavia, la loro responsabilità può eventualmente essere esclusa sulla base dell’applicazione delle regole generali di attribuzione della responsabilità all’ente, ovvero quando si accerti l’insussistenza di un interesse proprio dell’ente o a contrario un interesse esclusivo del socio unico.

In terzo ed ultimo luogo, non ci si può esimere da alcune brevi considerazioni in tema di colpa di organizzazione. Se – come l’insegnamento della Corte afferma – è vero che i criteri funzionali riguardano essenzialmente i rapporti società-socio e l’attinenza
del fatto presupposto all’oggetto sociale o meno, una riflessione in termini di contenuto del modello organizzativo va fatta (nonché sulla necessità di valutare un eventuale studio del problema e l’opportunità di aggiornare le Linee guida). Essenziale, a questo punto, sarà non solo una rigorosa disciplina in termini casistici (ovvero una predizione per tipi), procedurali e contenutistici di dette operazioni, affinché possano essere compresi eventuali punti di contatto. Sarà necessario anche che la congruità rispetto alle indicazioni contenute nel modello sia verificata dall’organo di controllo a cui saranno affidate funzioni vigilanza (escludere quindi la costituzione di un organo di controllo anche monocratico a cui assegnare funzioni di vigilanza pare impossibile). L’assenza di suddetto organo, altrimenti, sarà già causa di carenza organizzativa, ex art. 6, comma 1, lett. b) d. lgs. n. 231/01.


[1] Cass. Pen., Sez. VI, sentenza del 16 Febbraio 2021 numero 45100.

[2] Così Cass. Pen., ult. cit., p. 5:<<(…) Il tema attiene innanzitutto all’art. 1 del d. lgs. [n.] 231 del 2001, che definisce i soggetti a cui si applicano le norme del decreto stesso: ciò che è necessario chiarire è se il riferimento ai soggetti contenuti nella previsione normativa sia formale, nel senso che il microsistema delineato si applica sempre e solo ai soggetti che formalmente sono catalogati dalla norma, ovvero se vi possa essere uno scarto, una frattura rispetto al dato testuale per ritenere che un dato soggetto giuridico, pur formalmente riconducibile alla norma (es. società a responsabilità limitata, ancorché unipersonale) possa ciò nonostante, attraverso un accertamento fattuale, non essere considerato come un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici rispetto alla persona fisica autore del reato presupposto e dunque essere sottratto alla disciplina della responsabilità da reato degli enti.(…)>>

[3] Vedi, Cass. Pen., ult. cit., p. 5:<<(…) Il tema attiene cioè alla esistenza di un potere di accertamento da parte del giudice, che, di fatto, conduca ad un superamento dell’art. 1 del d. lgs. sulla base di criteri sostanziali e dunque porti a ritenere, come ha fatto il Tribunale, che una società a responsabilità limitata unipersonale, pur essendo formalmente un soggetto meta individuale, possa in realtà essere solo un’impresa individuale, con conseguente esclusione dell’applicabilità delle norme del d. lgs. n. 231 del 2001 (…)>>.

[4] Per tutti, Cfr. Pistorelli, L., L’insostenibile leggerezza della responsabilità da reato delle imprese individuali, nota a Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 15 Dicembre 2010 numero 15657.

[5] In questa rivista, vedi Costanzo, R., Imprese individuali e società unipersonali nella responsabilità da reato degli enti: storia di “gemelli diversi”, nota a Trib. Rv., sentenza del 24 Maggio 2021 numero 1056.

[6] In questo senso, Cfr. Cass. Pen., ult. cit., p. 5:<<(…) [D]unque, il d. lgs. [n.] 231 del 2001 non trova applicazione nei confronti nei riguardi dell’imprenditore individuale perché in questo caso non solo non esiste una dualità soggettiva tra autore del reato presupposto e autore dell’illecito dell’ente, ma non esiste neppure il soggetto meta individuale(…)>>.

[7] Sul punto vedi Relazione ministeriale al d. lgs. 231/01, par. 2.

[8] Corte Cost., sentenza del 8 Luglio 2014 numero 218.

[9] In questo senso anche Confindustria, Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi del decreto legislativo 8 Giugno 2001, n. 231, Giugno 2021, p. 101 ss.

[10] In questo senso anche Scaroina, E., Responsabilità da reato degli enti, Vol. I, Diritto sostanziale, in Lattanzi, G., Severino, P. (a cura di), G. Giappichelli Editore, Torino, 2020, p. 93 ss.

[11] Cass. Pen., ult. cit., p. 6.

[12] Cfr. amplius, Campobasso, G. F., Campobasso, M. (a cura di), Diritto Commerciale, 2, Diritto delle società, UTET giuridica, Milano, X Edizione, Ottobre 2020, p. 167 ss e p. 565.

[13] Il dictum dei giudici di legittimità sul richiamo agli elementi di diritto societario merita una precisazione. Il riferimento alla sola disciplina delle S.p.A. unipersonali non deve trarre in inganno, nel senso che deve essere frettolosamente liquidato come errato o improprio. L’imprecisione, a ben vedere, può unicamente dirsi di tipo topografico, se si considera il fatto che non è stata specificamente richiamata la disciplina delle S.r.l. unipersonali. Tuttavia, se si considera che con la riforma del diritto societario del 2003 le due discipline quanto ad effetti giuridici principali è stata sostanzialmente equiparata, si giunge agevolmente alla conclusione secondo cui nei suoi contenuti più pregnanti il riferimento può dirsi tutto sommato corretto.

[14] La riflessione che viene approntata tra le righe può più o meno sintetizzarsi nel modo seguente: quella moderna è la società del rischio; ciò, in altre parole, comporta che nessuno può evitare qualsiasi rischio né, soprattutto, le imprese. Queste, in linea generale, sono sottoposte a diversi rischi, che possiamo sintetizzare in rischi economici e normativi. L’ordinamento, come si evince dal raffronto tra la normativa societaria e quella para-penale, ammette la possibilità che queste responsabilità non vengano a convergere, ma mai ammette zone franche, in cui sia contestualmente possibile evitare più tipi di responsabilità. Ad esempio, chi vuole “azzerare” come ente le conseguenze derivanti dalla realizzazione di un reato può optare per una impresa individuale, senza però poter godere della responsabilità limitata. Al contrario, chi vuole godere della limitazione della responsabilità può avvalersi dello schermo societario ma, al contempo, non può esimersi dall’adempimento dell’onere organizzativo se vuole godere dell’esimente (o scusante) per la responsabilità da reato. E’ chiaro che, maggiore sarà la grandezza in termini di dimensione economica dell’ente, e quindi maggiore sarà la rilevanza e la diffusione degli interessi che la sua attività coinvolge, e di conseguenza minore sarà lo spazio di eventuali esenzioni da responsabilità. Tuttavia, se è vero che il rischio esiste sempre, chi si attiva cercando un metodo per sottrarsi a questi rischi, consapevolmente non fa altro che elaborare una soluzione volta a scaricare tali rischi su altri attori della vita economica. Si pensi ad esempio al fenomeno dell’esercizio indiretto o tramite interposizione fittizia d’impresa: il soggetto che formalmente acquista la qualifica di imprenditore è sprovvisto di garanzie patrimoniali, ragion per cui, in caso di insolvenza, il peso definitivo del debito sarà sopportato da coloro i quali avevano concesso credito a quest’ultimo, nulla potendo ricavare da una eventuale esecuzione concorsuale. Così, riportando la questione allo spazio punitivo qui considerato, chi costituisce attività di impresa ragionando in termini di rischi normativi – e da reato – prima ancora che di rischi economici, è sintomatico di un soggetto che nasce con una predisposizione genetica per il compimento di attività illecite. Ciò lo si deduce dal fatto che, se non ritiene il rischio del fallimento preminente, potrebbe già aver trovato un modo per neutralizzarlo oppure, perché, semplicemente c’è chi se lo “accolla” ( o a cui l’ha scaricato). In tali situazioni, il controllo è deputato ad altra disciplina, quale quella di cui al d. lgs. n. 159/2011 e successive modifiche.

Queste considerazioni, che in questa sede trovano piena maturazione, avevano già trovato anticipazione in precedente lavoro; vedi, in questa rivista, Costanzo, R., ult cit., p. 10 ss.

Lascia un commento